Dell’amore e delle sue forme

Il simposio in Grecia era propriamente la riunione di amici in occasione di eventi importanti della polis come la celebrazione di una vittoria poetica, sportiva o militare, di una festa o di una ricorrenza religiosa. E appunto “Simposio” si intitola il dialogo artisticamente più riuscito di Platone, scritto sui quarant’anni, nel pieno vigore del suo genio. In esso il discepolo di Socrate narra della riunione degli amici di Agatone, in casa sua, per festeggiare la vittoria conseguita con la rappresentazione della sua prima tragedia, che era stata applaudita da trentamila elleni. A pranzo quasi finito, il medico Erissimaco invita a moderare le libagioni, per poter conversare rimanendo sobri, e propone di accogliere il desiderio più volte espresso da Fedro di pronunciare discorsi celebrativi in onore di Eros, troppo trascurato dai poeti. Anzi, ognuno dei sei convitati avrebbe pronunciato il suo elogio di Eros.
La scena del “Simposio” è festiva e il tono dei discorsi è perciò inevitabilmente scherzoso; Platone, però, attraverso la gaiezza delle battute e la diversità dei punti di vista apre il varco alla serietà più alta. Quattro interventi servono ad una ricognizione dei possibili aspetti del problema. Sono quelli di Fedro, di Pausania, di Erissimaco e di Agatone, nei quali viene rappresentato ciò che Eros non è, ma anche i loro discorsi sono introduttivi, per così dire, alla comprensione di una verità più profonda. Il primo a tessere l’elogio di Eros è Fedro, un esteta che fonda la propria autorità su quella dei poeti. L’Eros, come è inteso da Fedro, infonde nell’amante la disposizione a compiere qualsiasi atto di valore, pur di meritare l’ammirazione dell’amato, e l’amore più alto non è quello tra maschio e femmina, ma il rapporto tra due uomini. Sulla stessa linea, ma con qualche elemento di significativa novità, si muove Pausania, il secondo oratore. Pausania ricorda che persino nella mitologia si contrappongono una “Afrodite celeste” e una “Afrodite volgare”. E poiché Afrodite è madre di Amore, bisogna distinguere fra un “Amore volgare”, che ha per unico oggetto il corpo, e un “Amore celeste”, che conduce ad un’unione di spiriti ed è posto al servizio della virtù. Anche per Pausania l’amore di un uomo per una donna appartiene comunque all’ordine più basso. Il medico Erissimaco, che si ispira ai filosofi naturalistici e in particolare ad Eraclito, afferma che la natura è tutta intessuta di opposti; la scienza e la saggezza consistono nel temperare i contrari, l’uno con l’altro, in giusta proporzione. E l’Eros vuol raggiungere appunto, nel suo proprio ambito, l’armonia degli opposti, che è una legge universale. L’ansia verso un’armonia superiore e la completezza dell’essere accomunano gli elogi che dell’Eros tessono Fedro, Pausania ed Erissimaco: in essi è dato cogliere qualche frammento di verità, ma non si riesce a indicare né il termine assoluto in cui l’armonia si compie, né l’oggetto proprio dell’amore.

Col discorso di Aristofane, notissimo scrittore di commedie, si guadagna un nuovo e più comprensivo punto di vista sull’amore; la vetta, però, sarà toccata solo al termine da Socrate. Secondo la favola raccontata da Aristofane, in origine vi erano tre sessi: il doppio maschio, la doppia femmina e il maschio-femmina o androgino. Questi esseri – ciascuno dei quali aveva quattro gambe, quattro braccia e una testa bifronte – erano così forti e superbi da minacciare il Cielo. Zeus spaccò allora ognuno di essi dall’alto in basso. Da quel momento ogni creatura umana va appassionatamente alla ricerca dell’altra sua metà. L’Eros è dunque coscienza dolorosa di ciò che manca ad ognuno ed è aspirazione dei due a farsi uno. Le parole poste sulla bocca di Aristofane sono tra le più belle e vere del dialogo: “Non sembra che il piacere d’amore sia la causa che fa stare insieme gli amanti con così grande attaccamento. E’ invece, evidente che l’anima di ognuno di noi desidera qualche altra cosa che non sa dire, oppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi”.
Penultimo nel tessere le lodi di Eros è il padrone di casa, Agatone. Il suo è un discorso di raffinata fattura, piacevole ad udirsi, ma vuoto di pensiero. In contrapposizione ad Agatone, Socrate dimostra facilmente che Eros non è “bello e buono”, ma è desiderio del bello e del buono. Risulta dunque essere qualcosa di mezzo tra il sensibile e l’intelligibile, tra gli uomini mortali e gli dei immortali, un essere “intermedio”, un demone mediatore tra l’umanità e la divinità. La sua nascita, del resto, risponde alla sua funzione. Figlio di Poros e di Penia, Eros è povero e bisognoso come sua madre, ma ha in sé, strutturalmente la capacità del padre di acquisire ciò che vuole con perspicacia ed espedienti. Essendo nato durante una festa in onore di Afrodite, Eros diventa seguace e ministro di Afrodite, ossia amante della bellezza impersonificata dalla dea. Allo stesso modo, Eros non possiede la verità, ma muove alla sua ricerca con entusiasmo, senza posa. Dio solo ha il possesso integrale della verità e lui solo è dunque sapiente; al lato opposto v’è l’ignoranza di chi non avverte neppure l’esigenza della verità. Eros è dunque “filosofo” nel senso più proprio del termine, perché non ha la sapienza, la scienza del vero nella sua totalità e non possiede la visione dell’Uno a cui tutto va ricondotto, ma è lì che tende con tutta l’anima.
Il passaggio decisivo del dialogo è quello in cui Socrate, riferendo quanto ha appreso dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea, afferma che gli amanti, nel senso corrente e ristretto della parola, non solo sono desiderosi di un altro essere, a causa della bellezza che in esso risplende, ma, sempre per la stessa ragione, aspirano ardentemente a “procreare nel bello”. Infatti, soltanto generando un nuovo individuo, e facendogli prendere il posto che noi lasceremo, noi mortali pensiamo di “partecipare all’immortalità”. Ogni amore è desiderio – tacito, inconscio, o mascherato che sia – di paternità fisica, e dunque di immortalità perlomeno terrena. Questo primo gradino nella scala dell’amore è senza dubbio costituito dalla sensibilità alla bellezza corporea e, come si vede, è esattamente l’opposto dei cosiddetto amore platonico, su cui si continuano a scrivere vere e proprie sciocchezze. L’Eros dei due che si cercano in vista di diventare uno è già un mirabile inizio, ma non è che il primo gradino nella scala dell’amore. Nel secondo si passa a riconoscere la bellezza ovunque essa risplenda, amandola per sé, per il suo intrinseco valore e per ciò a cui allude e rinvia. E vi è una bellezza dell’anima anche là dove non vi è segno alcuno di piacevolezza esteriore. Socrate aveva fattezze tutt’altro che belle – aveva una brutta “faccia da Sileno”, come dice Alcibiade – ma nell’anima serbava beni di incomparabile bellezza, che metteva a disposizione di tutti. Due gradini più in su nella scala dell’amore vanno riservati alla passione intellettuale per la verità, cercata per se stessa, e alla passione politica per il bene comune e, dunque, per le leggi e le istituzioni che concorrono a far sì che la giustizia abiti negli Stati e cammini tra gli uomini. E’ la valenza teoretica e politica dell’Eros.
Quando un uomo sarà avanzato fin qui, la sua anima sarà disposta all’incontro “con l’unica e assoluta Bellezza”, la Bellezza sostanziale ed eterna della quale ogni altra, che pure ad essa rinvia e da essa deriva, appare un’ombra” o un “pallido riflesso”. E la Bellezza in sé e per sé è per Platone il Bene in sé e per sé. Occorre non fermarsi a metà del tragitto e giungere al culmine della scala d’amore: è quello, in realtà, il momento che più di ogni altro merita di essere vissuto, il nostro fine ultimo. La nostalgia dell’Uno e la sete di immortalità, di cui l’amore umano in qualche modo è il simbolo, trova qui l’approdo, nonché l’esplicitazione metafisica e religiosa.

Giornale di Brescia, 7.9.2000. Articolo scritto in occasione della rappresentazione scenica del “Simposio” di Platone.