Come dare nuovo slancio all’ecumenismo

Il tema della conversazione va collegato a quello della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno, che è “Cristo fondamento della Chiesa” (I Corinzi, 3).

Cominciamo con una domanda: ma perché bisogna dare nuovo impulso all’ecumenismo?

Quando si scriverà la storia della Chiesa del XX secolo, si dirà che è stato il secolo dell’ecumenismo. Lo stesso vale anche per le nostre biografie personali: noi siamo la generazione cristiana che ha scoperto e vissuto l’ecumenismo e che, anche nella sua esperienza personale, ha sperimentato dei cambiamenti radicali. Lo prova il fatto stesso che noi siamo qui insieme questa sera, cattolici ed evangelici, quasi come se fosse un ovvietà, non in senso banale.

Eppure noi questo lo abbiamo sperimentato come una novità epocale. Ancora adesso mi capita di incontrare a Roma, dove vivo, dei fratelli o sorelle cattolici che per una ragione o per l’altra vengono nella nostra chiesa di Piazza Cavour e ricordano di essere passati tante volte davanti a quella chiesa, negli anni quaranta – cinquanta, di aver provato il desiderio di voler entrare per vedere com’è una chiesa protestante, di averne parlato con il loro padre spirituale o con il loro insegnante di religione del liceo e di essersi sentiti rispondere: “Lì non ci puoi entrare perché è una chiesa eretica”. Le stesse persone nella loro biografia, 15-20-25 anni dopo, sono ritornati in una chiesa protestante e hanno trovato vescovi, teologi, ecclesiastici che, come se fosse una cosa normale, partecipavano ad un culto evangelico.

Quindi, da un lato, si potrebbe dire non c’è nessun bisogno di rilanciare l’ecumenismo perché siamo proprio la generazione che ha vissuto la comparsa e anche l’affermazione dell’ecumenismo, e oggi, salvo eccezioni minoritarie, in tutte le chiese cristiane si è entrati in una dimensione ecumenica. Però la domanda che è stata posta è molto acuta.

Nonostante siamo la generazione cristiana che ha vissuto l’irrompere dell’ecumenismo dopo secoli e, per certi versi, oltre un millennio di divisioni, se ci poniamo questa domanda è perché ne avvertiamo l’urgenza. E la domanda mi sembra tanto più spiritualmente pertinente proprio nel momento in cui ricordiamo insieme, ecumenicamente, i quarant’anni dalla Dichiarazione Conciliare, che per quel che riguarda la chiesa cattolica romana e noi in Italia, ha contrassegnato l’apertura della stagione ecumenica.

Ho già dovuto fare diversi discorsi in occasione del quarantesimo anniversario della Dichiarazione Conciliare sull’ecumenismo e ogni volta bisogna, con gratitudine, sottolineare il fatto che si è trattato di una svolta epocale per quanto riguarda noi protestanti; il Concilio Vaticano II e, soprattutto, le sue conseguenze, hanno portato alla scoperta del protestantesimo in Italia.

Fino a quel momento nella maggior parte degli italiani era diffusa in Italia l’idea che il protestantesimo fosse una forma del cristianesimo sviluppatasi e valida per altri paesi europei, ma che in Italia non avesse alcuna rilevanza e incidenza. Se il protestantesimo, invece, nella sua dimensione di confessione cristiana e di proposta culturale è stato scoperto in Italia, ciò è avvenuto grazie al Concilio; lo stesso vale per i più importanti teologi protestanti del XX secolo che sono stati conosciuti in Italia per merito dell’editoria cattolica che – in parte già prima, durante, ma soprattutto dopo il Concilio – ha veicolato, tradotto, diffuso in Italia il pensiero protestante.

Eppure noi oggi avvertiamo che questa svolta epocale, questo cammino quarantennale in qualche modo non è così ovvio, non è così garantito, per cui ci chiediamo se non sia necessario dare nuovo impulso all’ecumenismo. Perché dopo queste svolte epocali della seconda metà del XX secolo, sentiamo che siamo in una fase di stallo o di non ovvietà, per cui noi che crediamo nel dialogo ecumenico ci chiediamo come fare a rilanciarlo, ad incrementarlo.

Io vi propongo due fattori di preoccupazione.

Il primo è questo: sentiamo che alcune speranze non si sono realizzate, avvertiamo una sorta di disillusione. Avevamo grandi progetti, ci immaginavamo che, date le premesse, i progressi avrebbero dovuto svilupparsi più rapidamente e, invece, ci troviamo di fronte ad ostacoli, resistenze a volte passi indietro su cui non facevamo conto. Il Concilio fu veramente vissuto come una sorta di primavera. Si ebbe l’impressione che si aprissero delle prospettive del tutto nuove non soltanto sul piano ecclesiale, ma anche sul piano sociale, politico, dopo la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio, la guerra fredda.

Il Concilio rappresentò anche la scoperta o il sogno, tutte e due, che era possibile, per esempio, intavolare un dialogo con quel mondo moderno con cui la Chiesa Cattolica, dai tempi di Pio IX in poi, sembrava dover porsi in termini di una contrapposizione frontale e radicale. La generazione che ha vissuto il Concilio è la generazione che ha sognato e in gran parte visto possibilità di entrare in dialogo con il mondo moderno, entrare in dialogo con le altre religioni e tanto più di poter avviare un confronto fraterno, intracristiano con le altre confessioni religiose. Per questo ha avuto una certa fretta, aveva delle attese e la grande volontà di realizzarle.

Quarant’anni dopo, da un lato, si verifica che la realizzazione di queste attese è più difficile di quanto non sembri. Si registra che negli ultimi quarant’anni mai come prima le Chiese, a gruppi, a coppie, con tutti gli incroci possibili e immaginabili, hanno dialogato tra di loro e hanno prodotto documenti anche molto avanzati; eppure, a tutto questo lavorio, non sono seguiti ancora i passi decisivi che porterebbero al riconoscimento, al mutuo riconoscimento tra le Chiese, per esempio all’intercomunione.

E quindi proprio la generazione dei sognatori, dei pionieri, dei promotori che si avvia alla conclusione della sua biografia terrena, che ha tanto combattuto e investito, registra tutti i progressi, ma anche lo scarto che c’è tra le attese che c’erano e quello che abbiamo raggiunto.

Vorrei fare anche un’altra considerazione, che forse è la cosa più seria di quelle che voglio dire questa sera: le generazioni più giovani, che non hanno vissuto l’orrore dei campi di sterminio e la seconda guerra mondiale, che non hanno vissuto la guerra fredda e quindi non hanno partecipato alle speranze, alle attese, ai propositi, a tutto quello che noi mettiamo sotto il capello “primavera del Concilio”, non hanno più la coscienza di quello che è stato, di quello che si voleva che fosse, di quello che poteva essere.

Io sono abbastanza turbato, vi confesso, mi esprimo molto colloquialmente perché siamo fra amici, se faccio il confronto, ad esempio, tra padre Cittadini e monsignor Riva di Roma, e la media dei pastori valdesi e dei parroci cattolici quarantenni che io conosco, i quali, da un lato considerano che l’ecumenismo, il dialogo con il mondo moderno sono delle ovvietà, ma al tempo stesso non sono in grado di valutarne la portata spirituale e per certi versi inaudita.

Quindi non soltanto noi oggi dobbiamo preoccuparci di dare nuovo impulso all’ecumenismo per i motivi sopra esposti, ma anche perché la coscienza della portata di quel cammino si è affievolita. Non è soltanto un fatto sociologico, che certamente c’è; credo che ci sia proprio una svolta epocale, che la generazione del Concilio aveva, per tante ragioni, attese, tensione e impegno che oggi sono perduti, e quindi bisogna ricominciare dalla memoria.

Quando non ci saranno più quelli che raccontano cosa è successo, in campo ecumenico, tra gli anni cinquanta e i settanta, la tensione si sarà di molto affievolita e quindi quello che non sarà più vivo come esperienza viva e coinvolgente dovrà essere tenuto vivo come memoria, come racconto.

Ecco questa, secondo me, è la prima ragione per cui è giusto, anzi urgente, che noi ci poniamo il problema di dare impulso all’ecumenismo perché l’ecumenismo non è garantito, c’è soltanto nella misura in cui si avverte una tensione verso di esso. Questa tensione il ventesimo secolo l’ha avuta grazie ad una intemperie storica, ad una generazione particolare, allo Spirito Santo. Oggi questo comincia a venire meno perché molte speranze non si sono realizzate, perché una generazione di pionieri viene meno.

E qui passo al secondo punto: l’ecumenismo non è scontato affatto perché la grande sorpresa dell’inizio del XI secolo è che le religioni, nella loro versione militante, fortemente identitaria, riprendono quota. È il tempo dei fondamentalismi proprio perché la realtà ci appare sempre più complessa, sempre più insicura: non sappiamo se finiremmo vittima di qualche attentato terroristico, se la terra verrà distrutta nei prossimi vent’anni, ecc. In questo clima di insicurezza generale risorge la rassicurazione identitaria, cioè esattamente il contrario dell’ecumenismo. In tutte le religioni e le confessioni sembra che oggi vincano non le persone aperte al dialogo, problematiche, disponibili a raccogliere le sfide, come era la generazione del Concilio, ma quelli che delimitano, che chiudono.

I tempi che viviamo sembrano quindi avversi a tutto ciò l’ecumenismo richiede, cioè che noi siamo dubbiosi su noi stessi, critici su noi stessi, disponibili alla complessità, fidando soltanto in Dio. Credo che se facessimo un inchiesta ce ne accorgeremmo anche da dati molto empirici; credo che gli studenti di teologia che si preparano a diventare sacerdoti cattolici, come i miei allievi, sono più interessati ad una rassicurazione sulla definizione militante della loro posizione di quanto lo fosse la mia generazione.

Quindi, da un lato, la disillusione, in quanto pensavamo di aver imboccato una strada che ci avrebbe rapidamente riportato alla riconciliazione tra le Chiese cristiane e, dall’altro lato, i tempi che viviamo ci propongono a tutti i livelli l’idea che per essere sicuri della propria identità bisogna essere delimitati e aggressivi.

Allora per questa ragione bisogna dare nuovo impulso all’ecumenismo, perché siamo in una fase di stanca, da un lato, ma siamo anche in un’epoca in cui l’ecumenismo, come atteggiamento mentale, come modo spirituale di porsi davanti alla realtà, è controcorrente.

Come si può dare nuovo impulso all’ecumenismo? E su questo vorrei concludere con qualche riflessione. Non so se qualcuno di voi lo ha letto il documento del sinodo Valdese sull’ecumenismo del 1998. Si conclude citando un verso della seconda lettera di Pietro che dice: “non è ancora manifesto quello che noi saremo”. Il testo afferma che tutto quello che noi abbiamo è importante, ma quello che diventeremo nel compimento escatologico delle promesse di Cristo non è ancora rilevato, per cui siamo in una dimensione di attesa, ma anche di incompiutezza. Questo documento sinodale valorizza paradossalmente, ma è un paradosso molto fecondo, quella che è la più grande spinta all’ecumenismo: l’incompiutezza, cioè il riconoscere tutti insieme che non siamo ancora totalmente realizzati. Per quello che abbiamo, che è tanto, dobbiamo ringraziare ogni giorno il Signore, perché ce lo dà, ma siccome non è ancora il tutto che ci è promesso, tutti manchiamo di qualcosa. Siamo accomunati, da un lato, da quello che abbiamo, ma siamo accumunati anche da quello che ancora manca a tutti. Allora questa dimensione dell’attesa, della speranza, del compimento dovrebbe essere il primo movimento, la più grande spinta all’ecumenismo.

L’ecumenismo vuol dire che noi siamo tutti incompiuti, in attesa, ed è proprio la coscienza di questa incompiutezza, della nostra imperfezione.

Tutti i fondamentalismi, al contrario, veicolano l’idea la propria chiesa è perfettamente corrispondente a quello che Dio chiede, anzi, aggressivamente corrispondente.

L’ecumenismo invece sviluppa la consapevolezza che siamo nella storia e non ancora nella pienezza, non viviamo ancora il regno di Dio. Quindi siamo tutti cristiani, di confessioni diverse, gente che aspetta, che chiede, che prega, che aspetta con fiducia, ma appunto sa di non essere ancora arrivata. Inoltre falliamo, sbagliamo, travisiamo.

L’inautenticità dei nostri cristianesimi è così poco di moda nei nostri tempi. Nessuno oggi è disposto a rileggere la propria storia in termini autocritici, perché pensa subito che questo significhi essere deboli oppure portare acqua al mulino dell’avversario. Pensate a tutto il discorso sull’Europa cristiana, a questo orgoglio rinascente sulla civiltà cristiana, anche da parte di chi non sa neanche che cosa sia il cristianesimo. Dobbiamo rilanciare l’ecumenismo avendo il coraggio di riconoscere la nostra incompiutezza e anche la nostra fallibilità di cristiani.

Mentre la Chiesa valdese, nel Sinodo dell’anno scorso, ha deciso di riflettere sulla crisi che la attraversa, ho pensato si trattava di una riflessione puramente interna. Rilanciare l’ecumenismo a partire dalla nostra incompiutezza non potrebbe essere che un cattolico guidi gli approfondimenti e stimoli il Sinodo valdese e un valdese la CEI, prescindendo dalla politica, cioè giocandolo su un piano assolutamente spirituale. Voi capite come cambierebbero le cose, perché noi normalmente, la nostra incompiutezza cristiana, ce la giochiamo appunto ognuno per noi stessi. Proviamo ad immaginare che sia possibile un ammonirci ed un esortarci reciprocamente, come dice Paolo nella lettera ai Tessalonicesi. Intanto, come minimo, ci rafforzeremmo entrambi, ci edificheremmo entrambi, ma forse ci sarebbe dato di più, come succede in Paolo, cioè che effettivamente l’uno riesca a dire la parola all’altro che lo aiuta a prendere coscienza di se stesso.

Quindi questo sarebbe il primo modo in cui potremmo aiutarci a rilanciare l’ecumenismo, ad essere gli uni i pastori degli altri a partire dalla coscienza della nostra incompiutezza di cristiani.

Passo ora al secondo e penultimo punto. Io penso che noi dovremmo per rilanciare l’ecumenismo valorizzare il Credo. Le chiese protestanti, cattoliche e ortodosse hanno esattamente lo stesso Credo. Lo diciamo fin nei minimi particolari. Questa è una cosa che va ribadita con grande forza spirituale proprio di fronte a questi quarant’anni di dialoghi bilaterali a volte frustanti.

Allora, prima di parlare di inverno dell’ecumenismo, proprio in questo intemperie, io dico di prendere sul serio il Credo. Allora se uno, come succede, riesce a dire fino in fondo con totale convinzione tutte le cose che sono scritte nel Credo, che cosa volete che siano gli incidenti di percorso, le impuntature dell’una o dell’altra chiesa. Chi se ne importa se oggi noi non siamo capaci di ribadire altro che il fatto che l’intercomunione non è possibile, se però confessiamo insieme il Credo.

Se confessiamo insieme il Credo vuol dire che ci dobbiamo un riconoscimento cristiano.

Quindi io credo che noi dobbiamo valorizzare ciò che ci riunisce ma non nel senso dell’irenismo, ma nel senso pregnante della confessione di fede. Abbiamo le stesse scritture, lo stesso Credo: alla fine chi conta di più?

Ultimo punto: per rilanciare l’ecumenismo bisogna valorizzare gli incontri personali. Anche l’ecumenismo, come l’evangelizzazione, avviene da fede a fede .

In questi quarant’anni è questo il frutto più grande dell’ecumenismo. Sì, abbiamo un documento sui matrimoni misti che risolve molti problemi, abbiamo un accordo tra riformati e cattolici sulla giustificazione, ma la realtà più grande è che ci siamo incontrati fra cristiani.

Spero non lo sentiate come una cosa demagogica, io però ne sono molto convintodell’importanza fondamentale del legame che si è stabilito tra di noi, non astrattamente perché abbiamo sottoscritto un documento, ma perché in quarant’anni abbiamo avuto decine di serate come queste, leggiamo regolarmente la Bibbia insieme, ci scambiamo delle lettere personali. Insomma, si è creata tutta una rete di relazioni, in cui ci siamo scoperti affratellati nella stessa fede nella coscienza della nostra incompiutezza di cristiani.

Ecco, per dare nuovo impulso all’ecumenismo, bisogna coltivare il dono del rapporto da fede a fede, del legame di cuore, anche quando ci è impedito un legame più stretto su altri piani. Questo che sembra poco è forse la cosa prioritaria. Se abbiamo questo legame, come lo abbiamo più di quanto non pensassimo, allora semplicemente coltivare questo legame non è una scelta così remissiva, non è un far buon viso a cattivo gioco.

Forse è il vero punto archimedeo , il vero fulcro di tutto l’ecumenismo, perché non è semplicemente consonanza di amici, ma è mutua consolatio fratrum, è parenesi reciproca di gente che non ha in comune semplicemente alcuni anni intensi della propria biografia, ma che ha in comune Cristo, fondamento della Chiesa e lo stesso Credo che recita ogni domenica mattina nel suo culto.

Succeda quel che succeda, io voglio dare più peso a questa dimensione spirituale che all’ultima valutazione degli ultimi dialoghi ufficiali o dell’ultima frizione tra grandi teologi o tra dirigenti ecclesiastici.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 19.1.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.