Gli elementi fondamentali della natura

Autori: Rubbia Carlo
Tematiche: Scienza

Come siamo fatti? Di che cosa è costituita la materia? Sono domande che la scienza si pone fino dai tempi dell’antichità. Lo studio della costituzione più profonda della materia ha rappresentato da sempre una delle attività fondamentali dello spirito umano.

Fu il greco Democrito, nel quarto secolo avanti Cristo, a formulare in maniera precisa questa domanda. Egli descrisse un’esperienza ideale, quella di suddividere la materia in parti sempre più piccole. Si chiese se questo processo di divisione successiva avrebbe potuto continuare all’infinito o se invece si sarebbe arrivati ad un elemento ultimo, al di sotto del quale non avrebbe avuto più senso parlare di materia. Fece l’ipotesi che a questo interrogativo si potesse rispondere in modo affermativo. Per Democrito esisteva quindi un elemento base, un blocco o mattone fondamentale, l’atomo (atqmqs in greco vuol dire indivisibile). Cosi facendo, egli introdusse, per la prima volta, il concetto di particella elementare – il costituente ultimo della materia. Fu il primo passo razionale verso l’avventura dell’infinitamente piccolo.

L’idea – che un elemento finale di indivisibilità debba esistere – è più che mai attuale. Ma dai tempi di Democríto ad oggi sono successe molte cose. Nell’esplorazione della materia si sono trovati oggetti sempre più piccoli che sono stati dapprima celebrati come elementari per poi risultare costruiti, a loro volta, a partire da altri componenti ancora più piccoli. E a tutt’oggi la caccia è ancora aperta, anche se continuiamo a chiamare alcune delle particelle scoperte come elementari.

Ciò che noi chiamiamo oggi atomo non è quindi più una entità indivisibile. E’ al contrario un oggetto molto complicato, dotato di una ricca struttura interna. Siamo riusciti a entrare all’interno di questo micro-mondo e a spingere il nostro sguardo verso regioni sempre più piccole dello spazio. Se l’atomo ha una dimensione di dieci alla meno otto centimetri, oggi siamo in grado di esplorare regioni che occupano uno spazio di dieci alla meno sedici centimetri. E il viaggio all’interno dell’atomo non è ancora finito, Pensiamo che le risposte ultime alle domande sulla struttura della materia si trovino a dimensioni ancora più piccole, a dieci alla meno trentadue centimetri. L’enorme strada percorsa fino ad oggi all’inseguimento del sogno di Democrito non rappresenterebbe quindi neppure la metà del percorso dal mondo macroscopico alla chiave ultima della materia.

A partire dalla ipotesi della esistenza dell’atomo da parte di Democrito il concetto stesso di particella elementare si è dunque evoluto nel tempo. Di volta in volta gli uomini hanno dato l’attributo elementare a particelle via via più piccole. L’atomo oggi si può considerare elementare solo dal punto di vista della chimica, ma non è indivisibile ed è dotato di una ricca struttura interna. Una struttura che si chiari lentamente tra la fine del secolo scorso e gli inizi del novecento, con le scoperte successive dell’elettrone, del protone e del neutrone. Si pensò allora che fossero queste tre particelle gli ultimi mattoni della materia – ma non era così; non si era ancora arrivati al fondo della struttura atomica. Solo l’elettrone oggi è ancora considerato indivisibile. I protoni e i neutroni invece, come cominciò ad essere chiaro già alla fine degli anni cinquanta, non lo sono. La loro struttura è spiegata oggi per mezzo di particelle ancora più piccole – chiamate quark – molto curiose, come vedremo più avanti. L’attributo elementare perciò è concesso oggi all’elettrone e ai quark. Sono già state formulate teorie che ipotizzano l’esistenza di, particelle ancora più piccole, i preoni, che determinerebbero la struttura degli elettroni e dei quark. Per ora la loro esistenza è solo una ipotesi e non si possono nemmeno fare previsioni sugli sviluppi della teoria che li prevede. Si può però accennare ad alcuni problemi associati alla loro possibile esistenza. Se si ipotizzano oggetti ancora più piccoli di quelli che consideriamo elementari oggi, bisogna introdurre anche le forze nuove e straordinariamente potenti che li tengono uniti. In altre parole: se si vorrà davvero spiegare la struttura dell’atomo a partire dai preoni, bisognerà inventare concetti nuovi. Per questi – ed altri ancora – motivi si assume che le particelle che oggi chiamiamo elementari lo sono davvero. E anche se la fisica subatomica si evolverà in direzioni nuove, le particelle elementari di oggi rimarranno un termine di riferimento determinante. La ricerca dell’ultimo, più piccolo componente della materia – iniziata con Democrito – si può oggi perciò considerare almeno provvisoriamente conclusa.

Per addentrarsi nel mondo subatomico bisogna varcare una soglia molto importante che separa il mondo macroscopico degli oggetti grandi dal mondo microscopico degli oggetti piccoli. A ognuno viene spontaneo pensare a una stella o a una galassia come grandi, a un atomo o una particella come piccoli. Finora abbiamo usato questi termini nel loro senso più intuitivo e corrente. Ma nella scienza ogni termine deve avere una definizione precisa. E’ la meccanica quantistica che viene in aiuto per rispondere alla domanda: Quale è la differenza, in termini scientifici, tra grande e piccolo? Vedremo, poco più avanti, la risposta. Vale prima la pena di ricordare in breve che la meccanica quantistica ha rappresentato – nella ricerca dì una descrizione appropriata del mondo subatomico – una rivoluzione filosofica della stessa importanza della relatività. Questa teoria, affermatasi nei primi anni del nostro secolo, descrive un mondo lontano dalle nostre esperienze quotidiane e usa concetti diversi da quelli a cui la nostra razionalità è abituata. Non è sorprendente quindi che a molti i fenomeni quantistici possano apparire, a volte, addirittura paradossali. Ogniqualvolta ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, siamo immediatamente portati a descriverlo in termini di esperienze vissute. Fare riferimento a oggetti che conosciamo e utilizziamo nell’esperienza di tutti i giorni è inevitabile: è una reazione delle più naturali di fronte a situazioni a cui non siamo abituati. Questa possibilità ci viene a mancare quando parliamo dei fenomeni che avvengono alla scala atomica o inferiore. Ma non bisogna pensare per questo che la teoria quantistica sia un astratto meccanismo intellettuale utilizzato dagli scienziati e non possa avere una influenza concreta nella vita di tutti. Molte macchine che sono diventate parte integrante della nostra tecnologia, come il laser e il transistor, funzionano proprio in base a principi quantistici. Sono macchine che, viste nel loro funzionamento complessivo, hanno un comportamento classico ma sono invece basate, nella loro struttura profonda, su principi di meccanica quantistica. Il confine tra la meccanica classica e quella quantistica non è quindi così lontano come a prima vista potremmo immaginare. In elettronica, ad esempio, si sta andando verso la realizzazione di circuiti sempre più integrati che radunano da centinaia di migliaia a milioni di elementi di memoria su un singolo microchip.

Se le dimensioni dei circuiti elettronici attuali venissero ridotte ulteriormente, anche solamente di un fattore dieci (ed è un obbiettivo già in vista), la memoria elettronica dei computer comincerebbe ad avere fluttuazioni quantistiche e cioè a saltare spontaneamente da uno stato all’altro, cambiando, ad esempio, gli zeri in uni e viceversa, con conseguenze anche drammatiche nella vita di tutti i giorni (basta pensare agli uni e agli zeri del nostro conto bancario!).

Ma rispondiamo ora alla domanda che abbiamo posto precedentemente. Secondo la meccanica quantistica la differenza tra grande e piccolo si basa sul concetto di osservabilità. Un oggetto è grande se non viene influenzato dal processo che utilizziamo per osservarlo, un oggetto è piccolo se viene modificato dal processo di osservazione. Per chiarirlo ricordiamo che il metodo di osservazione per eccellenza è la luce. La luce non fluisce in modo continuo, come si immagina istintivamente. Essa, al contrario, viaggia in piccolissime goccioline, pacchetti, chiamati “quanti” di luce o fotoni. I quanti di luce sono tanto più grossi, hanno tanta più energia quanto più piccola è la lunghezza d’onda della luce stessa. I pacchetti di luce rossa, ad esempio, sono meno carichi di energia dei pacchetti di luce blu, perché questi ultimi hanno lunghezza d’onda più piccola. I pacchetti di luce blu sono a loro volta meno energetici dei pacchetti di raggi X, che hanno una lunghezza d’onda ancora più piccola. Se la luce arriva su un oggetto a pacchetti – a grumi – è chiaro che, tanto più l’oggetto è piccolo, tanto più verrà disturbato dalla pioggia di fotoni che gli inviamo contro per vederlo, fino al punto che la luce, colpendo l’oggetto, lo modificherà in senso distruttivo. Supponiamo, ad esempio, di voler esaminare un atomo con pacchetti di raggi X (che avendo una lunghezza d’onda piccola, aiutano a vedere molto in dettaglio). Cosa succede? Il pacchetto di raggi X urta l’elettrone che circola intorno al protone e lo lancia fuori dall’atomo. Il risultato è che siamo riusciti a vedere l’elettrone, perché il fotone di luce lo ha urtato, ma non abbiamo più l’atomo, perché è stato distrutto dalla violenza dell’urto. Il sistema è stato modificato dalla osservazione. E’ quindi ovvio che, a dimensioni piccole, bisogna tenere conto degli effetti della osservazione sul sistema che stiamo studiando.

Ben diversa è la situazione nel mondo degli oggetti grandi. La struttura di un sistema fisico macroscopico non viene modificata apprezzabilmente dal processo di osservazione. Un sistema meccanico del mondo macroscopico della nostra esistenza quotidiana prosegue inalterato il suo movimento indipendentemente dal fatto che sia sotto osservazione. Il moto della Terra intorno al Sole, ad esempio, non è certamente influenzato dal fatto che gli uomini lo guardano: le perturbazioni causate dalla osservazione sono troppo piccole rispetto alle dimensioni della Terra e del Sole per avere su di esso un’influenza significativa.

Abbiamo così chiarito, in modo intuitivo, un a prima differenza fondamentale tra il nostro abituale modo di pensare e il nuovo atteggiamento mentale che bisogna adottare nel mondo microscopico. Una espressione più precisa di tutto ciò è contenuta in quelle che vengono chiamate relazioni di indeterminazione, introdotte dal fisico tedesco Werner Heisenberg nel 1927 per spiegare il funzionamento dell’atomo di idrogeno.

All’inizio del secolo il fisico neozelandese Ernest Rutherford aveva suggerito come modello della struttura atomica una riproduzione in miniatura del sistema planetario. Al centro era posto il nucleo carico positivamente e intorno ruotavano gli elettroni, carichi negativamente, come pianeti intorno al Sole. Il modello, basato su una semplice analogia con un sistema fisico macroscopico, mise in serio imbarazzo i fisici, perché conteneva una evidente contraddizione. Gli elettroni, particelle cariche, ruotano intorno al nucleo grazie alla forza elettrica, che crea attrazione tra cariche di segno contrario. I pianeti invece ruotano intorno al Sole grazie alla forza gravitazionale che si esercita tra le masse. Le forze gravitazionale ed elettrica variano ambedue come l’inverso del quadrato della distanza; quindi – a parte le questioni di scala – l’equazione del moto e quindi le traiettorie seguono leggi identiche. Già dalla fine del secolo scorso si sapeva inoltre che un elettrone, quando percorre un’orbita circolare, emette luce. E’ una diretta conseguenza delle equazioni della elettrodinamica: una carica elettrica che non si muove di moto rettilineo uniforme, – accelerata o decelerata – irraggia. Lo si vede nel fenomeno di scarica di un tubo al neon, dovuto al fatto che gli elettroni, decelerati dal movimento attraverso il gas, emettono luce. E lo si vede anche in appariscenti fenomeni del cielo. La nebulosa del Granchio, ad esempio, deve la sua bella luminosità azzurrina proprio all’irraggiamento degli elettroni del gas che la circonda, che vengono incurvati dai campi magnetici. La conseguenza di questo fenomeno, per la consistenza del modello atomico di Rutherford, è evidente. Se gli elettroni percorrono un’orbita circolare intorno al nucleo devono irraggiare. Quindi perdono velocità e si avvicinano sempre di più al nucleo, fino a schiacciarsi contro di esso. Il modello dell’atomo, cosi formulato, non funziona. Come uscire dalla contraddizione? La risposta viene ancora dalla meccanica quantistica ed è una risposta molto sofisticata e profonda (che mette alla prova la nostra razionalità). Consiste nell’affermare che non ha più senso parlare di orbita dell’elettrone, perché essa non è osservabile. (Ricordate l’effetto distruttivo della osservazione?). Se non c’è orbita non c’è accelerazione o decelerazione, nel senso che questi termini hanno nella fisica classica. E infine non c’è nemmeno irraggiamento. Il problema creato dall’accettazione del modello planetario dell’atomo non si pone più. Scompare. Viene risolto con un capovolgimento del nostro abituale modo di pensare.

Come si vede il concetto di osservabilità nella fisica moderna ha assunto un ruolo particolare e molto diverso da quello che occupava nella fisica classica. Nella fisica moderna l’osservabilità è diventata una condizione “necessaria” perché si possa parlare di fenomeno fisico; ciò significa che un fenomeno fisico non ha senso se non è, almeno in linea di principio, osservabile; se non esiste cioè un meccanismo con cui. sia possibile – anche solo teoricamente – la misura della grandezza fisica che lo rappresenta. Per capire come la posizione della fisica moderna si discosti da quella della fisica classica, si può pensare di avere di fronte una scatola che resta sempre chiusa e che non si può – nemmeno in linea di principio – aprire. Ebbene, secondo la fisica classica è perfettamente lecito parlare del contenuto della scatola; secondo la fisica moderna invece il contenuto della scatola non è un concetto che entra nella descrizione della natura.

Ritorniamo ora al principio di indeterminazione di Heisenberg. L’incertezza e l’indeterminazione non hanno a prima vista una funzione diretta nel mondo fisico – che è il dominio della ricerca sperimentale – basato su misure di grandezze fisiche e che, per la loro stessa natura, hanno sempre valori numerici determinati. Con l’avvento della meccanica quantistica si è dovuto rivedere, almeno in parte, questo punto di vista. Il principio di indeterminazione non invalida, ad esempio, i principi di conservazione dell’energia e della quantità di moto, ma consente che una violazione di tali principi passi inosservata qualora venga rettificata con sufficiente prontezza. Il principio di indeterminazione afferma che tali violazioni possono essere tollerate se non durano troppo a lungo o se non si estendono a distanze troppo grandi. In aggiunta ai processi fisici reali, si devono quindi aggiungere tutto un mondo nuovo di processi virtuali, la maggioranza dei quali – come vedremo – accadono continuamente e spontaneamente.

Ma anzitutto che cosa intendiamo con troppo a lungo e che cosa vuol dire troppo distante? Le risposte dipendono dall’entità della violazione apparente – quanto maggiore è lo squilibrio, nell’energia e nella quantità di moto del processo virtuale, tanto più rapidamente esso deve sparire. Fenomeni di energia arbitrariamente grande possono quindi avere luogo spontaneamente, purché l’equilibrio energetico moltiplicato per il tempo di intervento non può essere maggiore della costante di Planck, che è pari a 1,054 10-27 erg x sec, un numero piccolissimo rispetto a fenomeni della vita di tutti i giorni, ma molto significativo per i processi atomici, nucleari e subnucleari.

Quante sono le particelle elementari? Quelle utilizzate per la costruzione della materia sono solamente tre: i quark chiamati up e down che formano il protone e il neutrone, e l’elettrone. E’ stupefacente pensare che la infinita complessità e varietà del mondo che ci circonda sia realizzata usando solo tre componenti, tre microscopiche tavolette del Lego che riescono, con le loro infinite combinazioni, a formare l’universo e noi stessi, ed è ancora più stupefacente pensare che queste tre componenti elementari sono completamente prive di struttura. Cosa significa? Cerchiamo di chiarirlo con una analogia. Le particelle elementari, per la loro funzione di mattoni fondamentali della materia, si possono paragonare alle cellule, i mattoni fondamentali della materia vivente. Ma c’è una enorme differenza tra particella e cellula. La cellula è un microcosmo “pieno”. Ha una struttura interna contenente il nucleo, il citoplasma, le informazioni genetiche; una struttura che racchiude ed esprime la sua identità, la sua storia. Una particella elementare, al contrario, non ha struttura, non ha “interno”. Non ha storia. Non ha memoria. Le particelle sono perciò più correttamente paragonabili a punti matematici, oggetti ideali privi di parti. Non cercate quindi di pensare a una particella come se fosse una minuscola pallina da ping pong! Bisogna dimenticare le comode analogie con gli oggetti macroscopici del mondo in cui viviamo (Ricordate? Un atomo non è un sistema planetario!). Le particelle sono entità matematiche. Sono, secondo la meccanica quantistica, funzioni d’onda.

Questo non impedisce loro di avere numerose proprietà, chiamate “numeri quantici”, che le caratterizzano con precisione. Sono, ad esempio, la massa, la carica elettrica o, nel caso dei quark, il colore. Vi chiederete “dove” le particelle contengono queste proprietà, se è vero che non hanno dimensione. E’ una domanda del tutto lecita, ma è molto difficile trovare una risposta. Siamo di fronte, ancora una volta, a un paradosso dell’infinitamente piccolo. Difficile da accettare è anche la totale indistinguibilità delle particelle tra loro. E’ una conseguenza della loro mancanza di struttura che le rende prive di individualità e di storia. Due particelle non sono, nemmeno in linea di principio, distinguibili tra loro. Nell’atomo di elio, ad esempio, ci sono due elettroni. Ebbene, non avrebbe nessun senso chiamarli “elettrone uno” e “elettrone due”. Per ogni configurazione in cui l’elettrone uno è in un punto e il due in un altro, esiste una configurazione del tutto analoga in cui gli elettroni sono scambiati. E’ chiaro allora che la distinzione tra le due particelle all’interno di elio, è un ulteriore fenomeno non rivelabile sperimentalmente. Non ci sono l’elettrone A e l’elettrone B, ci sono due elettroni e basta. La impossibilità di dare individualità alle particelle è anche, naturalmente, riflessa dal formalismo matematico utilizzato nella meccanica quantistica; all’interno delle equazioni che descrivono il mondo subatomico due particelle identiche sono rappresentate in modo indistinguibile all’interno della quantità matematica che le rappresenta.

Il vuoto è tradizionalmente considerato la condizione di totale assenza di materia. Fino dai tempi antichi il concetto di vuoto ha affascinato gli studiosi dei fenomeni naturali. Evangelista Torricelli spiegava la salita dell’acqua nei tubi come conseguenza del principio che “La Natura ha orrore del vuoto”. Oggi ci basta sapere dell’esistenza della pressione atmosferica per convincerci che questo fenomeno è perfettamente ovvio. Pensando al vuoto ci viene del tutto, spontaneo il riferimento allo spazio interstellare e soprattutto intergalattico. Tuttavia anche queste immense regioni dell’Universo, che a prima vista ci appaiono come prive di tutto, sono di fatto popolate da un gran numero di fenomeni fisici che sono – come vedremo – affascinanti e complessi.

Prima di tutto c’è la cosiddetta radiazione nera: un grandissimo numero di segnali elettromagnetici – soprattutto nella regione delle Microonde – che è uno dei resti più appariscenti del Big Bang, l’eco dell’esplosione iniziale che ha dato origine all’Universo come noi lo conosciamo. Questa radiazione – come ogni altro tipo di onda elettromagnetica – è in realtà formata da un gran numero di corpuscoli senza massa a riposo che quindi viaggiano con la velocità della luce, chiamati fotoni. Come abbiamo già ricordato precedentemente, l’energia trasportata da ciascuno di questi fotoni è tanto più grande quanto più alta è la frequenza della radiazione o, equivalentemente, tanto più corta è la sua lunghezza d’onda. Anche nelle regioni più recondite e più vuote dell’Universo, questa radiazione è onnipresente: un miliardo di fotoni in ogni centimetro cubo dello spazio che chiamiamo vuoto! E’ credenza diffusa che l’Universo sia dominato materia, stelle, gas, polveri, eccetera. Niente di più falso: fotoni dell’Universo sono un miliardo di volte più numerosi dei nuclei e degli elettroni che formano ogni forma di materia. Essi sono rilevabili senza troppe difficoltà perché sia sotto forma di luce, che di segnali radio o di raggi X, sono prontamente assorbiti dalla materia.

Ma lo spazio non è dominato solamente dai fotoni. Sappiamo ad esempio che l’Universo tutto intero brulica anche di altre particelle molto meno visibili, chiamati neutrini. Che cosa è un neutrino? In parole semplici è come un fratello minore e meno dotato dell’elettrone: non ha carica, e quindi è elettricamente inattivo, ha massa piccolissima o probabilmente zero come il fotone. Non è assolutamente assorbito dalla materia che può attraversare impunemente. Ciononostante, è estremamente “popolare” nei fenomeni cosmici che ne producono in grandissima quantità. Il Sole, ad esempio, emette più energia sotto forma di neutrini di quanto ne emetta sotto forma di calore. Ogni centimetro quadrato sul nostro pianeta è bombardato da un miliardo di queste particelle ogni secondo! La luce solare si spegne durante la notte. Invece i neutrini – che possono attraversare impunemente tutta la massa del nostro pianeta – continuano a pioverci addosso indisturbati. A differenza del calore che ci proviene dalla superficie del Sole arroventata a circa 5.000 gradi centigradi, i neutrini vengono direttamente dal centro della Stella dove la temperatura sorpassa i 2.000.000 di gradi: lo spessore del Sole non riesce a fermarli. Mentre il calore che ci riscalda oggi è stato prodotto più di un milione di anni fa – e ha impiegato questo tempo a propagarsi dal centro alla periferia della Stella – i neutrini arrivano sul nostro pianeta con il breve ritardo di circa .otto minuti necessario a coprire la distanza Sole-Terra.

Involontariamente l’uomo è diventato un grande produttore di neutrini. I reattori nucleari sono delle sorgenti potentissime di queste particelle. L’energia emessa sotto forma di neutrini è confrontabile all’energia prodotta sotto forma di corrente elettrica. Anche per questi neutrini non c’è barriera che possa arrestarli. Escono indisturbati dalla pesante schermatura del reattore disperdendosi nello spazio cosmico, fino al di là del nostro sistema solare e della Galassia. E’ stata proprio l’utilizzazione di un grosso reattore nucleare come sorgente che permise di rivelare nel 1956, dopo grandissimi sforzi, la prima traccia di questa elusiva particella.

Un rivelatore di 380 tonnellate di materiale – posto a grandi profondità sotto terra per schermare l’apparato da effetti spuri – ha molto probabilmente osservato alcuni anni fa anche il segnale dovuto ai neutrini provenienti dal Sole. Fu questa una grande sorpresa: i neutrini rivelati erano all’incirca un terzo di quanto era stato previsto in base alla quantità di calore emessa dal Sole. Dove sono gli altri? O non abbiamo capito niente del Sole, oppure i neutrini mancanti sono, per così dire, “spariti” per strada.

Potentissime sorgenti di neutrini esistono anche al di fuori del nostro sistema solare, nella nostra Galassia e oltre. Questo ci riporta all’anno 1050 d.C. quando gli astronomi cinesi annotarono un fenomeno straordinario: una stella brillantissima era apparsa improvvisamente nel cielo, per sparire rapidamente alcune notti dopo. Oggi, esplorando con potenti telescopi quella regione del cielo vediamo una diffusa nube azzurra – i resti della stella allora esplosa – la Crab Nebula. Di questo tipo di fenomeni – conosciuti con il nome di Supernovae – ne sono stati registrati sei esempi dall’antichità ad oggi: sono la improvvisa e definitiva distruzione di un sistema simile al nostro Sole. Ciò avviene con una reazione – che dura appena qualche secondo – durante la quale tutti i protoni della stella si fondono con gli elettroni, dando origine a un neutrino e un neutrone. La stella si disintegra in una nuvola fantasma di neutrini – il cui numero è l’astronomica cifra di uno seguito da cinquantaquattro zeri – che si disperdono negli spazi stellari alla velocità della luce. Restano indietro i neutroni, compattati in una pallina densissima del raggio di alcuni chilometri, pazzamente in rotazione sul proprio asse. Un tale oggetto – chiamato pulsar – è oggi ben visibile tra i resti della Supernova nella Crab Nebula. E’ molto probabile che anche il nostra sistema solare diverrà un giorno lontano una Supernova. Altre sorgenti sconosciute di neutrini sono probabilmente presenti nell’Universo. Il centro della nostra Galassia è con tutta probabilità sede di fenomeni potentissimi e misteriosi, coperti ai nostri sguardi da una densa nuvola di polveri cosmiche. Quanti neutrini vengono emessi? E’ questo un problema ancora aperto, che attende una risposta sperimentale.

Negli istanti del Bing Bang in cui si formarono i fotoni della radiazione a Microonde di fondo cosmico, vennero emessi anche un numero forse altrettanto grande di neutrini ancora oggi presenti nello spazio. La loro energia residua è piccolissima e essi rimangono inaccessibili alle attuali tecniche sperimentali.

Il cosiddetto vuoto cosmico è tutt’altro che privo di contenuto. La radiazione elettromagnetica e i neutrini non sono ancora tutto. Come facciamo ad esserne cosi sicuri? Ogni forma di materia, quando è in grandi quantità, produce effetti gravitazionali, cioè esercita un’attrazione sugli oggetti circostanti. Nel movimento dei corpi celesti l’attrazione gravitazionale è in generale controbilanciata dalla forza centrifuga. Si può pensare a questa forza come ad un grande filo invisibile che trattiene i corpi sulla loro orbita. La nostra Galassia – come la gran parte delle Galassie – è una specie di grossa spirale ruotante di dieci miliardi di soli trattenuta nel suo movimento dalla forza gravitazionale. E qui le cose si complicano: il tipo di movimento che viene osservato nella Galassia non torna con le predizioni, basate sulla distribuzione osservata delle masse solari. Quindi, o mettiamo in discussione la validità della legge di Newton, oppure ci deve essere qualcosa d’altro, che – restando invisibile – contribuisce all’aumento della forza gravitazionale. E di questa materia invisibile ce ne vuole molta, moltissima… almeno dieci volte quella visibile! Non solo, ma questa osservazione si ripete anche per altre galassie: è un fenomeno che riguarda l’Universo intero.

E’ veramente possibile che nonostante la molteplicità di quello che vediamo intorno a noi, siamo in grado di percepire solamente alcuni percento della materia dell’Universo? Siamo di fronte a un mistero di proporzioni colossali. Per risolverlo ci potrebbe venire in aiuto la moderna fisica delle particelle elementari. Secondo ipotesi teoriche ancora da verificare sperimentalmente – le cosiddette teorie supersimmetriche – ad ogni particella conosciuta e rivelabile ne corrisponderebbe un’altra, fantasma sfuggente come il neutrino. Queste nuove particelle sarebbero state prodotte in abbondanza insieme alla materia ordinaria nell’istante del Big Bang. Alcune di esse sono instabili, e quindi disintegrano rapidamente. Altre invece, altrettanto stabili che la materia ordinaria, sarebbero presenti oggi come un’incredibile nuvola invisibile che ci attraversa e che noi non sappiamo vedere o rivelare in alcun modo.

E non siamo alla fine dei misteri racchiusi in quella cosa che credevamo così semplice e che chiamiamo ingenuamente il vuoto. Anche se riuscissimo a spazzare via tutte le particelle che vi sono alloggiate, – visibili e invisibili – resterebbe ancora qualcosa d’altro e ben più recondito. Riparliamo per un momento del principio di Heisenberg. Abbiamo già spiegato come il principio di indeterminazione non invalidi i principi di conservazione dell’energia e della quantità di moto, ma consenta che una loro violazione passi inosservata qualora venga rettificata con sufficiente prontezza. Tali violazioni possono essere quindi tollerate se non durano troppo a lungo o se non si estendono a distanze troppo grandi. Come conseguenza, accanto ai processi fisici “reali”, esistono nuovi processi “virtuali”, che accadono, per la maggior parte, continuamente e spontaneamente. La presenza di un numero infinitamente grande di stati virtuali possibili e a cui la natura fa continuamente accesso complica enormemente la struttura dell’Universo. E anche il vuoto – a causa dei processi virtuali – non è più semplicemente uno spazio privo di materia; ha una struttura molto complicata, è pieno di vita, brulicante di attività. Guardare il vuoto con gli occhi della meccanica quantistica è come guardare un liquido in perpetua ebollizione dove nuove bollicine vengono continuamente create per sparire subito dopo. Nel vuoto c’è tutta la fisica; sono contenute tutte le leggi che governano la costituzione del nostro ,mondo e possono venire create tutte le particelle conosciute, anche quelle di cui noi stessi siamo costituiti. Tutte le particelle che si possono formare virtualmente nel vuoto sono però accuratamente sottratte alla nostra osservazione: ogni particella può comparire e scomparire solamente nell’intervallo di tempo ben preciso che le è consentito dal principio di indeterminazione. Nel vuoto si possono creare spontaneamente anche particelle cariche come l’elettrone, ma alla condizione che compaiano e scompaiano in coppie associate di particelle e antiparticelle; nel caso dell’elettrone in coppie di elettroni e positroni – o antielettroni.

Questi processi hanno profonde conseguenze sulle teorie fisiche. Ad esempio sull’elettromagnetismo. Si consideri ciò che accade quando un elettrone reale è circondato da una nuvola di coppie virtuali elettrone-positrone. Le cariche virtuali si polarizzano: le cariche negative virtuali vengono respinte, mentre le cariche positive sono attratte dalla carica negativa dell’elettrone reale. Il risultato è che l’elettrone si circonda a brevi distanze di una nube di cariche positive che schermano in parte la sua carica. Da questa analisi deriva che la carica “nuda” dell’elettrone è molto maggiore di quella misurata. Se si potesse misurare la carica dell’elettrone a brevissime distanze si scoprirebbe che essa aumenta entrando nello strato dello schermo. Una particella elementare – come l’elettrone – è nella descrizione usuale considerata come puntiforme, cioè è possibile avvicinarsi a distanze arbitrariamente piccole dal centro di dimensione infinitesima.

La conseguenza di questa ipotesi è che per raggiungere la carica “nuda” bisogna arrivare a distanza zero: il risultato di questa estrapolazione è che la carica nuda diviene infinita! Non solo poi la carica “nuda” risulta infinitamente grande, ma anche la repulsione elettrostatica alle vicinanze immediate dell’elettrone genera un’auto-energia che è pure infinita, e che quindi rende la massa totale anche infinita; questa da sola predirebbe l’elettrone come infinitamente pesante!

Sembra una concatenazione di ragionamenti assurdi, che ci rendono molto sospettosi nei confronti della meccanica quantistica. Ma non deve essere così. In realtà, la carica “nuda” di un elettrone non è osservabile sperimentalmente, come il contenuto della scatola che rimane sempre chiusa di cui abbiamo parlato precedentemente. Di conseguenza, secondo la meccanica quantistica, non ha senso parlarne. La carica nuda “non esiste”. E’ la stessa via d’uscita – il rifiuto di parlare di ciò che sfugge alla osservabilità diretta – adottato nel caso, dell’orbita dell’elettrone, può sembrare comunque che la meccanica quantistica, nella sua sfida alla nostra razionalità, “giochi con il fuoco”. Lo pensava Einstein che, all’incontrario di Bobr, rimase sempre incredulo sulla validità di questo genere di ragionamenti. Ma, ai nostri giorni, forse l’unico e più convincente argomento per accettarli è che essi predicono correttamente e accuratamente una grandissima varietà di fenomeni fisici. Non possiamo che prenderne atto: come in molte cose della vita, il successo dà sempre ragione!

Nel vuoto è racchiuso anche il meccanismo di trasmissione delle forze. Lo spazio tra la Terra ed il Sole è ad esempio la sede del meccanismo che “comanda” alla Terra di seguire con infinita precisione la sua orbita attorno al Sole. Le forze possono agire anche a distanze molto grandi e si propagano attraverso il vuoto. Assieme alle particelle elementari, esse costituiscono l’ingrediente fondamentale dell’Universo. Grazie alle forze, le particelle elementari formano strutture complesse: nucleoni, nuclei, atomi, molecole, pianeti, stelle, galassie e cosi via. Le forze costituiscono forse il capitolo più affascinante della storia della struttura della materia. Tutto quello che ci circonda è cementato dall’azione sottile e precisa di questo meccanismo. Ma che cosa è veramente la forza?

La forza più comunemente sperimentata è la gravità. Abbiamo l’esperienza del peso, poiché i quark e gli elettroni che si trovano nel nostro corpo interagiscono continuamente con i quark e gli elettroni che costituiscono il nostro pianeta.

Di gran lunga più rilevante nella nostra vita quotidiana è la forza elettrica, caratterizzata nella sua forma più elementare dall’interazione a distanza tra due cariche elettriche, descritte dalla ben nota legge di Coulomb. Tanto nel caso delle forze elettriche che di quelle gravitazionali e per sorgenti di piccole dimensioni, la forza varia come l’inverso del quadrato della distanza. Vi sono però fra loro differenze importanti: la forza elettromagnetica è molto più potente e, a differenza della gravitazione, può essere sia attrattiva che repulsiva (le cariche possono essere positive o negative). In pratica, la forza di gravità emerge nei fenomeni naturali solamente perché la cancellazione tra le cariche all’interno della materia è incredibilmente esatta, cioè la carica degli elettroni e dei protoni sono, esattamente eguali ed opposte. Invece, il campo elettrico prodotto dalle cariche all’interno della materia – a distanze dell’ordine di quelle tra gli atomi – non è esattamente bilanciato e quindi gli effetti si fanno sentire. Ad essi sono dovute tutte le proprietà meccaniche e chimico-fisiche della materia.

Sono stati osservati in natura altri due tipi di forze. Esse si manifestano esclusivamente a distanze sub-microscopiche. E’ in gran parte per questo motivo che esse sono state investigate in maniera completa solo recentemente. Queste due forze sono schematicamente indicate come la forza forte e la forza debole. La prima, cioè l’interazione forte, si manifesta quando due quark si vengono a trovare ad una distanza dell’ordine del diametro di un protone. A queste distanze gli effetti delle interazioni forti superano largamente quelli dovuti alle cariche elettriche delle particelle elementari. Come già menzionato, i quark esistono in tre stati differenti. Questo grado di libertà interno a tre valori, chiamato colore, viene oggi considerato la sorgente delle interazioni forti. L’effetto più vistoso di tale forza è la costruzione dei nuclei, partendo dai quark. L’energia termonucleare ad esempio è derivata direttamente dalla utilizzazione ditale forza da parte dell’uomo.

L’altro tipo di forze, le interazioni deboli, diventano importanti quando quark, elettroni o neutrini si trovano a distanze ancora più piccole, dell’ordine di un millesimo del raggio di un protone. A tali distanze, le forze elettromagnetiche e deboli hanno effetti paragonabili. Questo non è casuale: come vedremo si è riusciti a mettere in evidenza un legame strettissimo tra queste due forze apparentemente così diverse.

Le interazioni forti e le interazioni deboli (più in generale tutti i campi di forze), oltre che ad esercitare degli effetti cinematici classici, come ad esempio i ben noti effetti macroscopici dell’elettromagnetismo e della gravità, possono manifestarsi anche come trasformazioni tra particelle. Ad esempio nel caso delle forze deboli la radioattività consiste in reazioni in cui un neutrone si trasforma in un protone o viceversa, con l’emissione di una coppia elettrone-neutrino. Quale è il meccanismo che fa si che le forze si percepiscano lontano dagli oggetti che le causano? Al giorno d’oggi per spiegare il meccanismo responsabile delle forze si ricorre invece alla Meccanica Quantistica. Secondo la descrizione universalmente accettata, anche effetti macroscopici e a grande distanza sono dovuti in realtà alla manifestazione di effetti quantici, cioè allo scambio di particelle “virtuali” caratteristiche del tipo di forza. L’interazione di due particelle può essere riassunta dicendo che esse si scambiano una terza particella, detta quanto della forza. Per esempio quando due elettroni, ciascuno circondato da un campo elettromagnetico, si avvicinano l’uno all’altro per poi riallontanarsi, si dice che essi hanno scambiato un fotone, il quanto del campo elettromagnetico. Il quanto scambiato ha soltanto un’esistenza effimera cioè è una particella “virtuale” e quindi irrivelabile. Per capire meglio come l’azione a distanza di queste particelle separatamente inosservate, o “virtuali” possa essere compatibile con la risultante osservabile dei loro effetti cioè la forza, ricordiamo che secondo la meccanica quantistica esistono limitazioni intrinseche al processo fisico di osservazione. Quindi il quanto della forza, una volta emesso, deve venire riassorbito o dalla stessa particella o da un’altra entro il tempo permessogli dal principio di indeterminazione. Maggiore è la sua energia, minore è la durata dell’esistenza. In effetti, una particella virtuale prende in prestito o si appropria di una certa quantità di energia, che deve rendere, per cosi dire, prima che ne venga scoperta la scomparsa.

Il raggio di azione di un’interazione è correlato alla massa del quanto scambiato. Se il quanto del campo ha una grande massa che deve esser chiesta in prestito sotto forma di energia per poterne garantire l’esistenza, la restituzione deve essere più rapida prima che si scopra l’irregolarità. La distanza che la particella può percorrere prima di dover essere riassorbita perciò diminuisce e, quindi, la forza corrispondente ha un breve raggio di azione. Nel caso particolare in cui il quanto scambiato è privo di massa il raggio d’azione risulta infinito.

Se il meccanismo dietro le forze è in un certo senso universale, cioè è dovuto allo scambio di particelle virtuali, la domanda che rimane ancora senza risposta è perché le forze sono quattro e perché esse sono diverse e simili nello stesso tempo. Questo interrogativo ha incoraggiato da tempi immemorabili generazioni di fisici a tentare di “unificare” le varie interazioni, cercando un denominatore comune tra le diverse forme fisiche assunte dal meccanismo forza. L’ambizione è quella di costruire una sola teoria guida che riveli alcune profonde connessioni tra le varie forze rendendo contemporaneamente conto della loro evidenti diversità. Una tale unificazione non è stata ancora raggiunta, ma è probabile che negli ultimi anni sia stato compiuto qualche progresso. Oggi ad esempio la forza debole e l’elettromagnetismo si possono interpretare nel contesto di un’unica teoria. Pur restando due forze distinte, esse appaiono interconnesse nella loro formulazione matematica. Ciò che oggi sappiamo e che potrebbe rivelarsi l’aspetto più importante della ricerca verso l’unificazione è che tutte le quattro forze sono derivabili dallo stesso tipo di principi di simmetria. Così, se i fisici devono ancora trovare un’unica chiave che vada bene per tutte le serrature conosciute, essi hanno almeno trovato che tutte le chiavi necessarie si possono ricavare dallo stesso blocco.

Nonostante il rapido progresso nella comprensione della natura, della sua struttura più intima e dei suoi meccanismi più fondamentali, la soluzione dell’enigma della materia ci sfugge ancora. Un grande numero di domande restano ancora senza risposta. Ad esempio una delle proprietà più universale della materia è la proprietà di avere una massa, cioè di reagire al cambiamento di velocità. Quale è l’origine profonda di questo effetto? L’unica combinazione di costanti fondamentali che può essere identificata con una massa è la cosiddetta massa di Planck, introdotta proprio da Planck all’inizio di questo secolo come prodotto della costante universale di gravitazione, della costante di Planck – appena inventata a quel tempo – e della velocità della luce. Ogni teoria che voglia ad esempio spiegare perché l’elettrone ha una massa pari a 9,8 10-28 grammi, in mancanza di alternative migliori (e sconosciute) deve in qualche modo quindi fare riferimento alla costante di Planck. Purtroppo il valore di tale costante è straordinariamente grande, 1019 volte la massa di un protone. Come è possibile che la risposta si trovi cosi lontana dal mondo fisico a cui siamo abituati?

Il sospetto che la vera risposta alle domande di natura fondamentale si trovino in un mondo di fenomeni fisici lontani da quello oggi accessibile è reso più credibile dalle idee professate da molti fisici secondo cui tutti i fenomeni sono in qualche modo derivabili da estensioni della teoria della relatività generale e dalla gravitazione. L’estrema debolezza dei fenomeni gravitazionali, per i quali non esiste una sperimentazione al livello di onde e quantistico, ci fa quindi presagire che la soluzione dell’enigma sia ancora inaccessibile.

E tuttavia, il discorso iniziale dell’importanza della costante di Planck ci fa riflettere sulla possibilità che proprio a queste piccolissime distanze si trovi la struttura vera, intima della materia. In questo campo i fisici teorici hanno dato libero sfogo alla loro immaginazione, soprattutto incoraggiati dall’impossibilità di verifiche sperimentali. Parliamone un poco. Noi crediamo di vivere in un Mondo fatto di tre direzioni o dimensioni dello spazio, e una del tempo. Einstein aveva fatto tre più uno eguale a quattro, introducendo le quattro dimensioni dello spazio-tempo. Negli anni venti, Kalutza e Klein suggerirono che tutto sommato questo non era niente altro che una, grossolana approssimazione – perché di fatto le “dimensioni” sono molte di più. Questa idea è stata ripresa con vigore negli ultimi anni nella cosiddetta teoria delle super-stringhe secondo la quale noi in realtà viviamo in un mondo, a dieci (!) dimensioni. E allora? Niente paura,, perché in realtà le sei dimensioni che chi sfuggono sono del tutto semplicemente ARROTOLATE in un rotolino. di dimensioni dell’ordine di 10-32 centimetri e quindi invisibili al comune mortale come noi e voi. E non è ancora finita. Le particelle elementari e tutto il resto guardate attraverso un microscopio potentissimo capace di discernere quello che succede a queste distanze, scoprirebbe che in realtà siamo tutti costruiti partendo da una specie di filo, o stringa, caratterizzato da un punto di partenza e uno di arrivo, naturalmente vicinissimi uno all’altro.

Tutto questo – che sembrerebbe a prima vista completamente gratuito – di fatto è sostenuto da un serissimo insieme di formulazioni matematiche e di teoremi, che tra l’altro definisce in maniera alquanto univoca questa possibile immagine del mondo. Naturalmente la fisica si basa su fatti sperimentali. Ma come è possibile sperimentare su fenomeni così recondití? E’ questo il problema centrale di questo tipo di descrizione della natura, davanti alla quale tutta la tecnologia di oggi e quasi certamente di domani è assolutamente impotente. Per il momento possiamo prendere il punto di vista di assumere a priori vere tutte queste cose, alla condizione che con esse si possano spiegare in maniera soddisfacente o almeno non contraddittoria i fenomeni che possiamo osservare, come ad esempio le proprietà fondamentali delle particelle elementari e delle forze. In generale tali modelli riescono a predire in maniera più o meno univoca qualche cosa che assomiglia allo spettro delle particelle conosciuto, anche se la cosa più importante, cioè le loro masse, non è ancora uscita dal formalismo matematico, – peraltro e come già detto – di una complessità straordinaria. Inoltre esiste una grandissima flessibilità nella scelta delle opzioni possibili nella formulazione dei dettagli della teoria, che permettono ad esempio di “nascondere” particelle imbarazzanti, in quanto non osservate, nella zona “proibita” all’osservazione, e cioè a valori nei dintorni della massa di Planck!

La vera essenza – la chiave della struttura della materia – ci sta dunque sfuggendo tra le dita in un mondo proibito all’osservazione? La frontiera dell’infinitamente piccolo sta allontanandosi da noi senza speranza, in una maniera altrettanto disastrosa di quando stia avvenendo per le frontiere più lontane dell’Universo? Quello che i fisici attendono e in cui sperano è in un certo senso l’equivalente scientifico del “miracolo”, quello che si chiama la “grande sorpresa” e che generalmente include un viaggio a Stoccolma dietro l’invito dell’Accademia Reale di Svezia! Anche se per definizione la sorpresa non è conoscibile in anticipo, abbiamo delle idee abbastanza chiare di cosa e di dove cercare. In prima linea viene il decadimento del protone (!). Niente di più intuitivo e accettabile dell’idea che la materia sia stabile, e cioè eterna. In fondo ci sono all’incirca i quindici miliardi di anni che ci separano dall’inizio dell’Universo e ci offrono spontaneamente un tale tipo di garanzia. Tuttavia è possibile che questo non basti – e che su di una scala di tempi ancora – più lunga l’esplosione o disintegrazione di un comunissimo protone possa aver luogo. Si prevede in certe teorie che dopo un tempo dell’ordine di:

10,000,000,000,000,000,000,000,000.

volte la vita trascorsa dell’Universo una frazione apprezzabile della materia si sarà spontaneamente disintegrata! Questo processo se osservato è in un certo senso un modo per guardare a queste piccolissime distanze, per così dire attraverso il buco della serratura, in quanto questa è semplicemente una predizione ulteriore e straordinaria di queste teorie, che potrebbe essere considerata come prova. Non crediamo che si debbano spendere troppe parole per spiegare la complessità straordinaria di tale tipo di esperimenti oggi in corso in diverse parti del mondo. In più l’assenza di decadimento del protone non può essere considerata prova del contrario, e cioè della falsità delle teorie, in quanto un piccolo aggiustamento delle suddette teorie potrebbe farlo facilmente sparire dalle previsioni.

E quindi venti secoli dopo Democrito, il mistero della materia rimane ancora che mai più fitto e più impenetrabile. Ciononostante, la nostra comprensione dei fenomeni naturali ci ha permesso di dominare i fenomeni naturali al punto di metterne un grande numero al nostro servizio. Tutta la società moderna ne è influenzata e determinata. Mai come nella scienza la conoscenza di una parte cosi modesta della verità ci ha permesso di andare così lontano!

NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 23.4.1986.