L’Europa e l’ecumenismo della Chiesa indivisa

Coniugando storia e teologia, secondo la dinamica della speranza, tratterò i seguenti punti

le due Europe: quella che viene dalla latinità cristiana e quella che viene dall’ellenismo cristiano, cioè l’Occidente e l’Oriente dell’Europa;

le difficoltà da superare, difficoltà che tendono ad aggravarsi con le attuali profonde crisi d’identità di popoli e confessioni religiose;

l’ecumenismo della Chiesa indivisa, quella originaria che era allo stesso tempo di Pietro, di Paolo e di Giovanni, che bisogna riscoprire e proclamare di fronte al mondo di oggi, nonostante il peso della storia passata e le attuali incomprensioni.

Le due Europe

  1. La Chiesa unita, una e diversa

Innanzitutto, bisogna parlare della Chiesa unita, matrice spirituale dell’Europa, nella quale si univano e collaboravano Oriente ed Occidente. I fattori dell’unità, le nostre stesse radici comuni, nascono dalle influenze dei Padri e dei primi monaci. E’ sempre più evidente la profonda unità di pensiero esistente tra i Padri latini, greci e siriaci, se si eccettuano alcuni irrigidimenti tardivi nell’opera di Sant’Agostino. L’esempio più chiaro è quello di Ireneo da Lione, un asiatico ellenizzato che si stabilì in Gallia: cominciò a scrivere in greco per poi proseguire in latino. Il monachesimo, nato in Oriente, arrivò in Occidente grazie a Giovanni Cassiano. Il padre del monachesimo occidentale, San Benedetto, fa riferimento appunto a Cassiano e a San Basilio. Anche oggi, il monachesimo benedettino rimane una testimonianza della Chiesa unita. Non bisogna dimenticare che c’era un monastero di benedettini amalfitani sul Monte Athos fino al XIII secolo.

I Padri della Chiesa ed i monaci hanno elaborato una “teologia spirituale”, simbolica, inseparabile dalla liturgia e dalla contemplazione, teologia identica nel suo fondamento, in Oriente ed in Occidente, perlomeno fino ai grandi mistici cistercensi del XII secolo.

Questo approccio al mistero si è espresso in un’arte di tipo iconico, anch’essa molto simile in Oriente ed in Occidente. Nonostante le difficoltà di introdurre, ai tempi di Carlo Magno – difficoltà dovute soprattutto ad una cattiva traduzione – il dogma del VII Concilio Ecumenico2 sulla venerazione delle icone nella cristianità latina, si può parlare di una vera e propria iconica occidentale a proposito dell’arte carolingia e ottoniana, dell’arte romanica e dell’arte italiana fino al XIII secolo. L’affermazione dell’umano – sempre, però, inseparabile dal divino – una specie, dunque di Rinascimento transfigurato, inizia nel mondo bizantino nel XII secolo e darà, da un lato, il primo Rinascimento italiano, tutto impregnato di francescanesimo, e dall’altro, a Costantinopoli, il “Rinascimento dei Paleologi3“.

La Chiesa unita si organizzava istintivamente attorno ad una “ecclesiologia di comunione” o “eucaristica”, per la quale la Chiesa locale, grazie alla testimonianza conciliare del suo vescovo, potesse manifestare pienamente l’Una Sancta, a seconda appunto della sua comunione con tutte le altre Chiese locali. Questa comunione si strutturava secondo tutta una gerarchia di “centri di accordo”. Alla sommità Roma, centro di accordo universale, il cui primato si definisce come servizio della comunione delle Chiese sorelle. I canoni del Concilio di Sardica (IV secolo) grazie all’appello di Roma sono stati accettati in Oriente. La Chiesa disponeva così di tutta una “sinfonia” di mezzi per “intendere la voce dello Spirito” (Apoc. 2,7): la conciliarità dell’episcopato, l’approvazione di Roma, il popolo profetico.

La diversità fiorisce in seno a questa unità. Il mondo latino pone più l’accento sulla dualità del divino e dell’umano, dando così più autonomia all’umano. Cristo ci rivela il modo di essere di Dio e la vocazione filiale dell’uomo. Il Re è venuto ma il suo Regno non è ancora arrivato: da qui l’importanza della responsabilità etica e storica del cristiano. Roma lotta nella storia stessa per affermare l’indipendenza della Chiesa. Il papa affronta l’imperatore.

Il mondo bizantino, invece, pone più l’accento sull’unità dell’umano e del divino e dunque sulla trasfigurazione dell’umano, se non addirittura del cosmico, in Cristo, grazie alle energie dello Spirito Santo. L’integrazione in Cristo permette all’uomo di “respirare lo Spirito”. Tutto è mistero, e soprattutto la visione della gloria di Dio nascosta nelle cose. La presenza di Dio non è solo “causale” ma anche “energetica”. Si potrebbe dire che l’Oriente pone l’accento sul “già avvenuto” del “cielo sulla terra”, mentre l’Occidente insiste sul “non ancora avvenuto” della storia e sulla lotta per il bene. L’Oriente anticipa e contempla, l’Occidente avanza ed agisce. Tutto si completa.

Lo scisma e le sue conseguenze

Lo scisma appare come il lento distaccarsi di due culture che, fino ad allora, si erano alternate nella supremazia. Al punto di incontro dei due millenni, Roma e Bisanzio rappresentano due sfere culturali e religiose nettamente separate fra loro. Attorno all’anno Mille, questa supremazia appartiene all’Impero bizantino ricostituito. Invece, dalla vittoria dei turchi a Manzikert (1071) e dalla prima Crociata, la supremazia militare ed economica passa all’Occidente e l’Oriente bizantino diventa il suo primo campo di espansione “coloniale” (è risaputo il ruolo che svolsero in questo processo le Repubbliche Marinare italiane).

In Occidente, la riforma gregoriana esalta la monarchia pontificia per sottrarre la Chiesa al feudalesimo e alla tutela imperiale. La scoperta affascinante della filosofia greca (grazie alla mediazione della civiltà musulmana) porta la teologia alla sistematizzazione e ad una costruzione quasi scientifica: è il momento della grande “Scolastica”. In Occidente inizia un processo di interrogativi, di inquietudine e di ricerca sia spirituale, sia intellettuale e tecnica ante litteram, in una partecipazione dinamica, pienamente vissuta alla storia.

In Oriente, è il periodo pneumatologico (centrato sul tema dello Spirito Santo), consacrato allo sforzo di render conto della “deificazione” dell’uomo grazie alla “luce del Monte Tabor”: la sintesi più alta di questa concezione mistica è quella elaborata da Gregorio Palamas4, vissuto nel XIV secolo. Alla “ricerca” dell’Occidente si contrappone, soprattutto a causa delle invasioni latine prima e dell’irresistibile avanzata turca poi, un processo di ripiegamento sull’interiorità, un’accentuazione delle due vie classiche della spiritualità orientale: il monachesimo e la liturgia. L’Oriente si separa dalla storia, che gli appare cattiva ed ostile.

In questo contesto, la diversità della Chiesa unita, vissuta ma non pensata, prende coscienza di se stessa nella separazione: dal saccheggio di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204 al fallimento del Concilio di Unione di Ferrara-Firenze del 1438‑395. Bisanzio cade nelle mani dell’Asia mentre la pre-riforma e il movimento delle nazionalità dilaniano l’Occidente.

Questo scisma, di fatto, ha accelerato l’infrangere, dell’Occidente cristiano nel XVI secolo. La Chiesa occidentale, strettasi attorno a Roma e privata del contrappeso orientale della conciliarità, non seppe arginare le voci di dissenso che si sollevavano al suo stesso interno destinate a sfociare poi nella Riforma: così si spiega il successo di Lutero in Germania, l’anglicanesimo, la strutturazione dell’Olanda sui principi del calvinismo, separazione tra il Nord e il Sud in Europa occidentale. Più particolarmente, i cristiani dell’Occidente – forse perché non partecipi della pneumatologia orientale non sono più riusciti ad assumere creativamente tutta una serie di tensioni che si sono trasformate in opposizioni: tra l’unità e la diversità nella Chiesa, tra Tradizione e Scrittura, tra profezia e sacramento, tra sacerdozio d’ordine e sacerdozio universale, tra Sola Fide e Tota Vita.

Lo scisma ha contribuito a fare della “ricerca” occidentale una conquista sempre più prometeica e secolarizzata. Con la caduta di Costantinopoli, gli umanisti bizantini si sono rifugiati in Occidente, ma la teologia e la spiritualità delle “energie” divine, che danno al Cristianesimo una portata cosmica, sono state sepolte – isolate com’erano dalla cultura e dalla storia – nel segreto tutto individuale del monachesimo orientale. Lo sviluppo della scienza e della tecnica – la cui origine biblica non è contestabile – si è verificato in Europa in una prospettiva puramente profana, addirittura titanica, perché abbandonata ad altri “spiriti” da parte di una religione sempre più pietistica e moralistica.

In Oriente, invece, lo scisma ha contribuito ad una certa sterilità culturale e ad una sorta di pietrificazione al di fuori della storia, che si manifesta d’altronde nell’oblio della grande tradizione patristica e bizantina: rimaneva, è vero, il rito, nella sua dolce serenità, ma non immune dalla minaccia del ritualismo. Mentre il dominio ottomano pesava su tutta l’Europa di Sud-Est, l’ultima eco di un Rinascimento trasfigurato moriva in Russia all’inizio del XVI secolo. La Russia diventava una società sacrale, immobile, nella quale i tentativi di rinnovamento provocavano scismi conservatori, al contrario di quanto accadeva in Occidente. La secolarizzazione necessaria ma brutale di Pietro il Grande instaurò il controllo dello Stato sulla Chiesa e separò la “società” colta dal contado tradizionalista e “apocalittico” allo stesso tempo.

Così si sono formate tre confessioni cristiane e due Europe.

L’Europa occidentale, nata da Roma e dalla Riforma, ha contribuito a fare la storia del mondo in epoca moderna. Il suo dinamismo è stato incentivato dalle sue stesse divisioni: la Riforma contro Roma, l’anticlericalismo contro il clericalismo, i diritti dell’uomo contro i diritti di Dio. Una cultura eterogenea, aperta, si è affermata lentamente, sostenuta dall’etica del dialogo e della tolleranza; una cultura che, però, troppo spesso si è chiusa alla dimensione spirituale, rischiando così di perdersi nelle diverse forme del nichilismo.

L’Europa orientale, nata dall’ellenismo cristiano, ha subito la storia per molto tempo. E’ tornata a farne parte solo quando ha deformato o compromesso la sua anima, assolutizzando le concezioni occidentali in un contesto senza umanesimo: di qui scaturiscono la crescita idolatrica del nazionalismo, anche religioso, e quella del socialismo come messianismo totalitario. La Russia dell’inizio del nostro secolo imparava la libertà dello spirito e sperimentava un forte rinnovamento culturale e spirituale: diventava più europea e nello stesso tempo più russa che mai. La Rivoluzione del 1917 ed il totalitarismo l’hanno, in un certo senso, fatta regredire ai tempi di Ivan il Terribile, dando un peso sempre più gravoso a grande scisma europeo, in cui l’ideologia prendeva il posto della religione, assumendone, però, le deviazioni più perverse.

Verso la fine dello scisma?

Pure in mezzo a queste divisioni, l’Europa dalle radici cristiane non ha mai cessato di esistere. Noi occidentali dimentichiamo troppo facilmente che i Paesi ortodossi sono stati la sua difesa contro l’ultima ondata asiatica, in particolare quella dell’Asia delle steppe: Bisanzio che trattiene i Turchi per lunghissimo tempo, poi la Romania di Michele il Bravo, la Russia che respinge Mongoli. La linfa cristiana non ha mai cessato di irrigare questa Europa apparentemente divisa: basta ricordare l’influenza dei Padri greci sulla spiritualità anglicana francese del XVII e XVIII secolo, l’influenza di Francesco di Assisi, di Pascal e del Romanticismo tedesco su filosofi religiosi russi del XIX e del XX secolo. Vengono per forza in mente grandi nomi, nomi di profeti della Catholica, della riconciliazione tra la Chiesa di Pietro e quella di Giovanni: i nomi dei grandi poeti romantici polacchi, Krasinski, Mickiewicz, il nome di un grande russo come Vladimir Soloviev, come se ci fosse un vocazione slava per la riconciliazione tra cattolici ed ortodossi.

Oggi, il crollo del mondo comunista, la vittoria del 1789 sul 1917, il gusto per l'”illuminismo” in quanto passaggio necessario verso la critica e la libertà, la cultura del pluralismo come rispetto dell’altro portano verso la fine del grande scisma culturale e politico dell’Europa.

Ma questo scisma sarà definitivamente superato, la pace e l’unità dell’Europa potranno essere saldamente ristabilite solo se verrà superato anche lo scisma religioso.

A Istanbul, il governo turco ha autorizzato la ricostruzione della residenza dei Patriarchi, bruciata all’inizio degli anni Quaranta. In Russia, seppur con difficoltà, le chiese vengono riaperte; i battesimi si moltiplicano, battesimi di adulti a migliaia; l’episcopato, nonostante la sua passività, ricostruisce una rete di scuole ecclesiastiche, mentre i laici, di propria iniziativa, fondano numerose associazioni che hanno lo scopo di diffondere, con una catechesi elementare, una fede più cosciente e personale. In Romania, un grande movimento che parte tanto dai laici che dai preti e dagli uomini di cultura dà inizio ad un rinnovamento dell’episcopato.

Così si ricostituisce l’asse Nord-Sud dell’Europa ortodossa. Per quale sorte? E’ qui che s’impone una riflessione rinnovata sull’ecumenismo, sulle sue difficoltà, sul nuovo impulso che può ricevere.

Le difficoltà da superare

Il confessionalismo

A partire dagli anni Ottanta, si assiste ad un grande ritorno del confessionalismo. Questo movimento si estende a tutto il pianeta e assume forme estreme nell’Islam. Ovunque gruppi umani, angosciati dalla modernità della cultura occidentale e minacciati dall’astrazione della civiltà tecnica, reagiscono affermando la loro identità, e lo fanno spesso nel modo più semplice, cioè lottando l’uno contro l’altro. I cristiani non fanno eccezione.

Il mondo protestante pone l’accento sulla Parola piuttosto che sui Sacramenti; nel suo interno si moltiplicano le comunità “evangeliche” che vogliono tornare alle radici della Riforma, ripristinando così il loro anti-cattolicesimo. Al contrario, molti cattolici ed ortodossi sono sensibili all’ecumenismo ufficiale, soprattutto

quello del “Consiglio Ecumenico delle Chiese”, che definisce “scismatiche” tutte le Chiese, perché la vera Chiesa è indivisibile. Ognuno afferma la sua specificità, cerca di ritrovare la propria memoria storica. Nella Chiesa cattolica, l’importanza rinnovata del culto del Santissimo Sacramento, la ripresa (con l'”Anno Santo”) del tema delle indulgenze e la forte riaffermazione del culto mariano tradizionale non facilitano le relazioni con i protestanti. Allo stesso modo l’esaltazione della supremazia di Roma da parte dei mass-media, la limitazione delle competenze delle conferenze episcopali, il rafforzamento del centralismo romano, particolarmente per quanto riguarda la scelta dei nuovi vescovi, non facilitano le relazioni con gli ortodossi.

Nell’Oriente cristiano un gruppo consistente di conservatori, animato da monaci atoniti e presente soprattutto in Grecia e in Serbia, ma anche in altre regioni nega radicalmente l’ecclesialità delle altre confessioni cristiane. Si tratta di un integralismo tanto culturale quanto religioso, nato dall’estrema difficoltà di accostarsi ad una modernità che non ha radici locali, ma arriva brutalmente dall’Occidente. Corrisponde ad un memoria storica dolorosa, che risale fino ad atroci ricordi della seconda guerra mondiale, ai confini, per esempio, della Croazia e della Serbia. I giovani teologi del movimento “neo-ortodosso” greco sviluppano un sistema nel quale l’Occidente diviene “la civiltà dell’eresia” di cui Roma, con la sua volontà di potenza, sarebbe il cuore.

E’ possibile che la soluzione venga dalla Russia. E’ vero che vi si constata il riemergere di correnti slavofile e messianiche nettamente anti-occidentali, ma è nei campi di concentramento che i migliori militanti cristiani hanno fatto l’esperienza dell’ecumenismo dei perseguitati (Ogorodnikov, per esempio, prendeva la comunione dalle mani di un prete cattolico lituano, e tutt’e due preparavano il vino per la Messa mettendo cicchi di uva secca in acqua); è in segregazione (dove la posta arrivava) che hanno fatto l’esperienza della solidarietà materiale e spirituale dei cristiani d’Occidente. Proprio dall’Occidente, che essi una volta giudicavano pressoché “marcio”, giungevano loro oltre che cibo e vestiti, migliaia di messaggi ricchi di amicizia, di fede, di preghiera, di un’autentica intensità spirituale. Hanno scoperto, così, l’unità della “grande famiglia cristiana”, all’interno della quale – e non nella sua distruzione – bisogna avviare un dialogo profondo, con la certezza che l’unità non è da costruire, ma solo da riscoprire.

La tecnicità

Preziosa è stata, nel frattempo, l’opera dei teologi. Penso soprattutto ai lavori di “Fede e Costituzione”, l’unica commissione del Consiglio Ecumenico delle Chiese alla quale protestanti, cattolici ed ortodossi partecipino allo stesso livello: il testo elaborato nel 1982 a Lima da questa commissione, incentrato sul Battesimo, l’Eucarestia e il Ministero, ed il commento al Credo di Nicea-Costantinopoli, steso a Budapest nell’agosto del 1989, sono la prova che la controversia tra Riforma e Contro-Riforma potrebbe essere superata grazie al ritorno non solo alla Scrittura, ma anche ai documenti più importanti della Chiesa indivisa. In quest’opera gli ortodossi hanno un ruolo pacificatore, perché la loro Chiesa si ispira direttamente a questi testi di base essendo rimasta estranea alla riforma gregoriana, alla Scolastica e alle polemiche del XVI secolo. Nel documento di Lima, così come nel testo di Budapest, la Chiesa non appare come istituzione che s’impone e s’interpone, ma come comunione in Cristo Risorto nello Spirito Santo. Come comunione partecipa, in Cristo, all’esistenza trinitaria, è essenzialmente comunità nel Vangelo e nell’Eucarestia, è Casa del Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo, luogo di una Pentecoste perpetua.

Purtroppo, gran parte dei fedeli non è a conoscenza di questi testi, che d’altronde sono troppo rigorosamente tecnici per essere compresi da chi non si occupa sistematicamente di teologia.

Diviene sempre più chiaro che le convergenze così ottenute lasciano spesso in ombra un certo numero di cose “non dette”, e tuttavia essenziali, e non tengono conto della sensibilità spirituale profonda che conferisce coerenza ed evidenza ad ogni confessione. Si scopre soprattutto che gran parte degli uomini di oggi, i giovani in particolare – tranne quelli che si rifugiano in ambienti settari o semi-settari – non hanno nessun interesse per l’ecclesiologia. Per loro, ciò che importa è il senso (o non-senso) della vita, dell’amore, della bellezza e della morte.

La tecnicità dell’attuale e positiva riflessione ecumenica si realizzerà pienamente quando sarà catturata, avviluppata e sorpassata da un grande movimento esistenziale che porrà l’accento su elementi fondamentali quali:

– il senso della gratuità: Dio, la celebrazione liturgica e la contemplazione non servono a nulla, ma illuminano tutto e trasformano nel nostro profondo l’angoscia in fiducia;

– una teologia della libertà e della vita, cioè della vita di resurrezione: il nostro Dio è un Dio fattosi carne e crocefisso, che ci libera dalla morte e ci dà la forza di diventare, nello Spirito Santo, viventi che vivificano;

– il mistero della divino-umanità: né Dio contro l’uomo, né l’uomo contro Dio, ma Dio che si rivela nell’uomo affinché l’uomo ritrovi la sua vocazione di “creatore creato”;

– una spiritualità dell’eros e del cosmo, che sia capace di rendere l’eros partecipe del vero incontro tra le persone e di lottare per il rispetto, l’abbellimento, la trasfigurazione dell’universo.

Per un ecumenismo della Chiesa indivisa

 Sempre più numerosi sono gli uomini – appartenenti a tutte le confessioni – che si scoprono membri della stessa Chiesa, originando così il risorgere della Chiesa indivisa: nasce tra costoro una fratellanza nuova, nel nome di Cristo, al di là degli irrigidimenti confessionali. La fede di questi uomini è la medesima, non una fede da poco, vaga, relativista, ma una fede evangelica ed ecclesiale, capace di portare nella quotidianità la luce della Croce e della Resurrezione, dando vita ad una Chiesa-Sacramento, attraverso la quale Cristo non cessa mai di strappare alla morte l’umanità e l’universo.

Un ecumenismo dell’esperienza spirituale

L’ecumenismo della Chiesa indivisa si fonderà su quello che mi è accaduto di definire “uno strutturalismo dell’esperienza spirituale”, recuperando sistemi e concetti dell’esperienza globale della Chiesa, colta nelle sue espressioni più alte, quelle della mistica e della santità nelle quali le parole si schiudono e tacciono nella contemplazione, nella preghiera di lode a Dio. Proprio la contemplazione assumerà dunque un ruolo centrale e non tarderà ad accostare alla nuova Chiesa indivisa anche i più restii tra i fedeli orientali.

Cosa si intenda per contemplazione è ben illustrato da un apologo dei Padri del deserto, che contrappone gli “speculativi” ai “contemplativi”: i primi, quando vedevano l’acqua in lontananza, si impegnavano subito a mostrare, con dispute tutte teoriche, se essa fosse dolce o salata; gli altri, invece, si incamminavano per raggiungerla ed assaporarla, incuranti delle ferite che le pietre, tra le quali essa era racchiusa, avrebbero inevitabilmente provocato loro.

Molti sono i punti – e, soprattutto, i termini – sui quali le diverse confessioni si scontrano in lunghe spesso sterili discussioni teoriche, proprio come gli “speculativi” dell’apologo. Eccone alcuni esempi:

– Il termine physis. Per calcedoniani (cattolici, ortodossi, anglicani e gran parte dei protestanti) e non-calcedoniani (Armeni, Giacobiti, Copti, Etiopici, Indiani del Sud) la fede è la stessa, ma si esprime con due sistemi di concetti a lungo contrapposti. Per i calcedoniani, la parola physis (natura) designa sia la divinità sia l’umanità unite senza separazione né confusione nell’unica persona di Cristo. Per i non calcedoniani la stessa parola indica l’unità, la realtà vivente del Cristo, realtà divino-umana.

– La questione del Filioque tra cristiani d’Oriente e d’Occidente. Filioque significa “e dal Figlio”: lo Spirito Santo – disse già S.Ambrogio in un’espressione ripresa poi in Occidente nel Credo – procede “dal Padre e dal Figlio (ex Patre Filioque). L’Oriente segue però l’affermazione di Gesù Cristo riportata da S. Giovanni (Gv. 15, 26): “lo Spirito che procede dal Padre”, formula che il II Concilio Ecumenico ha inserito nel Simbolo della fede.

All’inizio, in epoca patristica, si trattò di due approcci diversi al mistero trinitario. L’Occidente contemplava la nascita e il flusso dell’amore divino che dal Padre passa nel Figlio e dal Padre e dal Figlio nello Spirito Santo, quindi fino a noi; l’Oriente coglieva nel procedere (ekpòreusis) dello Spirito principalmente il Suo carattere personale: lo Spirito è soffio del Padre e si manifesta attraverso il Figlio.

Nel Medio Evo, ma anche in seguito, ci si è voluti scontrare sui termini, tanto che si sono consolidate due diverse interpretazioni del mistero trinitario, risolto, in entrambi i casi, in un ritmo dualistico, che può soddisfare la ragione umana, ma non la realtà divina: in Oriente, “Padre-Figlio” e “Padre-Spirito” in Occidente, “Padre-Figlio” e “Padre e Figlio (come un solo principio)-Spirito”.

Oggi riscopriamo che nella Trinità le relazioni sono inevitabilmente “uni-trinitarie” e aliene da ogni dualismo, benché ciò sia inconcepibile per la mente umana. Se diciamo che lo Spirito procede dal Padre, dobbiamo precisare immediatamente “dal Padre e dal Figlio”; se diciamo che procede dal Padre e dal Figlio, dobbiamo precisare che lo Spirito procede principaliter dal Padre – come diceva S. Agostino – perché il Padre è l’archè, il principio della Trinità.

 b. Una spiritualità creatrice

Coloro che vogliono favorire la riaffermazione di una Chiesa indivisa non possono fermarsi al “semi-orizzontalismo” ereditato dagli anni Settanta, che rischia di trasformare il Cristianesimo in una variante sentimentale dell’umanitarismo contemporaneo. Non possono, altresì, fermarsi al “verticalismo” ed al liturgismo chiuso di molti ortodossi. L’Occidente cristiano pone l’accento, in generale, sulla responsabilità storica ed etica del cristiano, rischiando così di perdere il senso del mistero. L’Oriente insiste piuttosto sul Regno, che la liturgia e l’icona anticipano, si incanta della bellezza del rito e di una “deificazione” tutta interiore, lasciando la storia al basileus, allo zar, o addirittura, agli Stalin e ai Ceausescu.

Oriente e Occidente devono elaborare insieme una spiritualità creatrice, come quella abbozzata dai grandi filosofi religiosi russi dell’inizio del secolo. Oggi le esigenze si fondono, s’incrociano: esigenza di bellezza e di mistero in Occidente, esigenza di responsabilità civica e di una giustificazione dell’uomo in Oriente.

Immergersi in Dio con la fede, la preghiera, la contemplazione non significa ritirarsi dal mondo, ma concorrere, invece, a trasfigurarlo, attingere alla fonte dell’amore attivo. Gli uomini di oggi non vogliono ricette secondo le quali agire, ma un senso ed un’ispirazione, la testimonianza vivente della vittoria sulla morte, vittoria che, sola, può strapparli al cinismo e alla disperazione. Un simile annunzio, e cioè quello della persona in relazione, dell’uomo fatto ad immagine di Dio e, dunque, dell’uomo come mistero ed amore, relativizza la politica e la feconda, rovescia in modo misterioso gli stessi fondamenti della cultura. Più il nichilismo contemporaneo si aggrava – i suoi sintomi si chiamano droga, pornografia, suicidio di adolescenti – più comprendiamo che l’alienazione fondamentale, dalla quale vengono tutte le altre, è la morte: la morte in senso globale, della quale la morte fisica è soltanto il simbolo. Per testimoniare la vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno è necessario combattere contro tutte le forme di morte e di inferno esistenti nella cultura e nella società, contro tutte le forme di degrado fisico e spirituale dell’uomo.

Noi, che abbiamo combattuto il socialismo reale fino a far crollare il colosso dai piedi d’argilla, non dobbiamo difendere indiscriminatamente un neoliberalismo mal disciplinato, o addirittura selvaggio, che gonfia artificiosamente il reddito di un miliardo di esseri umani, abbandonandone altri quattro alla fame. Abbiamo bisogno di profeti che, nella forza dello Spirito Santo, inventino uno stile di vita basato sulla limitazione volontaria, in vista di una condivisione con l’Est e il Sud, e sulla “simpatia” (sympàtheia) con la natura, per salvaguardarla; di profeti che inventino le linee di forza di una civiltà mondiale, una “civiltà dell’essere e dei volti” di profeti che inventino una bellezza che non sia fatta di magia o di possesso, ma di comunione. Rivoluzione nell’anima: ed è l’anima che a lungo andare, nella storia, crea il corpo! “La divino-umanità pone il problema dell’incarnazione di Cristo nella cultura e nella società”, come un fermento, come una luce, nel pluralismo e nella libertà

La diversità nell’unità

Uno dei problemi maggiori dell’ecumenismo contemporaneo è quello dell’accordo, nella Chiesa, tra unità e diversità, ad immagine, potremmo dire, dell’Uni-Trinità. Il Cattolicesimo ha posto l’accento sull’unità sottolineando la centralità di Roma: ma, allora, la diversità si può esprimere pienamente? L’Ortodossia ha posto l’accento sulla diversità con il sistema delle autocefalie6 più o meno indipendenti: ma, in questo caso, si possono esprimere pienamente l’unità e l’universalità della Chiesa? La riflessione si deve basare sul senso del primato, sul carisma di Pietro (senza dimenticare, però, che Roma rappresenta la Chiesa di Pietro e di Paolo) come servizio della comunione delle Chiese sorelle.

Dobbiamo affrontare con il senso delle diversità necessarie le differenti “sensibilità” spirituali delle confessioni cristiane, in modo che tutto il positivo insito in esse venga equilibrato e, senza perdere la sua varietà (“la Saggezza di Dio è variopinta”, diceva San Paolo), s’integri in una visione veramente cattolica: cioè “secondo (katà) il tutto (hòIon)“, secondo una verità totale, che permetta ai diversi approcci di interpenetrarsi e di completarsi a vicenda.

Così, la linea d’integrazione delle varie confessioni cristiane nel rispetto della loro diversità è lo spirito della Chiesa indivisa del quale Giovanni Paolo II ha voluto sottolineare l’importanza e l’attualità quando ha designato patroni d’Europa San Benedetto, padre del monachesimo latino, ma anche San Cirillo e San Metodio, due greci evangelizzatori degli Slavi. L’Ortodossia può diventare testimone di tali origini quando si riporta, al di là del ritualismo, alla sua dimensione pneumatologica e supera i suoi limiti storici. Essa condivide con Roma il senso del mistero della Chiesa, della sua sacralità fonda mentale, sotto il segno della Madre di Dio. Come i protestanti, d’altro canto, ha il gusto della libertà nello Spirito Santo, ma lo radica nel Sacramento, tanto da assumere i caratteri, per così dire, di un “profetismo sacramentale”. Questa libertà profetica deve, però, purificare e correggere l’aspetto istituzionale, che tende a perdersi in una sorta di nenia liturgica.

La Riforma, in questo senso, rappresenta la dimensione profetica del mondo cristiano. I riformatori del XVI secolo non volevano distruggere la Chiesa d’Occidente ma, appunto, riformarla. Rifiutati, hanno aperto una “parentesi storica” che si chiuderà quando Roma renderà giustizia alle loro istanze senza intaccare il mistero della Chiesa, anzi, al contrario, approfondendolo. Nel frattempo, essi rappresentano lo stimolo che richiama all’urgenza e al primato del Vangelo e vieta la manipolazione della Buona Novella da parte dei sistemi istituzionali e teologici. Stimolo non solo per Roma, ma soprattutto, forse, per una Ortodossia in seno alla quale una storia tragica ha innestato il ritualismo nel popolo e la sclerosi nell’episcopato. Come stupirsi dello sviluppo di un forte neo-Protestantesimo, battista e pentecostale soprattutto, in margine alle Chiese dell’Est?

Quanto a Roma, essa s’inserisce molto profondamente, grazie alla sua grande tradizione mistica, nell’alveo spirituale della Chiesa indivisa e assume di nuovo una dimensione profetica sul terreno delle battaglie per la giustizia del Terzo Mondo. Il suo vero carisma sembra concretizzarsi nell’incarnazione storica della Chiesa una ed universale. Solo la Chiesa cattolica, forse, potrà impedire che le altre confessioni si dissolvano nella storia o si frantumino in sette ai suoi margini, a condizione, però, di scoprire sempre più il carattere eucaristico e conciliare della Chiesa, affinché il ministero del primo vescovo riesca a conciliare pienamente la testimonianza dell’unità ed il rispetto della diversità, perché il servizio dell’unità diversificata della Chiesa non possa essere altro che una martyrìa (testimonianza), in tutti i sensi di questa bella parola greca.

Ogni Chiesa ha un proprio modo di scoprire Cristo e di professare la sua fede in Lui. Chi può pretendere di cogliere in tutti i suoi aspetti il volto di un uomo o di una donna con un solo sguardo? Ci vuole tutta la vita e, forse, tutta l’eternità. A maggior ragione quando si tratta del volto umano di Dio. Sì, un solo volto, ma tanti sguardi. E tutti indispensabili. Il modo di procedere di un ecumenismo della Chiesa indivisa consiste nell’entrare nello sguardo dell’altro per scoprire tale aspetto per me insospettabile del volto di Cristo. Il volto sfigurato del Crocifisso, scrutato incessantemente dall’Occidente, e il volto trasfigurato del Risorto, incessantemente glorificato dall’Oriente, sono un solo ed unico volto, quello della “follia d’amore” di Dio per l’uomo.

La preghiera e la teologia di un ecumenismo rinnovato si orientano necessariamente verso la salvezza del mondo, verso l’immagine, che deve essere sempre ripresa, della sua trasfigurazione ultima. E’ tutta l’umanità, anche quella che ancora non lo conosce, che Cristo innalza verso il Regno. E ogni volto d’uomo che illumina per noi l’infinito, da quando Dio si è fatto volto, come il volto dei volti, l’icona delle icone.

Alla fine della sinossi del film dedicato ad Andrej Rublëv7, Tarkovsky scriveva: “Ecco infine, la “Trinità” (l’icona dei tre angeli) – senso ed apice della vita di Andrej. La “Trinità”, grande, serena, tutta impregnata di una gioia vibrante, sorgente della fratellanza umana”. Il ritmo dell’Uno in Tre e del Tre in Uno offre una prodigiosa prospettiva all’avvenire ancora sparso nei secoli. La Trinità, fonte di ogni unità che rispetti la diversità. Unico fondamento possibile della Chiesa indivisa, dell’Europa indivisa, della Terra indivisa.

1 Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 19.2.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

2 Il VII Concilio ecumenico (787) pone come fondamento della fede ortodossa la venerazione delle icone in difesa contro l’iconoclastia.

3 Famiglia Patrizia bizantina. Sale al trono imperiale nel 1261 con Michele III Paleologo, quando i Greci riconquistano Costantinopoli, e lo mantiene fino al 1453, l’anno della caduta dell’Impero bizantino.

4 Gregorio Palamas (Costantinopoli 1296 ca ‑ Tessalonica 1395), teologo bizantino, santo della Chiesa greca, fu il massimo teorico dell’esicasmo, termine che designa la tradizione mistica della preghiera contemplativa nella Chiesa orientale. L’esicasmo praticava la ripetizione incessante della “preghiera di Gesù” o “preghiera monologica” (“Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, o simili) che aveva lo scopo di ottenere l'”Unione della mente con il cuore” in modo da rendere possibile la contemplazione della luce increata divina, ossia la luce della Trasfigurazione di Cristo, apparsa sul Monte Tabor.

5 Concilio di Firenze, 1439. Durante l’assedio di Costantinopoli da parte delle forze ottomane, Giovanni VIII, nella speranza di ottenere aiuti dall’Occidente, promuove l’Unione delle Chiese greca e latina, che di fatto viene però respinta dalla Chiesa greca, vanificando così gli esiti del Concilio e l’aiuto sperato.

6 Il termine autocefalia designa la condizione di una Chiesa che si governa da sé e non riconosce quindi la dipendenza dal Papa o da un’altra autorità ecclesiastica internazionale. Il principio bizantino, secondo il quale Chiesa e Stato si identificano e conseguentemente ogni Stato può organizzare la propria Chiesa. favorì il sorgere e l’affermarsi di varie Chiese autocefale in Oriente.

7 Andrej Rublëv (1360‑1429), pittore russo capostipite della scuola di pittura moscovita che con lui accede ad una nuova visione dell’uomo e della pittura, uscendo definitivamente dagli schemi pittorici bizantini e medioevali. Si racconta che, mentre con alcuni discepoli stava affrescando la Cattedrale di Vladimir, a Mosca, assistette all’assalto dei Tartari; le atrocità viste e provate lo indussero a rinunciare alla propria arte e a chiudersi nel silenzio. Solo dopo una pausa durata quasi vent’anni, vissuta in quotidiana ascesi, accettò di riprendere a dipingere: nacque così, nel 1411, il suo capolavoro, La Trinità (Mosca, Galleria Tret’jakov). Imponente, pervasa di trepida gioia, l’icona, con i tre angeli alla tavola di Abramo, rimarrà a simboleggiare il ritorno di Rublëv alla luce, il superamento del suo dolore per la disgregazione del popolo russo e la speranza della rinascita.