Grandi costruzioni al tempio di Roma

Il testo latino più famoso sul consumo del territorio è certo un passo dell’ode I del libro III di Orazio, che si allarga addirittura al mare. Lì è rappresentato un impresario edile, che coi suoi operai si affretta a gettare in acqua le fondamenta di un edificio su progetto di un committente, che ha ormai a noia tutta la terra. Non si tratta di un villino, ma di una costruzione grandiosa, tant’è vero che i pesci avvertono che il loro habitat viene ristretto dai lavori. Il paradosso sottolinea l’assurdità della speranza del committente: il male sta dentro di lui, non nelle cose. Il concetto, che torna più volte in Orazio, è ripreso e sviluppato da Seneca, che l’allarga all’agitazione fisica in genere. Il proprietario, che cavalca furiosamente come se dovesse andare a spegnere un incendio, per raggiungere la villa, spinto dall’inquietudine, ritorna subito indietro altrettanto velocemente. Il filosofo condensa la sua convinzione in una lapidaria sentenza d’una lettera a Lucilio (2,1) «l’agitazione è segno di uno spirito malato». Cambiare posto non serve a calmare l’inquietudine, anzi impedisce di riflettere e rientrare in se stessi. La villa suburbana, alla quale pensa Seneca, non è quella nella quale Cicerone ambientava i suoi giorni liberi con gli amici, coi quali discorreva di filosofia e di religione, del bene e del male, della conoscenza e di politologia, quasi a riposare e ricaricare gli spiriti impegnati nella vita pratica durante la settimana. Il poeta e il filosofo sono mossi da preoccupazioni moralistiche, ma non solo. Da tempo a Roma si era stabilita una sorta di circolo vizioso. L’aumento delle disponibilità finanziarie dei ceti dominanti li spingeva a cercare una maggiore visibilità della loro potenza, che si traduceva anzi tutto in spettacolari e superflue costruzioni; a sua volta l’attività edificatoria consentiva maggiori guadagni e attirava interessi. Persino Catone, che per molti decenni si era costituito coscienza critica della nazione (è rimasto famoso il rigore, con il quale aveva esercitato la censura) si era infine rivolto ad attività commerciali e finanziarie più lucrose dell’agricoltura, a cominciare dalla costruzione di edifici destinati al divertimento. Da ultimo si fece fare una comoda villa, nella quale si ritirava spesso a scrivere di… agricoltura. La sua conversione è significativa, anche se la sua villa, dati i tempi (II sec. a.C.) non aveva né le proporzioni né la sontuosità, che solo più tardi vennero di moda. Per avere un’idea di questo, basta leggere la descrizione di due delle molte ville di Plinio il Giovane, che pure si proclamava economo e modesto. Tanto la descrizione della Laurentina come quella della Tusculana occupano cinque o sei pagine delle nostre edizioni a stampa (e non è completa). Le ville non solo comprendono innumerevoli stanze, ma anche replicate camere da letto e sale da pranzo e poi tre bagni (freddo, tiepido, caldo), piscina, palestra, riscaldamento, gallerie e portici, un giardino curatissimo. Della grandiosità è indizio una notazione, che sfugge non senza compiacimento al proprietario: il criptoportico ha le dimensioni di un’opera pubblica. Le ricchezze di Plinio derivavano in gran parte da eredità parentali e da un’oculata amministrazione del grande patrimonio terriero, sfruttato intensamente con culture di pregio. Ma in altri casi si sospettava di arricchimenti illeciti. Giovenale, il quale, come poeta satirico, non va troppo per il sottile, anche in questo caso è drastico: «I giardini, le ville, i banchetti sono dovuti a reati; l’onestà è lodata, ma soffre il freddo» (1,75). Un caso tipico è quello di Lucullo, rimasto famoso non già per le sue gloriose imprese militari in Asia, ma per i suoi fastosi banchetti quotidiani. Le sue ricchezze erano in gran parte dovute al bottino di guerra, che come generale aveva tenuto tutto per sé, negandone parte ai soldati delle sue lunghe campagne. Di lui Plutarco scrive che impiegò parte dei suoi capitali in «divertimenti d’ogni sorta» e tra questi considerava anche l’erezione di «edifici sontuosi, gallerie e bagni», dunque costruzioni superflue: in una villa del Napoletano riuscì addirittura a creare un’isola, perforando gallerie e scavando canali, al solo scopo di allevare pesci in acqua di mare corrente. La frenesia delle costruzioni stava diffondendosi come un contagio. Seneca, il quale nega che il progresso tecnico, da lui considerato la prima radice dei mali morali, sia dovuto alla filosofia, nella famosa lettera 90 depreca l’affollarsi di tetti sopra i tetti nelle città e di città sopra le città. La tendenza all’imitazione doveva aggravare la situazione. Come le città fiorenti nel periodo imperiale si sforzavano di riprodurre la grandiosità della capitale con piazze, templi, edifici pubblici e privati, così i singoli abbienti emulavano i potenti. La gente comune, fuori del gioco, ne ritraeva disaffezione al lavoro: Plinio si lamenta della difficoltà di reperire coltivatori esperti per i suoi poderi. Nerone diede un pessimo esempio. Dopo il famoso incendio di Roma si costruì una reggia meravigliosa, non solo adorna al suo interno, ma anche circondata da spazi vuoti e selve e stagni, persino ville e fattorie, dove un tempo sorgevano case. Con evidente ma significativa esagerazione Tacito dice che lasciò all’iniziativa privata solo spazi residuali. Forse vi allude anche Seneca nella lettera citata, quando lamenta la presenza di case grandi come città, che imprigionano gli spiriti. Nerone fece anche di peggio, spinto dal demone della megalomania. Tra l’altro progettò una vera e propria «autostrada fluviale a due corsie», un canale navigabile, che mettesse in comunicazione rapida la Campania con il porto di Ostia e fosse praticabile dalle navi di maggior tonnellaggio nelle due direzioni contemporaneamente. In occasione dei lavori per la ricostruzione di Roma dopo l’incendio fu osservata la difficoltà di far scendere il Tevere coi carichi di macerie e farlo risalire coi nuovi materiali. L’idea non era dunque priva di risvolti economici, ma era troppo avanzata per la tecnica del tempo e le risorse disponibili. Così l’opera fu presto abbandonata e Plinio il Vecchio osserva che l’unico risultato fu la desertificazione dei terreni, nei quali si produceva il pregiatissimo vino Cecubo. Evidentemente al progetto della colossale infrastruttura era mancato il calcolo preventivo del rapporto costo-benefici.

Giornale di Brescia,.4.1.2005.