Di fronte all’ultima nemica si gioca il nostro essere uomini liberi

Giornale di Brescia, 7 febbraio 2008.

«È proprio l’atteggiamento che assumiamo di fronte alla morte, la più assidua e angosciante delle paure, a decidere in ultima istanza della nostra vittoria o della nostra sconfitta di fronte alle perturbationes e alle cupiditates, e quindi del nostro essere o non essere uomini liberi». Così scriveva mio padre commentando Seneca e, quanto più si avvicinava inesorabilmente la fine dei suoi giorni, cresceva in me il timore che il momento finale potesse discostarsi dalla coerenza di tutta una vita.

Vi è un modo comune di pensare secondo il quale nel momento conclusivo la persona offre a chi gli è vicino la testimonianza più vera della sua vita. Non so se è sempre così, ma lo è sicuramente stato nel caso di mio padre.

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«Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Queste parole di Paolo (2 Tim 4, 7) sono state pronunciate dal papà a don Graziano Montani incontrato casualmente due-tre giorni prima che la malattia lo inchiodasse a letto. Una fede liberante, la sua, che non cerca privilegi, accomodamenti, compromessi con il potere. «Il cristianesimo ci chiede di essere come dei levrieri e noi siamo solo dei bassotti», ci disse pochi giorni prima del Natale 2006 all’ultimo consiglio della Ccdc a cui ha potuto partecipare. La sua fede non è mai stata fuga dalla vita, perché la vita è sempre stata per lui un bene da vivere intensamente, fino all’ultimo sorso. Pochi giorni prima dell’ultimo, quando vi fu un improvviso benessere, mi disse: «Vuoi vedere che anche questa volta me la cavo?». Eppure con quale pace ha partecipato dal letto alla messa celebrata da padre Cittadini e con quale serenità ha accolto l’estrema unzione, mentre noi famigliari eravamo afferrati dall’angoscia.

Noi fratelli gli portavamo il saluto delle tante persone che incontravamo e che erano a conoscenza del suo stato. Di ogni persona citata ci ricordava come era buono, di come gli aveva voluto bene e così via; noi sorridevamo enfatizzando tra noi le sue parole con ampi gesti della mano. All’improvviso gli dissi se era così brava anche una persona che per certo lo aveva fatto molto soffrire, avendo anche una visione opposta del ruolo del cristiano nel mondo. Mi ha risposto senza un attimo di esitazione: «Quello l’ho già perdonato». Questa è stata per me la lezione più alta, e non riesco a non commuovermi quando mi ritorna alla mente.

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«Tu non immagini quanto ho studiato. Ho studiato tanto nella mia vita. Ma sono stato un uomo fortunato, perché era quello che mi piaceva fare». Mi ricordo in questo momento la porta perennemente serrata dello studio di casa, dove si chiudeva per ore ed ore a preparare le lezioni per i suoi studenti. Per poter studiare rinunciava a dare lezioni private nonostante le molte telefonate insistenti anche di cari amici. Quando ero ragazzo questo suo chiudersi in studio mi sembrava una sorta di assenza, glielo dissi molti anni dopo e ci rimase male. Fino a quando insegnò a scuola non scrisse un libro, ma quando andò in pensione non si chiuse in una torre d’avorio e si spese a promuovere iniziative culturali. Avendo sempre come pubblico ideale, per gli scritti e gli incontri di cultura, i giovani degli ultimi anni del liceo.

Una delle frasi che citava di più era quella pronunciata da Socrate nell’Apologia: «Una vita senza l’esame del pro e del contro non è degna per l’uomo di essere vissuta».

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«Signorile povertà»: così l’ha tratteggiato padre Giulio Cittadini e mi è subito sembrato un ossimoro straordinariamente vero. Mio padre aveva una singolare indifferenza per il denaro, di cui ho avuto conferma anche nei giorni successivi la sua morte. La mamma mi ha confessato che non ha mai saputo l’ammontare dello stipendio e che si accontentava di un piccolo importo mensile pari a quella che mensilmente riceveva mio figlio.

Nell’intimo distacco dal denaro vi è la ragione più profonda della totale libertà con cui ha operato su questa terra, a volte sicuramente sbagliando, ma sempre in totale buona fede.

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Molti anni fa, conversando con lui su questioni di fondo (spesso cercava di instaurare una sorta di dialogo filosofico, e quante volte noi figli lo abbiamo interrotto e sviato…), dopo aver elencato alcuni nodi alla piena realizzazione dell’uomo, mi parlò dell’«ultima nemica». Ero allora troppo giovane, per cui gli chiesi chi era. «La morte», mi rispose e non me ne dimenticai. Mio padre si preparò per tutta la vita alla morte, come risulta anche da alcune annotazioni del 1960 che abbiamo trovato in un quadernetto. Aveva scritto: «Solo meditando sulla morte e riconoscendo in essa una dimensione permanente del nostro essere, riusciremo a far sì che l’incubo scompaia per lasciar posto all’attesa serena di un ospite che può arrivare da un momento all’altro». E la morte non lo ha trovato impreparato. Ha combattuto con lei fino all’ultimo, spremendo le sue poche forze residue per leggere alcune pagine di filosofia e scribacchiare appunti per il suo ultimo libro, senza cedere all’angoscia o alla disperazione, senza mai lamentarsi.

«Sono ancora vivo o sono nell’altro mondo?», queste sono state le sue ultime parole.

Dopo la morte di mio padre sono state trovate 170 poesie di cui non si sospettava l’esistenza.Scritte su tre quadernetti, ma anche su foglietti sparsi o all’interno di agende, sono tutte pressoché inedite.La prima poesia è datata 9 gennaio 1960; l’ultima è stata scritta pochi mesi prima della morte avvenuta l’8 febbraio 2007. Per mio padre la poesia era parte integrante del mondo e l’uomo che non lo riconosce si amputa alla conoscenza di una parte importante diesso: «Nessuna descrizione della realtà potrà essere mai completa. Ma una descrizione non poetica della realtà è sempre incompleta».

Il valore e lo stile dei testi è vario e non spetta a me esprimere un giudizio. Altri, più competenti, l’hanno fatto. Mi limito qui a sottolineare l’umanità e la passione che le caratterizzano, che sono una delle cifre della sua personalità.

Nella rubrica “Detti e contraddetti” tenuta ininterrottamente sul Giornale di Brescia dal 1988 al 2007 aveva scritto: «Moriamo sulla terra una prima volta quando ci lasciano quelli che ci amarono».

Credo che sia una grande verità.