Dai "figli scrittori" i valori delle vittime

Dai «figli scrittori» i valori delle vittime
Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi: «I bresciani sono 
stati tra i primi a invitarmi a parlare»

«Ho scommesso sulla vita, cos’altro potevo fare a venticinque anni 
con due bambini piccoli tra le mani e un terzo in arrivo?» Il libro 
di Mario Calabresi, «Spingendo la notte più in là. Storia della mia 
famiglia e di altre vittime del terrorismo», contiene più di una 
risposta di questo tipo: le risposte di sua madre Gemma Capra alle 
domande dei figli – prima bambini, poi uomini – orfani del padre, il 
commissario Luigi Calabresi, ucciso nel maggio del 1972 a Milano. 
Frasi semplici e insieme spiazzanti, indiscutibili nella loro 
chiarezza e al tempo stesso commoventi, portatrici come sono di una 
serenità cercata – e trovata – pur in un dolore indicibile.
L’anno scorso, in occasione dell’anniversario della strage di piazza 
della Loggia, Gemma Capra era stata invitata a Brescia dalla 
Cooperativa cattolico-democratica di cultura e dalla Casa della 
Memoria per partecipare a una serata intorno al volume «Sedie vuote. 
Gli anni di piombo dalla parte delle vittime», che raccoglie le 
conversazioni tra un gruppo di studenti dei licei e dell’Università 
di Trento e dieci parenti di vittime del terrorismo e delle stragi. 
Un grave lutto familiare l’ha trattenuta a casa. Dodici mesi dopo 
accetta di parlare dell’esperienza con i giovani trentini. Ma anche 
di altro.
Che cosa significa fare memoria degli «anni di piombo» con i giovani 
di oggi?
«Ciò che conta è passare loro il testimone di questa storia recente 
eppure poco conosciuta. E io, attraverso l’esperienza di "Sedie 
vuote", ho la sensazione di averlo fatto, di aver trasmesso una 
memoria che però non sa di morte, ma di vita. È stato infatti 
centrale consegnare nelle mani di questi ragazzi i valori delle 
vittime degli anni di piombo: persone che lavoravano come se 
svolgessero una missione, con passione e apertura al dialogo. 
Un’apertura che disturbava i progetti di rivoluzione».
I ragazzi come hanno risposto?
«I giovani hanno voglia di conoscere e capire. Certo hanno anche 
bisogno di stimoli, ma non sono qualunquisti come li si descrive. 
Quelli di Trento me li ricordo tutti qui, nel mio salotto, non 
c’erano più sedie libere… mi hanno davvero "riempita", nel senso 
che mi hanno dato moltissima gioia. In questo sta la risposta alla 
loro domanda su come ho fatto a superare quel che mi è accaduto: 
oggi, dopo anni, mi sento di dire che ce l’abbiamo fatta; perché io 
non mi sono mai sentita sola. C’è chi mi ha detto una parola, chi mi 
ha dato una stretta di mano e chi una carezza.
Ma c’è anche un altro discorso da fare: i giovani devono avere 
memoria di quel che è stato perché non si ripeta».
Negli ultimi anni sono usciti diversi libri scritti da parenti delle 
vittime, soprattutto da figli. La ragione è semplicemente 
«anagrafica» o c’è dell’altro?
«È cambiato anche l’atteggiamento pubblico. Grazie al Presidente 
Napolitano abbiamo la Giornata della memoria delle vittime del 
terrorismo e della stragi; e già prima Ciampi aveva assegnato le 
medaglie d’oro alla memoria dei poliziotti caduti. Prima lo Stato era 
un po’ assente, probabilmente era impreparato… ma c’è stato un 
cammino di avvicinamento alle famiglie. E quando ci si sente cercati, 
si esce allo scoperto, come hanno fatto questi figli. Che, con le 
loro testimonianze, hanno saputo restituire alle vittime la loro 
quotidianità, la loro umanità, i loro valori. Perché le vittime erano 
diventate dei simboli, ma questo non va bene, è pericoloso che un 
uomo sia spogliato della sua umanità, della sua quotidianità, come lo 
stesso terrorismo ha dimostrato».
Molti parenti delle vittime provenienti da esperienze diverse si sono 
avvicinati gli uni agli altri, si sono cercati. Lei quale legame 
sente con Brescia e con i familiari delle vittime della strage di 
piazza della Loggia?
«Brescia è una città che ho sempre amato: i bresciani – tra cui 
Manlio Milani, che stimo moltissimo – sono stati tra i primi a 
contattarmi, e qui sono venuta a parlare tre o quattro volte. Le 
stragi, come quella del 28 maggio 1974, hanno sempre avuto l’effetto 
di piegarmi; penso poi che il fatto di non avere ancora dei colpevoli 
renda tutto ancor più doloroso: in una condizione del genere è 
impossibile voltare pagina, provare a ricominciare a vivere (non dico 
pronunciare la parola "fine", che è impossibile in ogni caso)».
A proposito di incontri, l’anno scorso lei ha incontrato la vedova di 
Giuseppe Pinelli al Quirinale. Una stretta di mano finita su tutti i 
giornali, insieme a parole come «pacificazione»… Ma per lei che 
cosa ha rappresentato quel momento?
«Per me è stata una liberazione incredibile. Quando sono stata 
invitata, per un momento ho provato una grande ansia. Poi mi sono 
fermata a pensare, e ho riflettuto sul fatto che la sofferenza 
accomuna le persone. Era la politica a volere me e la signora Pinelli 
separate a tutti i costi. Così mi sono preparata e sono arrivata 
all’appuntamento con convinzione e grande amore. Ho sentito un nodo 
che si scioglieva, una grande felicità».
In diverse occasioni le è stato chiesto se ha perdonato, e lei ha 
risposto affermativamente. In questa sede la domanda è: come è 
riuscita – a fronte di una perdita tanto tragica e dolorosa – a 
crescere i suoi figli senza rancore, come si evince anche dalle 
pagine del libro «Spingendo la notte più in là»?
«Non è stato facile, ci sono stati alti e bassi. Ma ho ricevuto il 
dono della fede, che si è rafforzata proprio quando mio marito è 
stato ucciso. Un dono che però implica la disponibilità a mettersi 
tra le braccia di Dio. Tormentarsi con i perché, infatti, non serve; 
e la sofferenza appartiene a tutti. Allora bisogna raccogliere quel 
che resta, come dopo un nubifragio, e provare a ricostruire la 
propria vita. Cercandone la parte buona, accogliendo gli altri. 
Perché quando apri la porta della sofferenza capisci che non sei solo».

Giornale di Brescia, 28 maggio 2010