Carlo Manziana e la Resistenza bresciana

Cari amici e colleghi, cari Padri,

ringrazio la Cooperativa cattolico-democratica di cultura per l’occasione che mi offre di ricordare – in questa che per tanti anni fu la sua casa – la figura luminosa del p. Carlo Manziana a 70 anni dal suo impegno nella Resistenza, dalla sua deportazione a Dachau e dalla sua liberazione. La gratitudine si accresce perché insieme a lui si ricordano due grandi martiri bresciani, a lui molto legati. La sintonia scientifica e umana che ho con il prof. Mario Taccolini e con la prof. Daria Gabusi mi inducono a pensare che – pur senza esserci sentiti prima – riusciremo a sviluppare una riflessione convergente e omogenea.

Vorrei solo accennare, in premessa, che l’importanza storica generale – su un piano dovrei dire mondiale – che hanno Manziana e la Pace, ma anche Andrea Trebeschi, deriva dal loro stretto legame con Giovanni Battista Montini, dunque con una delle personalità più importanti della storia mondiale del Novecento.

Ecco perché parto proprio dalla deposizione di Manziana al processo canonico per la beatificazione di Montini. Egli affermò in quella sede:

           Durante il periodo della II guerra mondiale, che impegnò Giovan Battista Montini, ormai divenuto Sostituto alla Segreteria di Stato, personalmente potei apprezzare il suo zelo a vantaggio di coloro che erano stati travolti dalla bufera nazi-fascista, tra i quali vi era l’avv. Andrea Trebeschi, suo fraterno amico, ed io personalmente. [ Quando fummo] Deportati nel campo di concentramento di Dachau[,] come mi risulta da un documento della nunziatura, egli chiese insistentemente notizie del Trebeschi e di me.[1]

             Se questa testimonianza ci mostra, con evidenza, il legame con Montini, che – come accennavo – è pure chiave di interpretazione storica più in generale, essa tuttavia non chiarisce la posizione iniziale di Manziana, prima della deportazione, così da spiegarci tale drammatico intervento repressivo nei suoi confronti. A questo sarà appunto dedicato il mio breve intervento.

Possiamo partire da due rapporti del 1940 uno dell’Ufficio Politico Investigativo della Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale alla Prefettura di Brescia, l’altro della Questura di Brescia, sempre al prefetto.

            Se nel fotografare Brescia cattolica, al momento dell’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, da una parte il rapporto fascista coglieva nel segno nel rilevare l’egemonia della Pace con la sua rete di rapporti che giungeva a mons. Montini, la leadership morale esercitatavi da p. Bevilacqua, un indifferentismo verso il regime che aveva le sue radici nel vecchio antifascismo popolare ma più ancora in una visione cristiana che rifiutava la religione politica totalitaria con i suoi idoli di violenza, dall’altra il bonario rapporto della Questura non aveva torto nel leggere l’impegno dei Filippini non come mera propaganda ideologica, ma come seria e scrupolosa opera di educazione e di studio, poco interessata alla politica e più alla vita morale, e vedeva giustamente nell’indicare, presentando i Padri della Pace, Manziana subito dopo Bevilacqua.

            Il p. Carlo Manziana non aveva allora ancora quarant’anni, essendo nato nel 1902, ma si era già distinto nella Comunità della Pace lavorando tra fucini e Laureati cattolici, promuovendo i “Gruppi del Vangelo”, seguendo l’Oratorio, insegnando religione al liceo, formando i giovani ad una soda pietà liturgica.

Senza dubbio Manziana non aveva nessuna simpatia per il fascismo, ma possiamo pensare che nel 1940 egli si tenesse lontano dall’antifascismo militante e si attestasse piuttosto su un antifascismo implicito. Il 21 aprile 1939 egli era stato eletto vicario del preposito p. Bevilacqua e poiché Bevilacqua doveva lasciare la Pace per un ministero di cappellano militare, Manziana fu nominato, il 20 luglio 1940, “quasi superiore” della Comunità.

Un documento, apparentemente minore, ma di grande interesse, che testimonia la partecipazione di p. Manziana alle vicende nazionali dei giovani ‘montiniani’, è conservato tra le sue carte. Si tratta di una cartolina da Camaldoli di p. Guido Martinelli. Ci sono pure varie altre firme, evidentemente di persone che erano in relazione con p. Manziana. Si distinguono le firme di Giorgio La Pira, Lodovico Montini, Laura Bianchini, Fausto Montanari. Il testo dice: “I lavori procedono bene e interessantissimi”.  La data è il 21 luglio 1943: dunque pochi giorni prima della caduta di Mussolini. Si tratta, più precisamente, dell’importante incontro che pose le basi e avviò il lavoro di quello che sarebbe stato poi il cosiddetto Codice di Camaldoli, che anche per p. Manziana sarebbe stato un costante punto di riferimento ideale nel dopoguerra.

            Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini, il periodico “Voce cattolica” di Brescia, in un commento intitolato L’ora nuova scriveva: “in questa contingenza tutti i cattolici, come sempre, devono sentirsi mobilitati spiritualmente a servizio della Patria e del popolo, per ridare indirizzo cristiano alle coscienze, restituire la retta fisionomia alle istituzioni, ristabilire la gerarchia dei valori umani sociali e politici, riprendere la propria tradizionale azione sia nel campo dell’educazione spirituale e morale che in quello della giustizia politica e sociale”. E un articolo dello stesso periodico, il 7 agosto, auspicando la rinascita dei giornali “Il Cittadino” e “La Voce del Popolo”, “massacrati dalla prepotenza”, aggiungeva: “Accanto alla stampa nostra, cui il silenzio di sì lunghi anni è costato quanto costa la vita, devono riprendere vita le associazioni operaie, le settimane sociali, le assemblee nostre, gli uffici di assistenza; deve riorganizzarsi il servizio religioso ed educativo-cristiano delle masse, devono riaprirsi i nostri cinema e i nostri teatri, devono rivivere in pieno le nostre associazioni giovanili, anche sportive”[2].

            Non appare dunque strano che, nel periodo badogliano, Manziana si attivasse a Brescia proprio nel senso auspicato dal settimanale diocesano. Egli contribuì pertanto a porre le premesse per una ripresa politica dei cattolici, compito non semplice e anzi molto difficile in quel momento, sia per la presenza tra i cattolici di antifascisti ma anche di ex-clericofascisti o comunque di esponenti di quel nazionalcattolicesimo egemone nella Chiesa del ventennio, sia perché a questa già complessa dialettica si aggiungeva e qualche volta si sovrapponeva quella tra la generazione dei vecchi popolari e dei vecchi clericofascisti della prima ora e la generazione successiva, a cui anche Manziana apparteneva, che era stata sostanzialmente afascista, impegnata in una milizia prevalentemente religiosa e di Azione cattolica e, tra i più giovani, cresciuta nelle Organizzazioni giovanili del Regime. Manziana, pensando appunto di dover lavorare nel senso di favorire l’unione, la convergenza, la concordia riconciliatrice, promosse una assemblea per un primo confronto. Tuttavia l’inaspettato arrivo da Roma dell’ex-parlamentare bresciano del Partito Popolare Giovanni Maria Longinotti suscitò scompiglio e qualche intemperanza, di cui lo stesso Longinotti fu vittima. Si ricordi che Longinotti era amico di famiglia dei Manziana e dei Montini e che aveva aiutato sia il giovane Giovanni Battista Montini sia il giovane Carlino Manziana nei loro primi anni romani e si ricordi pure che all’avvento del fascismo Longinotti aveva avuto una polemica con Andrea Trebeschi a proposito dell’atteggiamento dei giovani cattolici, che Longinotti riteneva pilatesco e poco antifascista.

            Alle lamentele di Longinotti, dunque, per l’andamento dell’assemblea bresciana, Manziana rispose, il 31 agosto 1943, con una lettera che merita di essere citata ampiamente perché esplicita, con chiarezza, con quali intendimenti egli allora si muovesse:

             Carissimo Onorevole,

            […] Non le nego che la Sua lettera ha aggiunto nuove amarezze al mio animo già gravato da preoccupazioni e da sofferenze che la illusoria atmosfera di libertà non ha potuto alleviare. Comunque Le sono grato di avermi parlato con paterna sincerità anche se sulla mia persona si sono fatte pesare responsabilità che non ha, sia perché la mia posizione e la mia influenza sono sempre state molto modeste nel campo cattolico bresciano, sia perché si attribuisce ai cosiddetti giovani, e quindi indirettamente a me, un atteggiamento che non corrisponde a verità.

            Mi permetto di usare con Lei altrettanta franchezza che non vuol però essere disgiunta da quell’affetto filiale che ho sempre avuto per Lei per consuetudine familiare e per motivi di particolare riconoscenza.

            Quando, per la responsabilità di assistente dei laureati e degli universitari e per quell’ovvia sensibilità delle esigenze del tempo presente, mi sono adoperato per riunire per la prima volta gruppi che in passato, in sedi diverse e con intenti diversi, si erano formati, non avevo preveduto la possibilità della sua presenza, né quando Lei con vivo amore per le cose bresciane ha affrontato il viaggio, ho ritenuto fosse desiderabile. La ragione è questa: conoscevo lo stato d’animo di alcuni – e non sono i giovani – e purtroppo li sapevo non privi di preconcetti a carico dell’uno o dell’altro. Ogni preparazione dell’assemblea poteva suscitare sospetti. Lei stesso ne è stato testimone: il fatto solo che il buon Salvetti si fosse messo al tavolo di segretario, che Lei e Ludovico [Montini] fossero certo lì insieme – minuzie, certo! – furono elementi su cui si è costruito tutto un castello e io stesso sono passato per l’assistente ecclesiastico di una cricca Longinotti-Montini-Togni-Banca S. Paolo etc.! in seguito a questo e anche perché s’aggiunsero ai prevosti mons. Bosio e Don Almici, ma soprattutto perché ho ritenuto, d’accordo con P. Bevilacqua, che non convenisse a un Padre della Pace scendere apertamente in campo politico, non ho più partecipato ad adunanze né più direttamente mi sono interessato della faccenda. Ringrazio Dio che ha permesso che battuto a destra e a sinistra io ritrovassi la mia libertà di prete che non dimenticherà certo di formare nei giovani una coscienza sociale e politica, ma che si guarderà bene dall’entrare in un campo che può trovare tante suscettibilità e può allontanare le anime.

            Per conto mio avrei desiderato che la Sua venuta a Brescia avvenisse ad accordo concluso tra le diverse tendenze e che i giovani che non la conoscevano, potessero vederla in atmosfera meno turbata di quella triste giornata così da apprezzarne la sostanziale qualità di uomo politico. Ma ora l’accordo c’è e le nomine avvenute sono un primo frutto dell’intesa. So che domani vi sarà una riunione. A me ora non spetta che il compito di pregare e di consigliare.

            Non le nascondo che la situazione generale sia tale da farmi dimenticare i contrasti di ordine interno per preoccuparmi della sorte della nostra povera Italia specialmente perché vedo negli animi un pauroso disorientamento al quale non ultimo contribuisce il pullulare di partiti politici, considerati elementi disgregatori della vita nazionale.

            Caro onorevole, vorrei pregarla di non voler più tornare su questo doloroso incidente. Ormai la mia posizione è rigorosamente segnata, so che Lei forse non approverà questa separazione, ma io non dubito che non riuscirà a sciogliere i legami dolcissimi di affetto che mi legano a Lei e alla Sua Famiglia. Con affetto filiale la ricordo all’altare. Suo P. Carlo Manziana[3]

             Ma questi propositi di estraniazione, separazione, lontananza dalle vicende politiche e civili non ressero all’incalzare degli eventi. Del resto nella stessa lettera a Longinotti Manziana faceva riferimento alla “sorte della nostra povera Italia” che poteva fargli dimenticare i contrasti interni (e i propositi di disimpegno).

            Dopo l’8 settembre 1943 anche per Manziana venne, dunque, il cruciale tempo della scelta, che egli dovette prendere senza tentennamenti ma come un rigoroso dovere di coerenza. Il 13 settembre egli partecipò, insieme – tra gli altri – a don Giuseppe Almici, Andrea Trebeschi, don Luigi Doffini, Pietro Bulloni, Leonzio Foresti, Guido Salvadori, ad una riunione di cattolici nella canonica della chiesa di S. Faustino: in tale riunione fu affidato ad Astolfo Lunardi il compito di organizzare il movimento dei ribelli nella città e a Riccardo Testa nella campagna.

La Pace divenne dunque, per merito di Manziana, uno dei primi e più importanti centri organizzativi nella nascente resistenza bresciana. Manziana allora, come è stato scritto, “Si impegnò in molti, difficili e pericolosi incarichi: dalle segrete discussioni coi giovani – tra loro sarà presente anche Teresio Olivelli – all’animazione dei primi tentativi di dar vita alla stampa clandestina, all’aiuto a gente perseguitata, all’ospitalità di riunioni politico-militari, alla custodia e alla discreta amministrazione  dei fondi destinati a sovvenzionare i ‘ribelli’ in città e nelle valli. Così, ad esempio, il 21 novembre ’43 Andrè Petitpierre, un industriale che aveva la doppia nazionalità italiana e svizzera, in un breve rientro clandestino dalla Svizzera dove si era stabilito per incarico del comitato antifascista cittadino, gli fece pervenire, attraverso il fratello Sandro, un primo contributo di 400 mila lire, avuto dai Servizi speciali degli Alleati”[4]. Vi era il progetto di realizzare una radiotrasmittente e giornali clandestini, quale fu “Il ribelle”. Non è dunque strano che, in quel momento, don Carlo Comensoli, parroco di Cividate Camuno, inviasse qualcuno alla Pace per chiedere direttive operative[5] (peraltro Manziana, negli anni precedenti, era stato in Valcamonica per rimettersi dai suoi problemi di salute).

            Ma quello che più conta osservare, sul piano storico, è che proprio attorno a Manziana e con la mediazione della sua riflessione teologica si coagulò un gruppo di giovani che, approfondendo le basi etico-giuridiche del diritto di resistenza, maturò il proprio interiore distacco dal fascismo e giunse alla convinzione del dovere cristiano di ribellione per amore e non per odio. Tra quei giovani vi erano Andrea Trebeschi, Emiliano Rinaldini, Teresio Olivelli, Franco Feroldi, Mario Bendiscioli, Peppino Pelosi e altri. Sotto la guida di Manziana questo gruppo di giovani cattolici condivise – per usare le parole di p. Carlo – “l’esigenza di rottura con un passato decadente ed inautentico (quello della cultura fascista nutrita di orgoglio, a cui Olivelli aveva partecipato nella convinzione di potervi inserire dottrina e pratica cristiana), l’esigenza di celebrazione effettiva di gerarchie di valori, di dinamismo costruttivo e di giustizia sociale”[6]. Gerarchie di valori, dinamismo costruttivo, giustizia sociale: sono le tre categorie fondamentali per comprendere tutto il successivo impegno di Manziana, nelle mediazioni tra fede cristiana e ambito socio-politico. In particolare la “giustizia sociale”: ancora nel 1977 Manziana ribadiva che “la nostra «resistenza» […] non implicava soltanto una rivendicazione di libertà ma anche una rivendicazione di giustizia sociale”[7].

Certo, allora, dopo l’8 settembre, il gruppo del “Ribelle” era, in effetti, il gruppo della Pace. Lucida e precisa, a questo proposito, appare la testimonianza di Bendiscioli: “Padre Carlo partecipava dunque intensamente alla vita dei giovani, specialmente di quelli più maturi che avvertivano la crisi del paese […]; specie di quelli che proprio dalla propaganda di giornali e radio, per reazione, si sentivano spinti ad agire con un impegno nuovo. E nell’autunno del 1943 egli, con una responsabilità che in certi momenti dinnanzi alle conseguenze gli apparirà tremenda, non solo ha riconosciuto in giovani a lui assai vicini, che si ribellavano a tedeschi e neofascisti, la legittimità della decisione, ma ne ha avvertito tutto il senso morale e religioso, oltreché politico, confortandola colla propria decisione e col proprio impegno. Per p. Carlo Manziana, nell’intimo uomo d’ordine, la ribellione all’autorità che si pretendeva legale e riusciva ad imporsi solo coll’inganno e l’intimidazione, costituiva una lacerazione che solo nella profondità della coscienza e nell’imperativo della carità cristiana trovava il suo fondamento e le risorse dell’azione”[8].

            Ed è sintomatico che il giovane Giulio Cittadini, poi divenuto religioso filippino, quando si unì alle formazioni partigiane valdostane, scelse, in onore di Manziana che era già stato arrestato, il nome di battaglia Manzio[9].

            In effetti, dai primi rastrellamenti compiuti dai nazifascisti e dai pesanti interrogatori degli arrestati, trapelarono notizie che condussero a vari arresti. Martedì 4 gennaio 1944, alle nove di sera, agenti del controspionaggio tedesco (il Sicherheitdienst) vennero da Verona alla Pace, perquisirono lo studio di p. Manziana e lo arrestarono con l’accusa di essere venuto a conoscenza di stampa antifascista clandestina e di non averla denunciata. Nei giorni successivi vi furono altri arresti e i fermati di quei giorni avrebbero avuto destini diversi.

            Il giornale clandestino ciclostilato “Brescia Libera”, nel n. 5, che usciva con la data del 15 gennaio 1944, sotto il titolo Feste Fasciste, informava: “Per l’Epifania invece, le autorità germaniche e quella della Questura hanno voluto allietare l’intera cittadinanza con arresti e fermi di ogni sorta. Fino a 36 pare ammontino le vittime del buonumore fascista al 6 gennaio. E fra esse si annoverano Padre Carlo Manziana, l’Avv. Trebeschi, l’Avv. Feroldi, Don Giacomo Vender, l’Ing. [sic] Bendiscioli, il Geom. Visintini e molti e molti altri. E più ancora sarebbero stati i festeggiati, se ormai la prudenza più elementare non avesse appreso ai migliori dei nostri concittadini ad abbandonare le loro case e le loro famiglie”.

            Imprigionato, prima a Brescia e poi a Verona, Manziana subì già le sofferenze, le violenze e le umiliazioni della condizione carceraria. Eppure, nel momento della prostrazione, la sua forza d’animo rifulse ed egli divenne, in quel periodo di detenzione, un punto di riferimento per la resistenza spirituale. Ci soccorre, ancora, la testimonianza di Bendiscioli, suo compagno di cella: “La sua azione di animatore e consolatore aveva la manifestazione più incisiva nel commento che faceva ogni sera, dopo la recita quasi corale del rosario, alla giornata della cella: agli interrogatori, sempre conturbanti, non di rado accompagnati da brutalità e da percosse degli uni, all’attesa, nell’arrovellamento delle supposizioni, degli altri, ai calcoli di giudizio e condanne dei già interrogati, alle notizie di familiari ed amici filtrate da fuori. Ognuno di questi particolari, assieme alle miserie della convivenza, era, volta a volta, spunto della conversazione serale: nella luce delle parole del Vangelo la sofferenza di ciascuno e di tutti era come trasfigurata in fiducia e speranza. La sofferenza, nella sua parola e nel suo comportamento, otteneva una mitigazione per il significato che assumeva di umana solidarietà. […] E neppure il giorno in cui, dopo il suo più pesante interrogatorio, col labbro sanguinante spaccato da una scudisciata, pur reggendosi a fatica in piedi, p. Carlo volle rinunziare alla sua elevazione serale; parlò del senso della sofferenza accettata, della partecipazione che costituiva un modo di unirsi alla sofferenza di tanti altri. Un esponente comunista, reduce dal confino politico alle isole, che ostentatamente non partecipava alla preghiera serale, ebbe il bisogno di dirmi: «tu sai cosa io pensi di religiosi e di preti; ma il tuo amico stasera è stato grande»”[10].

            I bresciani arrestati ebbero, come si è accennato, sorti diverse: Pelosi fu fucilato, Bendiscioli rilasciato, Trebeschi e Manziana furono deportati a Dachau, dove il primo trovò la morte.

Il periodo della deportazione di Manziana a Dachau esula da questo mio contributo[11]. Mi piace tuttavia richiamarne almeno un aspetto, messo bene in luce da Massimo Marcocchi, con le cui parole concludo: “Padre Manziana fu un uomo ricco di sensibilità culturale […] La sua biblioteca rivelava il lettore raffinato […] [Ma] Quando era a Dachau, aveva scoperto per esperienza diretta come la Bibbia avesse parole che non si trovavano su altri libri, come solo di lì venisse vera consolazione e vera forza vitale. Altri testi, anche di altissima qualità spirituale, in quei frangenti si rivelavano inani, incapaci di dar voce a quella condizione umana, a quella sofferenza, di toccare il fondo di quella esperienza. La Bibbia sì, la Bibbia parlava anche ai poveri prigionieri e di loro e per loro”.

NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 12.2.2015 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Per le note consultare il file in PDF