Frontone e Marco Aurelio

La senilità del Frontone tradito si scopre sotto diverse dimensioni del personaggio. Anzitutto l’anagrafe: in famiglia Frontone è il nonno. È ben noto il De nepote amisso, l’amaro scritto di un uomo, che forse non aveva mai provato un dolore così forte e ne ricava una visione pessimistica della vita: la sincerità dei sentimenti non è infirmata dalla presenza di luoghi comuni. Io preferirei però citare la deliziosa letterina, nella quale il vecchio qualche mese prima si descrive alle prese cum isto quidem sive Victorino nostro sive Frontone , il nipotino che il genero, partendo per la Germania con la moglie, gli aveva lasciato a Roma: si tratta di un vivace quadretto di incontro tra generazioni lontane. Una seconda dimensione è data dalle continue lamentele, tipiche dei vecchi, sui propri malanni, che Frontone non esita a intercalare alle sue lezioni epistolari di retorica: nella sola parte restante del V libro della raccolta Ad M. Caesarem, cioè a Marco Aurelio ancora principe ereditario, compaiono dolori alle ginocchia, alla nuca, alle spalle, al gomito, al tallone, mal di gola e febbre, coliche e diarree, senso di pesantezza e una contusione .
Ma è soprattutto la dimensione magistrale, che accentua l’età di Frontone, per la naturale distanza che si stabilisce rispetto all’allievo anche quando gli anni non sono numerosi . Quasi tutta la corrispondenza, che ci è rimasta, è indirizzata a Marco Aurelio e a Lucio Vero, con un debole forse per quest’ultimo, che era un simpatico scapestrato, capace anche di gesti affettuosi (la lettera Ad M. Caes. I, 2 = 1, 13 ss. lo ricorda desideroso di prestare servigi al vecchio ammalato). Ma è naturale che attiri di più la nostra attenzione il rapporto con Marco Aurelio, sia per la fama del principe-filosofo che per la maggior documentazione fornita dalle lettere. Tuttavia il tema di questo rapporto non è molto trattato nella critica recente . L’ultimo libro, che io conosca, quello di P. Hadot, concede molto spazio a Epitteto, ma poco a Frontone, così come fa G. Cortassa nelle sua edizione marcaureliana. La biografia di A. Birley intitola alla Educazione di un erede designato un capitolo, che però si risolve in una antologia della corrispondenza. Il debito di Marco Aurelio verso Frontone costituisce l’oggetto di un articolo di P. Grimal limitato alla philostorghia dal pensiero I,11. Interessanti suggestioni si ricavano invece da una breve sintesi di F. Della Corte, che si spinge fino a suggerire implicitamente un influsso politico – ideologico del maestro sull’allievo attraverso la proposta di letture "democratiche" quali i Gracchi.
La cattiva fama, di cui Frontone gode quale ozioso cacciatore di parole, tende per contrario a enfatizzare la portata della ribellione dell’augusto allievo al suo noioso "precettore": la conversione di Marco Aurelio alla filosofia segnerebbe il distacco radicale dal maestro e il rinnegamento del suo magistero. Le cose non stanno esattamente così. Marco Aurelio era stato attratto dalla filosofia parecchi anni prima di incontrare Frontone e mettersi alla sua scuola "professionale". Un passo dei Ricordi (1,6) e una notizia della Historia Augusta (M. Aur. 2), pur nella discrepanza dei particolari convergono nell’informarci che già a dodici anni Marco Aurelio era stato condotto da Diogneto a prendere familiarità con la filosofia e a vivere al modo dei filosofi (scil. cinici e stoici rigoristi): dormire per terra, usare il pallio, disdegnare le vanità. Da queste forme di vita lo aveva distolto la madre, forse preoccupata per la salute del fanciullo o pensando al suo avvenire: anche del proprio suocero Tacito racconta in Agr. 4, 4 che prima in iuventa si era dedicato alla filosofia acrius, ultra quam concessum Romano ac senatori. In altre parole una maniera di vita veramente filosofica sarebbe stata non solo contraria al costume tradizionale, ma anche nociva alla carriera politica.
È dunque un sano realismo quello che induce il maestro di retorica (ossia di quello che era stato, e in parte continuava ad essere, lo strumento politico più importante a Roma) a guardare con sospetto il ritorno di Marco, ormai giovane fatto, alla filosofia , sia pure con modalità diverse da quelle del dodicenne di Diogneto. Quando si verifica l’intricatissimo caso del testamento di Matidia, che muore lasciando più legati che patrimonio (salvo una collana già destinata alle figlie di Marco) e con codicilli non sigillati, Frontone, chiamato a consulto (in materia, si badi, non retorica ma giuridica), cerca di impedire che il rigorismo astratto di Marco lo conduca a una decisione dannosa. Quale non sappiamo, perché le notizie sono vaghe, derivando solo dall’epistolario; ma, scrivendo al genero e allegandogli una copia del suo consiglio al principe, Frontone dice testualmente: nec sine metu fui ne quid philosophia perversi suaderet . Perversum vale "malinteso, stravagante", cioè fuori dalla realtà.
Per Frontone la filosofia è bellissima, ma utopia. Scrivendo in greco ad Appio Apollonide una letterina di raccomandazioni per Corneliano, Frontone contrappone la cultura dei retori a quella dei filosofi: "a me sembra che la paideia dei retori sia la cultura umana, anche se ammetto che quella dei filosofi è divina" (171, 13-19). La loro amicizia è nata dalla comune cultura umana, che è probabilmente la stessa anche del destinatario, al quale può rivolgersi con la conclusione epigrammatica: "aiuta, perciò, quanto puoi, Corneliano, che è un uomo onesto e a me caro ed erudito e non filosofo". Isolando dal contesto questa battuta I. Lana ha suggerito un accostamento, che non mi trova consenziente: “Certo, scrivendo queste righe, Frontone non pensava che così accomunava l’amico con… Trimalcione, il quale per la sua tomba aveva pensato a questo epitaffio: Pius, fortis, fidelis, ex parvo crevit, sestertium reliquit trecenties, nec umquam philosophum audivit”. Ma l’arricchito petroniano deride (come succede) l’intellettuale; Frontone sceglie tra cultura e cultura.
Lo stesso realismo indurrà Marco Aurelio imperatore a tornare alla scuola di Frontone. Evidentemente l’esperienza di governo lo ha convinto della verità, che il vecchio maestro gli ribadisce in uno scritto di allora (De eloquentia = 138, 4-9): Caesarum est in senatu quae e re sunt suadere, populum de plerisque negotiis in contione appellare, ius iniustum corrigere, per orbem terrae litteras missitare, reges exterarum gentium conpellare, sociorum culpas edictis coercere, bene facta laudare, seditiosos conpescere, feroces territare. Omnia ista profecto verbis sunt ac litteris agenda. Cosi Frontone, ormai veramente vecchio, può riprendere la sua antica funzione: feres profecto bona venia veterem potestatem (si noti l’espressione) et nomen magistri me usurpantem denuo, scrive nel De orationibus (=153, 7), cui il De eloquentia è verosimilmente coevo.
È abbastanza facile immaginare che, se Marco Aurelio imperatore, gravato di responsabilità immense, si riaccosta alla retorica, non la concepisce certo come vuoto esercizio di stile. Del resto non gli è stata insegnata come tale. Un principio fondamentale della retorica antica, condiviso da Frontone, è l’adeguamento res – verba. Proprio nella Laus fumi, scolasticamente considerato il manifesto della vuotaggine della retorica come gratuito esercizio di stile, Frontone teorizza la diversità dei generi: se in questo laborandum est ne quid inconcinnum vel hiulcum relinquatur, ben diversamente si fa in orationibus iudiciariis, ubi sedulo curamus ut pleraeque sententiae durius (!) interdum et incomptius (!) finiantur (con allusione probabilmente, oltre che al genere e al contenuto, anche all’uditorio; 215, 12 ss.). E nel De eloquentia a Marco: para potius orationem dignam sensibus, quos e philosophia hauries (143, 8), dove la filosofia appare come quella che produce i concetti, i quali costituiscono una categoria di res. Se poi il retore insiste sui verba, questo avviene perché ritiene, d’accordo con tutti gli antichi, che le res siano date, abbiano cioè esistenza autonoma, mentre i verba sono insegnabili; anzi la tradizione didattica li ha organizzati in sistema, ne ha fatto una tecnica.
L’eloquenza dei Cesari è diversa da quella dei filosofi, degli avvocati e dei retori, perché sono diverse le res: perciò Frontone loda Marco, perché quom in senatu vel in contione populi dicendum fuit, nullo verbo remotiore usus es, nulla figura obscura aut insolenti (Ad M. Caes. 111, 1 = 35, 19-23). Eppure questo sembra l’esatto rovescio della teoria, che si attribuisce a Frontone (la ricerca dell’inopinatum, della parola rara, dell’immagine sorprendente); o forse si potrebbe pensare che sia una posizione di compromesso per il ritorno di Marco Aurelio alla retorica, se la lettera non appartenesse alla raccolta indirizzata al discepolo non ancora imperatore né convertito. La spiegazione è molto semplice: si tratta dell’applicazione della teoria enunciata nella Laus fumi, che vuole differenziata l’oratoria d’apparato da quella giudiziaria e da quella politica; per cui si può concludere che eloquentiam Caesaris tubae similem esse debet, non tibiarum, in quibus minus est soni, plus difficultatis. L’eloquenza politica ha dunque plus soni, ma, meno ricercatezze; le res vi contano più che nell’eloquenza – tibia, in cui prevalgono i verba. Adattando una formula moderna si potrebbe dire che 1’eloquenza politica è essenzialmente “comunicazione”, l’altra piuttosto “espressione” .
Ma forse limitare l’influenza di Frontone su Marco Aurelio alla tecnica della comunicazione è troppo poco. La retorica è anche logica: logica del probabile, che lascia margini di incertezza, e mira a persuadere senza pretesa di convincere. Ora i Ricordi di Marco Aurelio non sono filosofia in senso stretto, non tanto perché l’autore non gli abbia conferito sistematicità, ma perché sono riflessioni altalenanti, che ritornano sullo stesso problema da vari punti di vista e non pretendono di arrivare alla certezza, ma piuttosto di autopersuadersi (o forse solo di consolarsi) attraverso una forma di psicagogia, che si vale della terapia della scrittura e pensa alla traduzione pratica. Nel Pensiero IX, 29 Marco Aurelio raccomanda a se stesso: "non sperare nella repubblica di Platone, ma accontentati anche del minimo progresso e ritieni che non sia poca cosa anche questo piccolo risultato". Qui mi sembra tradotta in termini nobili la cruda opposizione frontoniana fra paideia divina e paideia umana. Non è necessario ricondurre la sentenza direttamente a Frontone, perché su questo punto si incontra tutto un filone non rigorista della cultura stoica, che si richiamava a Epitteto e a Musonio Rufo (il romano preoccupato di tradurre nella piccola realtà quotidiana i dettami filosofici, aprendoli anche agli schiavi e alle donne) e si metteva in grado di capire il dolore e le de¬bolezze umane (penso a Trasea e a Plinio il Giovane) senza astrarsi dalla vita. Sul piano del realismo, che misura le forze dell’uomo, si intende persino quel programma di sereno relax che è il De feriis Alsiensibus.
Io credo che a questo punto si possa intendere nella sua portata il ricordo, che di Frontone esprime il Pensiero 1, 11 nell’elenco dei debiti riconosciuti da Marco Aurelio: "da Frontone, l’aver appreso fino a che punto arrivi l’invidia, la doppiezza e 1’ipocrisia dei tiranni; e come per lo più costoro, che presso di noi sono chiamati patrizi, siano troppo astorghoi". I concetti espressi sono chiaramente due. Nel primo l’imperatore riconosce al maestro il merito di avergli fatto scoprire la falsità degli uomini del potere. Si potrebbe persino sospettare che Marco Aurelio lo dica per antifrasi o per ironia (se fosse capace di ironia), se si continua a pensare che la retorica è l’arte di fabbricare menzogne; o magari pensare che. Frontone gli abbia svelato "di che lagrime grondi e di che sangue" il potere nell’atto stesso di fornirgliene uno strumento di esercizio. Ma ci sono altre testimonianze, che aiutano la retta interpretazione. Nella lettera Ad M. Caes. III,13=44,21 ss. lo stesso principe nega di essere felice per aver imparato dal maestro a parlare bene. É grato invece quod verum dicere ex te disco, meta molto difficile da raggiungere. Ma c’è di più: da Frontone ha imparato anche a verum audire (che per un potente è ancor più raro che verum dicere!). La medesima testimonianza rende Lucio Vero (Ad Verum imp. 1,1,2 = 107,21-23): non ha scritto al maestro perché non voleva né rattristarlo con i suoi guai né fingere con lui, dal quale aveva imparato prius multo simplicitatem verumque amorem quam loquendi polite disciplinam (sul verus amor bisognerà ritornare).
Verus indica un concetto molto vasto: = vero, se si tratta di rispondenza alla realtà, sincero, se si tratta di sentimento, ma anche = adatto, se si tratta di coerenza con qualche cosa (dunque si attaglia anche al rapporto res-verba). Verum dicere e verum audire diventa perciò una norma morale, non più solo una tecnica. Se io dovessi contrapporre un autoepitaffio di Frontone a quello di Trimalcione, citerei la dichiarazione, che traggo dal De nepote amisso 238, 19-21: Verum dixi sedulo, verum audivi libenter. Potius duxi neglegi quam blandiri, tacere quam fingere. infrequens amicus esse quam frequens adsentator. Ma è un elogio "vero", cioè sincero? Non tragga in inganno il tono dominante della corrispondenza, che forse fu scelta da qualche discendente di Frontone caduto in disgrazia (già questa sorte toccò al potente genero e i discendenti dovettero finire lontano dal potere, se l’epigrafe che ricorda il retore fu trovata a Pesaro) proprio per vantare fasti passati esagerandoli: nella lettera Ad Verum imp. 1,9=113,20 il principe esprime le sue condoglianze al maestro per due lutti familiari insieme (prova che i rapporti non erano così assidui). E lo stesso lezioso ricamo sul bacio in bocca concessogli da Vero (112, 3) è la riprova della eccezionalità di questo gesto di familiarità.
Ma ci sono prove in positivo dell’indipendenza di Frontone. Nigro Censorio era caduto in disgrazia; sarebbe stato quindi politicamente pericoloso accettarne l’eredità, ma Frontone rivendica davanti al potere i diritti dell’amicizia (Ad Ant. P.3 e 4 = 162-164). Più significativo ancora, almeno come a me pare , il comportamento nel processo contro Erode Attico, personaggio potentissimo e molto legato a Marco Aurelio. Frontone è l’avvocato di parte avversa e il principe interviene presso di lui, preoccupato di fratture all’interno del suo entourage. Si tratta di una pesante interferenza del potere. Frontone accetta di non far entrare in gioco motivi personali, ma mette il principe con le spalle al muro: Erode ha compiuto delitti gravi (inosservanza della volontà paterna, fustigazione di uomini liberi, persino un’uccisione, Ad M. Caes. III, 3 = 36-37) e quindi è impossibile un’arringa che non sia proporzionata a tale gravità; si può rinunciare all’applicazione del solito principio dell’adeguatezza re s -verba? Marco Aurelio non può smentire l’insegnamento ricevuto.
Si può di qui dedurre che una fonte dell’indipendenza, sia pur relativa, del retore di fronte al potere è la gelosa difesa della propria competenza professionale . Di una pagina del palinsesto, purtroppo bruciata dall’acido gallico, è rimasta una nota marginale sul celebre aneddoto di Apelle, che zittisce Alessandro Magno, quando questi vorrebbe sentenziare anche in materia di pittura (De eloquentia = 138, 23-24). A ciascuno il proprio ambito. Quindi anche al tempo del De orationibus Frontone si permette di criticare la forma di un editto, steso in modo "indegno persino di un libro scadente" 159, 1ss. (il rimprovero analitico enumera ambitus, circumitiones e simili). Come già per Corneliano, Frontone individua nella cultura il legame che lo unisce al principe: il suo amor potrebbe essere impedito dalla non condivisione di questa paideia (153, 7-11). L’eloquenza diventa cioè un valore. Infatti non è una sovrastruttura, ma un possesso per sempre (con termini moderni diremmo che attiene all’essere, non all’avere): il potere si può trasmettere e può cadere in mani indegne, invece neque viventi eloquentia potest adimi neque morte adempta in alium transferri (Ad Verum Imp. II, 1, 6 = 121, 4).
La seconda parte del Pensiero I, 11 marcaureliano si lega alla prima sul tema del vero, ma visto in positivo. La traduzione italiana non rende piena ragione del pensiero. Astorghoi è il contrario di philostorghoi, ma la philostorghia non ha l’equivalente nel vocabolario latino, perché nel costume romano manca il concetto. Così almeno sostiene Frontone presentando Gavio Claro, un uomo di modeste condizioni, dotato di simplicitas, castitas, veritas, fides Romana, ma eccezionalmente anche di philostorghia (Ad Verum imp. I, 6, 7 = 111, 14-20 ). La philostorghia non è la schiettezza, che già risulta nell’elenco sotto la voce simplicitas. La philostorghia implica invece l’affettività e si realizza bene nella tenerezza dei rapporti familiari (così il nonno Frontone per il nipotino). È dunque un amore gratuito, cioè connesso a soggetti in relazione sentimentale, non a un elemento esterno di scambio. Perciò Frontone lo potrà definire anche verus amor .
La teorizzazione appare infatti in una lettera a Marco Aurelio (Ad M. Caes. 1, 3 = 3, 20 ss ), in cui Frontone si domanda perché debba essere tanto ben voluto dai principi. Non si è sacrificato per loro né ha governato province né comandato eserciti, anzi non è stato neanche un buon cortigiano, di quelli che vanno ogni giorno alla salutatio e fanno codazzo ai potenti. Ma questo è proprio ciò che Frontone vuole, il verus amor, cioè quello del quale si può dire nullam extare rationem. Infatti nec omnino… amor videtur qui ratione oritur et iustis certisque de causis copulatur. Amorem ego illum intellego fortuitum et liberum et nullis causis servientem, inpetu potius quam ratione conceptum. È facile qui leggere sotto le righe l’eco della riflessione filosofica, che, penetrando nella cultura generale, può anche apparire un luogo comune. Ma rimane difficile negarne l’elevatezza morale. Una contro-prova di sincerità poi può essere offerta dalla confessione, che il nostro fa a Marco Aurelio sui suoi rapporti con l’avo imperiale: per Adriano egli non ha provato verus amor; propitium et placatum magis volui quam amavi;… quem tantopere venerabar, non sum ausus diligere (Ad M. Caes. 11, 4 = 25, 6 e 9).
Quindi i criteri di misura adottati da Frontone non sono l’interesse e l’ambizione, attengono all’essere più che all’avere. Verso il potere costituito egli ha rispetto, ma lo supera e lo demitizza, perché al di là del fasto scopre l’uomo. La casa degli Antonini, nella quale si viveva in borghese semplicità, è adatta a tale modello. In questo quadro si inseriscono bene anche i malanni. Persino il De bello Parthico, che dovrebbe essere una solenne consolatoria per una grave sconfitta toccata alle legioni nella prima fase della guerra ai confini orientali, viene interrotto dalle solite lamentele. Anche Marco Aurelio demitizza il potere: il trionfo sui Sarmati è qualitativamente pari alla cattura di una mosca da parte di un ragno (Ricordi X, 10); "le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine" (V, 33 trad. Cortassa ). L’uomo più potente del mondo, che assolve con rigore stoico al suo dovere di comando, la sera si spoglia dei panni reali e curiali e sotto la tenda si ritrova solo con tutte le sue incertezze e la sua fragilità a interrogarsi sulla condizione umana.
 

Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1982, pp.27-37.