Domenico Contratti

Tematiche: Biografie

GHEDI, VIA XXIV MAGGIO, 18

QUI ABITAVA
DOMENICO CONTRATTI
NATO NEL 1923
ARRESTATO IL 08.09.1943
INTERNATO MILITARE A FALLINGBOSTEL
ASSASSINATO IL 09.05.1944

Sono nato a Ghedi il 29 Novembre del 1923. Contadino di professione, ma durante la guerra soldato d’artiglieria alpina.
16 maggio del 1943. Il dannato giorno che segnò l’inizio della mia nuova e desolante vita. Il giorno in cui fui chiamato alle armi. Pochi giorni prima era arrivata la cartolina che mi comunicava di presentarmi al secondo reggimento Alpino, gruppo Valcamonica. Attorno a me scorgevo alcuni
visi vagamente familiari, lontani dalla nostra terra e dai nostri affetti. La mia famiglia… I miei genitori, Angelo e Caterina, non sono più giovani come una volta… Non verrà fatto loro del male? Inutile pensarci, non posso farci nulla ormai, alla guerra non si comanda a quanto pare.
Uno stridio sordo mi riportò bruscamente al presente. Il treno si era fermato. Il portello del vagone si apre e ci fanno scendere, finalmente riesco a vedere in che razza di luogo ci hanno portati: siamo in
montagna, la vegetazione non è rigogliosa come quella a Ghedi in questo stesso periodo. Ovunque mi volti sono circondato solo da boschi e roccia. Vedere questo luogo così diverso da casa mi fa venire
ancora più nostalgia della mia amata campagna: i suoi colori e la sua gioia sembrano ancora più vividi nella mia memoria, guardando queste montagne ormai conquistate dalla guerra. Ero un contadino, so di cosa sto parlando: ricordo benissimo i pomeriggi sotto il caldo sole a lavorare con mio padre, dopo la scuola. All’inizio avevo iniziato quel lavoro solo per essere d’aiuto ai miei, ma poi, pian piano, mi sono affezionato a quel mestiere, al lavoro nei campi, ai giorni in mezzo all’erba alta con il frinire delle cicale. Improvvisamente un urlo sovrasta tutte le altre voci: è il comandante, cerca di rimetterci in riga.
8 Settembre 1943. Sono su un camion. Sto andando in caserma, seduto su una panca. I freni stridono, capisco che il camion si sta per fermare.
Scendo, mi metto in fila. Un ufficiale si avvicina, si ferma e inizia l’appello. Tutti presenti. È giunta l’ora di raggiungere la mia camerata quando sento una voce provenire dagli altoparlanti: è il generale
Badoglio, che annuncia la fine della guerra. Gli amici di ieri, però, sono i nemici di oggi. All’inizio io e gli altri ci guardiamo negli occhi non capendo cosa stia dicendo, ma dopo pochi istanti sento delle grida provenire dal cortile, mi alzo e dalla finestra noto l’arrivo di un carro armato tedesco. “Raus Raus”, dei soldati ci raggiungono e ci ordinano di incamminarci verso il cortile. Ci suddividono in file da tre e, a piedi, raggiungiamo Bolzano. Sono stanco, la camminata è stata lunga, mi fanno male i piedi e dopo aver mangiato il rancio, coricandomi sul letto, mi addormento all’istante. Apro gli occhi, i tedeschi urlano e con molta fatica capisco di dover raggiungere il chiostro. Lì ci radunano.
La prossima destinazione è la stazione. Appena arrivato, noto subito i numerosi vagoni dedicati al trasporto merci. Partiamo, non sappiamo con precisione la prossima meta. L’oscurità e le numerose ore passate in treno mi disorientano, infatti io e miei compagni non sappiamo quanto tempo sia passato e se ci sia ancora luce. Proprio nel momento in cui riflettiamo riguardo a questo, il treno si ferma. Sento l’acuto rumore del portellone del vagone. Lo aprono. Scendiamo e ci dirigiamo verso il campo M. Stammlager XI-B; noto che vicino a questo c’è un cartello con scritto Fallingbostel, forse il paese in cui eravamo. Da quel momento in poi sono un internato militare, costretto a lavorare per il
Reich senza sostegno e assistenza. Già nell’aria si sente odore di morte e sofferenza. È un vasto campo circondato da filo spinato e da torrette.
Ci mettono di fronte ad una terribile scelta: uscire dall’inferno della prigionia e ritornare in Italia, aderendo alla Repubblica di Salò. Amo l’Italia, ma non voglio collaborare con chi la calpesta, rifiuto l’ideologia di chi disprezza l’uomo e agisce con violenza. I tedeschi si accaniscono, con ancora più ferocia contro chi, come me, ha accettato di patire condizioni disumane piuttosto che dire un sì. Signora Germania, tu mi hai messo in prigione e controlli che io non scappi. È inutile, io non esco ma entra chiunque: innanzitutto le mie emozioni, il nostro Dio che ci insegna l’amore vietato dalle vostre regole. Signora Germania: nel mio sacco non troverai oro, ma solo gemme di un passato felice. Il giorno in cui, presa dall’ira, con un’esplosione mi ucciderai, vedrai che da me risorgerà un corpo migliore, che non potrai imprigionare. Tu credi che l’uomo si possa controllare, ed è così, ma all’esterno, perché all’interno una cosa sola lo comanda, la fede in Dio e nient’ altro.
9 Maggio 1944. La mia ora è arrivata, ma nulla mi affligge, so che non posso scampare al mio destino. È notte. Nella baracca entra la morte, è venuta a prendermi. Continuo a gemere. Inizio a mormorare il nome di mia madre e poi… Silenzio, nient’altro.
A cura degli alunni delle classi 3 I e 3 A della scuola secondaria di primo grado di Ghedi