Gesù e i Vangeli canonici e apocrifi

Ciò su cui vorrei riflettere con voi è in quale misura e per quale via possiamo cercare di conoscere la figura storica di Gesù. Di per sé questa domanda non ha direttamente a che vedere con la mia o la vostra fede in Gesù Figlio di Dio e Messia; non direttamente perché è una questione storica, e, come tale, bisogna applicarle un principio al quale personalmente tengo, ed è che lo storico, in quanto storico, non può e non deve esprimersi in prima persona su Dio. Lo storico non decreta se non riportando le posizioni delle persone o dei gruppi sui quali concentra la sua ricerca, non formula enunciati che facciano intervenire Dio o un essere considerato come appartenente alla sfera divina o trascendente come soggetto, predicato o oggetto delle sue affermazioni. In qualità di storico, non potrò affermare che Gesù era il Figlio di Dio. E neanche, per esempio, che Dio ha permesso a Gesù di operare miracoli. E questo non perché non pensi che Gesù abbia operato delle guarigioni, o non creda che Gesù si possa chiamare Figlio di Dio, ma perché lo storico semplicemente non possiede gli strumenti per pronunciarsi su lui.

Meno ancora può appartenere allo storico un’affermazione antichissima e assolutamente capitale per il cristianesimo, quale: “Dio ha resuscitato Gesù”. In questo caso la difficoltà sarebbe doppia, perché oltre a far agire Dio, si fa anche intervenire una nozione come quella di resurrezione, la quale, nel suo specifico rimando a Gesù, per definizione, non trova nessuna analogia tra le esperienze note e documentate nella storia umana. Mai la resurrezione di Gesù è stata considerata come assimilabile al ritorno in vita di persone operato dal Cristo di cui si racconta nei Vangeli. Infatti, lo stato del Gesù resuscitato, così com’è stato presentato fin dalle origini del cristianesimo, è uno stato completamente diverso. Siamo di fronte a un enunciato che vuole avere un senso, ma questo senso non è verificabile per lo storico, poiché non è verificabile di quale tipo di evento si tratti. Quindi, l’impossibilità di verificare, e conseguentemente di falsificare, tale asserzione è duplice. Invece, ciò che lo storico potrebbe dire sarebbe che due giorni, forse, dopo la sepoltura di Gesù la sua tomba è stata trovata vuota. Questa sarebbe una posizione intorno alla quale lo storico può discutere. Primo, perché lo storico ha dei documenti che lo affermano: vi sono testi in cui è scritto che il terzo giorno dopo la morte di Gesù, la sua tomba è stata trovata vuota. In secondo luogo, la scoperta che una tomba è vuota può essere concepita partendo da esperienze reali, e può essere spiegata entro l’ambito dei comportamenti umani, ovvero ciò di cui si occupa lo storico. Però, anche in questo caso, lo storico dovrebbe esercitare una critica rigorosa delle fonti, perché i racconti sulla tomba vuota sono attestati soltanto oltre trent’anni dopo i fatti, mentre nessuno dei numerosi accenni precedenti alla resurrezione di Gesù narra di quella scoperta. Oppure, lo storico s’interrogherà sul fatto che esistono diverse documentazioni sulla vicenda della tomba vuota: basti pensare alla fine dei Vangeli del Nuovo Testamento, e ad altri racconti non canonici. A quel punto lo storico dovrebbe provare la loro compatibilità con la realtà e confrontare le differenze fra un testo e un altro. E ancora oggi non c’è tra gli studiosi un accordo sulla realtà storica della scoperta della tomba vuota di Gesù.

Ciò che uno storico può affermare con maggior fiducia, proprio perché la critica delle fonti gli consente di farlo, è che poco dopo la morte di Gesù alcune delle persone che gli erano state vicine sono state convinte di aver avuto delle esperienze di incontro con lui. Questo è ciò che le fonti riportano in maniera molteplice e che possiamo accettare come un fatto storicamente accertato. Il caso è interessante, perché permette di distinguere tre livelli di analisi: uno è quello delle testimonianze, in cui lo storico può considerare, con una certa sicurezza, come verosimili le esperienze vissute da queste persone, che hanno interpretato tali eventi come incontri con Gesù resuscitato. Qui, l’indagine è legittima e necessaria, e porta a un risultato plausibile, sul quale lo storico può costruire ulteriormente.

Un secondo livello riguarda ciò che è realmente accaduto, desumibile sempre in base alla critica delle stesse fonti, cioè dei racconti sulle apparizioni di Gesù; per cui, è difficile e forse impossibile ricostruire quali avvenimenti abbiano dato origine a queste testimonianze. Questo perché tali racconti sono molto diversi e in parte contraddittori l’uno con l’altro, in parte contraddittori all’interno addirittura di ciascuno di essi. Pertanto, l’indagine su quali fatti possono aver preceduto le testimonianze è certamente legittima per lo storico e necessaria, però in questo caso è arduo ottenere un risultato: è possibile avanzare ipotesi ma è sconsigliato metodologicamente costruire ulteriormente su ipotesi di questo tipo.

Vi è poi un terzo livello, che è quello dell’attribuzione a Dio di questi eventi: gli incontri con il Gesù risorto vengono legati direttamente all’intervento di Dio. Qui l’indagine storica non ha senso di essere. Però il fatto che non sia competenza dello storico esprimersi su Dio come autore di quello che è accaduto non può in nessun modo attestare l’insufficienza del lavoro storiografico. Semplicemente, il discorso su Dio rimane esterno alla sfera storica.

È invece fondamentale nel lavoro di uno storico la consapevolezza che alcune persone hanno creduto che Dio avesse resuscitato Gesù, e che hanno orientato la loro vita sulla base di questa convinzione. Allora lo storico mostrerà, servendosi delle fonti che ha a disposizione, che le loro azioni sono state prodotte dai sensi che implicava questa credenza, e che tali sensi facevano parte di un preciso contesto culturale, ma che sono stati trasferiti poi anche in altri contesti, dove si sono modificati. Lo storico può e deve studiare in quali forme, in quali modi, la convinzione di aver incontrato Gesù risorto ha prodotto eventi, modifiche, processi, e così via. È irrinunciabile per lo storico cogliere e descrivere il messaggio specificamente religioso delle persone e dei gruppi dei quali si occupa, mettendolo in rapporto con l’insieme del contesto nel quale è stato comunicato. Ciò che invece lo storico non farà sarà assumere in proprio quel messaggio: anche se credente, uno studioso non può costruire la sua interpretazione sul presupposto che Dio agisce nelle storia. Dovrà essere basata, invece, sulla critica e sulla comprensione delle fonti. Molti storici penseranno che un discorso come quello che ho fatto adesso sfondi una porta aperta, ma purtroppo non è sempre così, e lo dimostrano anche polemiche di anni molto recenti, specialmente in Italia, intorno alla ricostruzione del personaggio storico di Gesù.

Si potrebbe affermare che per conoscere l’operato di Gesù abbiamo i quattro Vangeli. Contenuti nella Bibbia, sono stati composti da discepoli diretti di Gesù (Matteo e Giovanni) oppure da loro collaboratori (Marco e Luca). E dunque perché la ricostruzione della sua figura dovrebbe rappresentare un problema? Ebbene, questa è la posizione che ha prevalso molto a lungo nel mondo occidentale, che, tanto più influenzato dal cristianesimo, tendeva a non mettere in dubbio la veridicità di fonti le quali, in quanto canoniche, cioè normative, dovevano dire la verità. Certo, fin dall’antichità ci si era resi conto che fra i Vangeli sussistono delle differenze. Vi sono casi classici e macroscopici: per esempio, esiste una genealogia di Gesù nel Vangelo di Matteo e un’altra nel Vangelo di Luca, che non corrispondono tra loro, per cui già il nonno di Gesù, il padre di san Giuseppe, è diverso, e poi il ramo famigliare si diparte in due direzioni completamente incongruenti. Altri esempi riguardano alcune questioni di cronologia, come l’episodio in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio, il quale avviene pochi giorni prima della sua morte, come raccontano i Vangeli di Marco, Matteo e Luca, oppure anni prima, cioè all’inizio del suo ministero, come risulta dal cap. 2 del Vangelo di Giovanni. Poi ancora, i Vangeli di Matteo, Marco e Luca parlano di una sola Pasqua, celebrata da Gesù nel suo ministero appena prima di morire, mentre il Vangelo di Giovanni ne menziona addirittura tre, e quindi lascia l’impressione di un ministero di Gesù che duri almeno più di due anni. Ancora, secondo i Vangeli di Matteo, Marco e Luca, l’ultima cena di Gesù coincide con il pasto rituale di Pasqua che celebravano gli ebrei, e celebrano tutt’oggi in famiglia, la sera del giorno 14 di nisan (il settimo mese del calendario ebraico), che segna l’inizio della festa pasquale; secondo quanto scritto, Gesù ha celebrato la Pasqua con la sua nuova famiglia, ovvero il gruppo dei suoi discepoli, ed è morto il giorno dopo, il 15 del mese di nisan. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù muore il 14 di nisan, cioè prima che gli ebrei mangiassero la Pasqua, e quindi la sua ultima cena deve aver avuto luogo la sera prima, e non poteva essere una cena pasquale.

Questi problemi sono stati visti fin dall’antichità nel cristianesimo e si sono affrontati, ma lo si è fatto con un’impostazione che è il rovescio di quello che oggi si considererebbe un metodo storico corretto, e cioè si partiva dal presupposto che i Vangeli dicono la verità. Allora cosa deve fare lo studioso? Come deve esercitare il suo ingegno? Lo studioso deve impiegare la sua intelligenza trovando il modo per dimostrare che le contraddizioni fra i Vangeli erano solo apparenti. Questo è un sistema che ha continuato a essere usato non solo nell’antichità ma fino ai nostri giorni. Oggi si trova ancora qualcuno che s’impegna in esercizi simili, però il metodo storico sviluppato in età moderna, e che tutti noi in realtà ammettiamo quando non si tratta di Gesù o di cose che ci stanno a cuore, impone di procedere in altra maniera, e cioè non pensare che le fonti presuppongano la verità, e che quindi se vi sono contraddizioni lo sono solo in apparenza, e il compito dello storico sia di spiegare qual è il suo errore quando le legge, ma rilevare le divergenze, esaminarle, discutere se si possono risolvere. Se questo non appare possibile, non bisogna cercare a tutti costi di armonizzare, ma è opportuno cercare di capire le ragioni che hanno provocato una situazione del genere, per esempio ammettendo che uno dei racconti sia inventato, o eventualmente che siano inventati entrambi, e di conseguenza è necessario cercare di scoprire perché ci sono state queste elaborazioni, e così via. Bisogna, cioè, affrontarle in maniera storicamente onesta. Ed è stato proprio il fatto di prendere sul serio il compito dello storico, unito anche a questioni di polemica teologica, che ha portato alla crisi che ha fatto esplodere il problema del Gesù storico.

Albert Schweitzer, che tutti conosciamo come il medico dei lebbrosi di Lambaréné, è stato anche un sommo esecutore e teorico di musica per organi e della loro costruzione, un grande pensatore religioso di ampi orizzonti, e uno storico importante delle origini del cristianesimo. Schweitzer, quando era a Strasburgo, dove aveva studiato, pubblicò nel 1907, poi in una seconda edizione definitiva nel 1913, un poderoso libro intitolato Storia della ricerca sulla vita di Gesù, tradotto in italiano solo nel 1986. La grande opera percorre le tappe fondamentali della ricerca sulla vita di Gesù fino agli inizi del XX secolo a partire dal momento in cui, secondo Schweitzer, era stato rovesciato il metodo armonizzante di cui ho parlato sopra. Schweitzer situava questo punto d’inizio negli anni tra il 1774 e il 1778, quando il grande letterato, filosofo, erudito e filologo Gotthold Ephraim Lessing pubblicò anonimi sette estratti più o meno lunghi provenienti da un manoscritto di 4.000 pagine, che gli era stato lasciato da un professore di Lingue orientali di Amburgo, Hermann Samuel Reimarus, morto nel 1768. Quando Lessing ricevette questo manoscritto, si rese conto del suo potenziale, poiché Reimarus nel suo scritto, – che è stato peraltro pubblicato per intero in lingua originale tedesca solo nel 1972, duecento anni dopo l’uscita dei frammenti di Lessing – fondava storicamente i suoi attacchi al dogma ecclesiastico, e prendeva le difese di una religione fondata sulla ragione (era infatti piena epoca illuminista). Esiste una bella traduzione italiana di questi estratti con un’introduzione ben fatta, dotata di note complete e molto interessanti di uno studioso italiano di origini del cristianesimo e dell’ebraismo, che è Fausto Parente. Specialmente importante per noi è l’ultimo dei grossi frammenti di Lessing, intitolato Sullo scopo di Gesù e dei suoi discepoli. Il titolo ha un senso preciso, perché Reimarus sosteneva che gli obiettivi di Gesù e quelli dei suoi discepoli non fossero affatto stati gli stessi. Egli, attraverso un’analisi dei racconti evangelici – l’opera di Reimarus si estendeva ai racconti dell’Antico Testamento -, cercava di dimostrare che Gesù di Nazareth era sì stato un profeta che aveva annunciato la fine imminente del mondo e l’avvento del Regno di Dio, ma era anche stato arrestato dai Romani, e poi condannato e crocifisso come agitatore politico e ciò aveva sostanzialmente decretato il suo fallimento. Reimarus sottopone i racconti sulla scoperta della tomba vuota nei quattro Vangeli a una critica spietata, la quale ne mette in evidenza le insanabili contraddizioni e inverosimiglianze. La sua tesi, raggiunta attraverso l’impiego di un metodo storico che oggi ci appare per molti versi discutibile, ma che mostra la volontà di affrontare in modo serio le incongruenze, è che il fatto della tomba vuota è autentico, ma le divergenze tra le fonti permettono allo storico di concludere che erano stati proprio i discepoli a trafugare il cadavere e a mettersi d’accordo per dire che la tomba era stata trovata vuota perché Dio aveva resuscitato Gesù. I discepoli, secondo Reimarus, l’avrebbero fatto appositamente per divulgare l’idea della Resurrezione di Cristo voluta da Dio, il quale voleva così dimostrare che Gesù era morto per la salvezza degli uomini e sarebbe presto tornato dal Cielo nella gloria.

Non ci interessa qui criticare o valutare questa soluzione, ma rilevare la rottura irreparabile che questo scritto ha prodotto, e cioè la volontà forte e inesorabile di applicare ai Vangeli le regole della critica storica, rovesciando il metodo precedente: non sforzarsi di armonizzarli ma piuttosto insistendo sulle loro divergenze e cercare di spiegarli storicamente. Oggi la posizione di Reimarus non è più accettata da nessuno, ma rimane importante la svolta di metodo da lui conseguita. Si capisce quindi perché Schweitzer iniziasse con lui la ricerca sulla vita di Gesù, proprio poiché Reimarus aveva posto fine all’età dell’innocenza, mostrando che non si potevano più prendere i Vangeli alla lettera, e che lo storico doveva ricostruire anche contro di essi se necessario, fondandosi su ciò che riportano e nel contempo sospettandolo, e cercando di capire quali sono le intenzioni che hanno guidato le redazioni dei vari evangelisti.

Vorrei vedere con voi come si pone oggi il problema delle fonti antiche su Gesù, il loro carattere e la loro pertinenza per ricostruire oggi il personaggio storico di Gesù. Credo sia ben noto che la tradizione su Gesù è stata inizialmente veicolata in forma orale. Nelle Lettere di Paolo, che sono i primi documenti cristiani che noi possediamo della prima metà degli anni 50, quando scrive del “mio vangelo”, tutti sono d’accordo si riferisca al contenuto della buona notizia di Gesù e su Gesù, e non a un libro. Non esistevano Vangeli scritti ai suoi tempi.

La tradizione orale veniva trasmessa in piccole unità, comprendenti un detto o più detti di Gesù intorno allo stesso argomento, connessi da parole chiave e da assonanze, ad esempio un racconto di un miracolo o di una controversia, ecc. Nella tradizione orale non si riportava tutta la vita di Gesù, ma solo ciò che aveva detto riguardo a un problema di comportamento di una determinata comunità, per esempio su una controversia tra ebrei che non credevano in lui. La memoria di Gesù veniva trasmessa perché serviva alla vita di comunità. E naturalmente serve anche per sapere chi Gesù è stato, perché quando si propone la fede in Gesù, anche se si tratta dello stesso Gesù resuscitato, che è vissuto e di cui è data testimonianza da quelli che hanno vissuto con lui, bisogna ricordarsi dell’importanza di tale conoscenza per il credente, perché sappia cosa dobbiamo conoscere per incontrarlo come nostro salvatore. Quindi, ci importa di sapere ciò che Gesù ha fatto e detto ma in questa prospettiva:“Non raccontiamo Gesù” – dicevano grossomodo i primi discepoli e i missionari cristiani – “perché ci interessa conoscere un passato. Lo raccontiamo perché ci interessa il nostro presente, perché dipende da questo passato”.

Come mostrano già le Lettere di Paolo e poi molti scritti dei primi decenni, le parole di Gesù avevano un’enorme importanza come norme per i gruppi di credenti, e poteva essere fondamentale distinguere regole riconosciute come parole di Gesù da altre che non lo erano. Paolo, ad esempio, nella prima Lettera ai Corinizi, cap. 7, espone un problema sui rapporti tra marito e moglie, e distingue la soluzione proposta dalle parole del Signore stesso dalla propria, quella di un discepolo. In altri casi si trasmettevano le parole di Gesù anche senza specificare la loro origine. Vi è un documento, a questo proposito, che contiene norme di comportamento e liturgiche, che risale nella forma a noi pervenuta ai primi decenni del secondo secolo, chiamato L’insegnamento dei dodici apostoli, spesso designato con l’inizio del titolo in greco didakè, ovvero insegnamento. Scritto da cristiani, nella prima parte riproduce un testo di etica giudaica, basato sull’idea che esistano due vie, una della vita e una della morte: nella prima viene inserita una serie di precetti, da noi riconosciuti, grazie al resto della tradizione, come parole di Gesù, anche se non viene specificato.

Oltre alla circolazione di parole attribuite a Gesù, sono state tramandate anche parole non sue, ma siccome divenute in seguito fondamentali per una comunità, sono state ricondotte a lui. Si manifesta quindi una doppia tendenza: da una parte le parole di Gesù, o quelle trasmesse come sue, continuavano ad essere recitate senza sapere che erano sue, perché autorevoli di se stesse, d’altra parte si tendeva ad attribuire a Gesù principi e norme ormai accettate ma probabilmente non stabilite da lui, in quanto le troviamo anche attestate altrove, al di fuori dei Vangeli, per esempio in autori antichi che citano parole isolate di Gesù, trasmesse al tempo dei Vangeli scritti. Questo ci permette di capire che già negli ultimi decenni del primo secolo, quando vengono composti i Vangeli poi considerati canonici, la tradizione di Gesù era complessa, e non esisteva garanzia sul fatto che le parole attribuitegli fossero effettivamente state pronunciate da lui. In secondo luogo, ci insegna che se vogliamo davvero capire come sia funzionata la tradizione sulle parole di Gesù, compresa quella dei Vangeli del Nuovo Testamento, non possiamo basarci solamente su di essi, ma dobbiamo considerare l’intera tradizione di testi che le hanno trasmesse. Infatti, i quattro Vangeli poi inseriti nel Nuovo Testamento – inserimento tardivo rispetto alla loro composizione –sono stati scritti da autori diversi, che in parte conoscevano l’opera gli uni degli altri, ma che scrivevano autonomamente e non hanno cercato di comporre un insieme di quattro libri che funzionasse come tale. Ogni Vangelo va analizzato per il suo proprio contenuto, anche se poi lo storico opera confronti tra le varie fonti per risalire al di là di esse verso le tradizioni di cui disponevano.

Una delle acquisizioni più importanti nella ricerca sulla figura di Gesù è che non solo testi non canonizzati contengono parole la cui trasmissione risale a prima della redazione dei Vangeli canonici, ma che si potrebbero scartare i Vangeli apocrifi solo se si potesse dimostrare che non possiedono ulteriori informazioni che possano ricondurci oltre rispetto a ciò che è contenuto in quelli canonici. In sostanza, la comprensione dei processi che hanno portato le parole di Gesù a prendere le forme differenti presenti nei Vangeli canonici è incompleta se non si prendono in considerazione le forme che esse hanno assunto nei Vangeli poi considerati apocrifi.

Un esempio evidente è il caso della parabola del banchetto preparato dal padre per le nozze del figlio, della quale esistono tre versioni: una è contenuta nel Vangelo di Matteo, un’altra in quello di Luca e una terza appartiene a un apocrifo, il Vangelo di Tommaso, non incluso nel Nuovo Testamento e riscoperto nel XX secolo. Tradizionalmente, si tende a sottovalutare il Vangelo di Tommaso, mentre Matteo e Luca propongono varianti molto diverse di questa parabola. Il problema è stabilire quale sia stata la versione originale di Gesù. Oggi, confrontando i tre testi, soprattutto quelli di Matteo e Luca, si nota come le parabole siano state profondamente trasformate in base ai problemi attuali di chi ha scritto e delle comunità a cui esse erano destinate.

Nel Vangelo di Matteo si racconta di un re che programma il banchetto di nozze per suo figlio: il sovrano manda i servi a chiamare gli invitati, ma quelli si rifiutano di venire; allora il re invia altri servi, ma non solo gli invitati li trascurano, addirittura alcuni insultano e uccidono i servi, in un crescendo narrativo sempre più improbabile e assurdo. A quel punto il re, furioso, riunisce il suo esercito e ordina ai soldati di uccidere gli invitati e di dare fuoco alle loro città, e nel frattempo manda i servi a chiamare la gente ai crocicchi delle strade, e i nuovi invitati arrivano. Una storia che parrebbe inverosimile se non si confrontassero altri passi presenti nel Vangelo di Matteo, in cui risalta la forte preoccupazione per i contrasti sorti fra Gesù e la tradizione di Israele, per i quali il popolo ebraico aveva rifiutato il Messia. Perciò, probabilmente, la comunità di cui faceva parte l’evangelista aveva bisogno di direttive e di istruzioni al riguardo. E quindi con le figure dei servi Matteo allude ai profeti mandati in Israele, che erano stati uccisi, mentre la presa e la distruzione della città fanno riferimento alla distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70, e sicuramente il Vangelo di Matteo è stato scritto dopo questa data. Matteo conosceva quindi certamente la parabola di Gesù, ma noi fatichiamo a percepirla integra perché è stata attualizzata dall’evangelista, attraverso un’esplicitazione del senso da lui colto in relazione al contesto in cui viveva.

Nella parabola di Luca compare un solo servo, gli invitati non rispondono e forniscono diverse scuse (che vengono qui precisate) per non partecipare al banchetto; il servo torna a casa salvo, ma il padrone si arrabbia e ordina di condurre in casa gli storpi, i ciechi e gli zoppi trovati per le strade. Il servo esegue ciò che gli è comandato, ma quando ritorna alla casa ci si rende conto che c’era ancora posto per altri invitati, e allora viene mandato in campagna a raccogliere altra gente. I due invii del servo fanno riferimento ad altri passi del Vangelo di Luca, nei quali s’insiste sull’importanza della chiamata non solo di Israele ma anche dei pagani. Gli ebrei sono stati chiamati, ma c’è ancora posto per i pagani, e la casa si riempie degli uni e degli altri.

Il Vangelo di Tommaso trasmette un’ulteriore versione, apparentemente più semplice e lineare, in cui il servo è mandato a chiamare gli ospiti ma quelli avanzano scuse (similarmente al Vangelo di Luca), legate in particolare a questioni di denaro, di impegni specifici, di diramazione sociale, ecc. Il padrone di casa ordina di condurre tutti coloro trovati per le strade, ma “i compratori e commercianti non entreranno nei luoghi del padre mio”. Leggendo il Vangelo di Tommaso, troviamo come punto fondamentale della predicazione di Gesù il monito a non disperdersi negli affari di questo mondo, ma a cercare l’unica cosa importante per la vita di ogni uomo, che è Dio dentro di sé.

Da questo confronto, si conclude che la parabola è stata trasmessa in ambienti diversi e che è stata più o meno profondamente trasformata secondo le caratteristiche dell’uno o dell’altro, perché ognuno l’ha reinterpretata in funzione dell’immagine che aveva di Gesù, di ciò che aveva fatto e detto. Nel Vangelo di Tommaso la struttura narrativa della parabola ha moltissime possibilità di essere più vicina alla forma della parabola più antica che Gesù deve aver raccontato, per noi impossibile da ricostruire in maniera puntuale. Ci sono motivi per pensare che Tommaso l’abbia riadattata meno degli altri.

Questo caso ci aiuta a renderci conto che in tutti i Vangeli la tradizione delle parole di Gesù è stata modificata in funzione di esigenze presenti, e che non possiamo ricostruirla senza prendere in considerazione entrambe le categorie di Vangeli. Con tali testi si è passati dalla tradizione orale a scritti che si proponevano di tramandare la parola di Gesù. La tradizione scritta che ha avuto diverse concause, tra le quali la scomparsa dei discepoli diretti di Gesù e dei loro successori, la consapevolezza che il mondo non sarebbe finito presto e che quindi ci si dovesse adoperare perché quanto era stato pronunciato dal Cristo fosse tramandato in maniera più stabile. Esistono testi, come il Vangelo di Tommaso, che contengono praticamente solo parole di Gesù, riportate sotto forma di citazioni dirette. Mancano i racconti della Passione, non sono presenti resoconti di miracoli, ma solo sue parole, alcune accompagnate da una piccola cornice narrativa evidentemente reinventata a partire dalla parola. Questo ci dice che v’erano comunità di credenti per le quali la buona novella consisteva nel capire il senso di quanto proposto da Gesù, al fine di modificare la propria vita e orientarla verso i suoi insegnamenti, il che costituiva la via verso la salvezza. E certamente non avranno ignorato che Gesù era morto in croce e nemmeno che aveva operato delle guarigioni, ma ciò che contava principalmente era pensare a quello che sarebbe servito alle generazioni future, ovvero quelle parole. Infatti, il Vangelo di Tommaso inizia così: “Questi sono i detti segreti che il Gesù vivente ha proferito, e Giuda, che è chiamato anche Tommaso, ha scritto: E disse: Chi troverà l’interpretazione di questi detti non gusterà la morte”. La parola greca per segreti era apokrifoi. Questo vangelo si presentava quindi come contenente parole nascoste, apocrife, sottratte alla vista. Le parole erano segrete perché nell’antichità si considerava una rivelazione tanto più preziosa ed elevata quanto più richiedeva sforzo per essere compresa. Doveva essere enigmatica, perché il lavorio di chi cercava di interpretarla gli permettesse di progredire e giungere a una salvezza (si pensi solo all’Apocalisse di Giovanni, che contiene immagini e allegorie estremamente complesse). L’idea sottesa è che Gesù salva poiché ha insegnato un nuovo modo di arrivare a Dio, che non è dato dalla morte e dalla Resurrezione di Gesù stesso né dalle sue guarigioni, ma dalla conoscenza delle sue parole, com’era prassi anche nella filosofia allora contemporanea (si vedano Epicuro e i suoi seguaci). Il Vangelo di Tommaso propone un itinerario di ciò che le parole di Gesù indicano.

In un altro passo, pervenuto in greco su un frammento di papiro, Gesù dice: “Colui che cerca, non smetta di cercare fino a quando abbia trovato, e quando avrà trovato resterà sbigottito, e rimasto sbigottito regnerà, e avendo regnato troverà riposo”. La versione in copto è simile e recita: “Colui che cerca non smetta di cercare fino a quando abbia trovato, e quando avrà trovato sarà turbato, e quando sarà turbato sarà meravigliato, e regnerà sopra tutto e troverà riposo”. È interessante notare come nel copiare la stessa opera si modificassero parole e senso. Qui è presentato un itinerario spirituale simile, ma non identico: in comune i due stralci hanno la necessità di un viaggio interiore, di vita, alla fine del quale, e oltrepassate determinate tappe, si scoprirà Dio. Gesù è visto come il rettore spirituale che conduce attraverso quest’esperienza.

Tale parola è contenuta anche in altri testi, che la ripropongono sotto forme diverse, ad esempio nel Vangelo secondo gli Ebrei, per cui è continuamente ripresa, integrata e reinterpretata nel senso della propria concezione di Gesù. La conoscenza delle parole di Gesù serviva a farsi un’idea di cosa aveva voluto dire, ma al tempo stesso si aveva la volontà di renderle più esplicite, modificandone la forma. Chi avrà compiuto tutte le fasi “regnerà e troverà riposo”:quest’asserzione si ricollega a uno dei momenti storici più importanti della predicazione di Gesù, cioè quando annunciò il Regno di Dio. Lo sappiamo perché varie fonti, tra loro indipendenti, lo riportano (vedi gli scritti di Paolo, i Vangeli di Marco, Matteo, Luca, Giovanni, Tommaso, e secondo gli Ebrei), anche se cambia da un testo all’altro. Ad esempio, relativamente alla concezione del regnare e del riposare, io penso vi fosse collegata una concezione della fine del mondo e del regno finale dei giusti con Cristo, seguito poi dal regno eterno di Dio. Ma nel Vangelo di Tommaso tale idea diviene individuale: è una salvezza personale e atemporale, raggiunta alla fine di un percorso nella pace in Dio. Qui una concezione escatologica del mondo – e quindi una rappresentazione collettiva e catastrofica di fine del mondo, ancora presente nei Vangeli di Marco e Matteo – poteva essere reinterpretata in contesti non giudaici, dove si muoveva da un’ottica differente, per cui regnare significava trovare Dio in ciascuno di noi e lì trovare riposo.

Oltre agli scritti che raccolgono le parole di Gesù, ne sono stati redatti altri che narrano della sua vita, e cioè quelli contenuti nel Nuovo Testamento, testi dominanti e normativi nella nostra tradizione religiosa. Il più antico di essi è probabilmente il Vangelo di Marco, che prende le mosse dalla tradizione orale che raccoglieva le singole parole e gli eventi della vita di Gesù, per riproporli in forma ordinata e scritta. Tuttavia, gli studiosi del XX secolo hanno dimostrato che la cornice narrativa del Vangelo di Marco è largamente un’invenzione dell’evangelista stesso, e pertanto differisce da quella proposta dagli altri evangelisti. Certamente Marco è consapevole di come organizza il suo Vangelo: intanto, la Passione di Gesù occupa una parte considerevole del testo (capp. 14-16), e al momento della morte di Gesù, Marco fornisce la risposta alla domanda che attraversa la folla per tutto il Vangelo, e cioè chi sia quell’uomo che compie prodigi, che si pone con tale autorevolezza, che placa la tempesta, ecc. Al centro della narrazione si trova l’episodio di Gesù nella regione di Cesarea, in cui chiede ai suoi discepoli chi pensano che lui sia; Pietro, parlando a nome di tutti, risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Gesù gli intima di parlare a bassa voce, e comincia a profetizzare sul destino del Figlio dell’Uomo. Nella seconda parte del Vangelo, Gesù ripete questa predizione per tre volte, in tre momenti strategici, insistendo sul fatto che sarà crocifisso. Quando Gesù muore, il centurione sotto la croce dice: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio”, e poi segue la scena della tomba – anche se noi sappiamo che l’ultima parte riguardante le apparizioni è stata aggiunta dopo, mentre la parte antica, di Marco, sulle donne che affermano di aver incontrato l’angelo, racconta che le donne scapparono via senza aver detto nulla a nessuno, poiché avevano paura. Alcuni studiosi ipotizzano che si sia perduta l’ultima pagina o che Marco sia morto prima di aver ultimato l’opera. C’è anche chi pensa, a parer mio in modo plausibile, che Marco abbia voluto finire così il Vangelo, sulla base del fatto che in un testo in cui ci si interroga su chi sia effettivamente Gesù, – conferendogli poi il nominativo di Messia, che verrà crocifisso, ma di cui si scoprirà la tomba vuota e si riconoscerà l’intervento di Dio, in cui le donne si allontanano senza divulgare la propria scoperta -, pare che si voglia lasciare al lettore ideale il compito di scegliere chi sia stato per lui Gesù.

Non bisogna chiedersi se esiste un Gesù dei Vangeli canonici e uno Gesù dei Vangeli apocrifi: non esiste un Gesù degli uni e meno ancora degli altri. Esistono diverse ricezioni della sua figura nei vari Vangeli, e pertanto ogni fonte va interrogata autonomamente, perché, ad esempio, il Vangelo di Pietro non ha nulla da raccontarci sul Gesù storico, mentre quello di Tommaso sì; oppure i frammenti ritrovati del Vangelo degli Ebrei sono tutti indipendenti dai Vangeli canonici, e, pur se leggendari, alcuni elementi confermano quanto scritto in quelli canonici.

Tutta la memoria posseduta su Gesù è stata, usando le parole del grande studioso David Friedrich Strauss, la “dimensione mitica” in cui ci è raccontata la sua storia: significa che tutta la vicenda di Gesù è stata reinterpretata come una storia in cui Dio interviene direttamente, agendo nel mondo e in Gesù stesso. L’intervento di Dio era ciò che contava per gli antichi cristiani, eppure queste notizie non hanno completamente cancellato il loro sostrato storico. Rimane impossibile cercare di ricostruire una vita di Gesù, innanzitutto perché i Vangeli raccontano il ministero di Gesù e non quanto ha fatto prima; inoltre, riguardo fatti come la nascita, lo storico ha dimostrato che si tratta di leggende.

È invece possibile ricostituire alcuni elementi che con eccellenti probabilità hanno caratterizzato questo personaggio, che ha esercitato un’impressione così profonda sulle persone che lo hanno incontrato, anche se già le ricezioni dei suoi discepoli differiscono le une dalle altre (Mauro Pesce scrive, a proposito, di una “pluralità di immagini” di Gesù). È necessario comprendere quale sia stato il punto originario e ideale che ha reso possibile poi tutte le diverse ricezioni, così come bisogna cercare di immaginare un Gesù plausibile da un punto di vista culturale, cioè un ebreo del suo tempo nella regione in cui vive, la Galilea, nella quale negli ultimi decenni sono stati svolti numerosi lavori archeologici che ci aiutano a ricostruire comportamenti e modi di vivere della società d’allora. A questo proposito, Mauro Pesce e Adriana Destro hanno scritto L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita (Milano, Mondadori, 2008), in cui cercano di collocare e analizzare Gesù nell’ambito culturale in cui agisce.

Se vogliamo comprendere storicamente ciò che ci è trasmesso di Gesù dobbiamo partire dal suo radicamento nella sua cultura, perché il nuovo che apporta si può spiegare sulla base del contesto culturale in cui nasce, che è ciò che ha colpito i primi testimoni della sua figura. Infatti, chi ha riconosciuto l’intervento di Dio in lui sapeva già le opere che avrebbe dovuto compiere il Messia, e l’identificazione di tale personaggio ideale con il personaggio reale di Gesù ha dato vita ai testi che oggi noi possediamo.

In conclusione, le fonti antiche ci presentano un Gesù filtrato attraverso la fede in lui e sono destinate a permettere l’incontro con il Cristo risorto. E se quindi contengono narrazioni della storia di Gesù già mitiche, nel senso che egli è presentato come personaggio divino e che Dio è un personaggio irrinunciabile del racconto stesso, lo storico oggi deve seguire un orientamento profondamente diverso, a partire dal riconoscimento della matrice delle fonti. Il predominio delle fonti divenute canoniche non ha ragion d’essere: bisogna prendere in considerazione tutte le fonti su di lui, tutte scritte nella prospettiva mitica che ho appena ricordato, e valutare separatamente, per ogni singolo scritto, se e in che modo ciascuna di queste fonti possa contribuire a ricostruire la figura storica di Gesù. I diversi scritti protocristiani veicolano immagini diverse di Gesù, ed è in rapporto con queste immagini che essi, come già le tradizioni dalle quali dipendono, hanno selezionato e adottato le sue parole. Per ricercare il Gesù storico è necessaria una critica delle fonti che identifichi le tendenze di ciascuna di esse e si sforzi di individuare i vari strati successivi della trasmissione per risalire ai più antichi. La critica delle narrazioni consente di riconoscere alcuni eventi che si possono ritenere con forte probabilità come storici, ad esempio la crocifissione, o il fatto che Gesù avesse dei discepoli o che compisse delle guarigioni, poiché plausibili nel suo contesto culturale. A partire da questi eventi si può cercare di ricostruire la pratica di vita di Gesù e il suo insegnamento. Una vera e propria storia del ministero di Gesù appare tuttavia impossibile, così come, a maggior ragione, una storia del suo sviluppo psicologico.

Infine, il tentativo di ricostruzione di Gesù deve fornire un’immagine che spieghi il più possibile le diverse ricezioni della sua persona e del suo messaggio e gli effetti che Gesù ha prodotto. La questione della continuità tra il progetto di Gesù e i gruppi e le istituzioni che a lui si sono richiamati va trattata in maniera differenziata, e comunque al di fuori di ogni finalità apologetica intesa a giustificare a ogni costo tali istituzioni come coerenti al programma di Gesù, il che costituisce uno dei problemi fondamentali della storiografia all’interno del cristianesimo.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.5.2012 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.