I maestri della paideia greca

INDICE CAPITOLO II

  1. I Sofisti
  2. Socrate
  3. Platone
  4. Aristotele
  5. Isocrate

 

  1. I Sofisti

La filosofa ha avuto, fra l’altro, in Grecia anche il merito di alimentare direttamente lo sforzo di creazione pedagogica, istituzionalizzando quella specie di comunità della ricerca associata cui fu dato il nome di «scuola»: scuola ionica, scuola eleatica, scuola pitagorica, sino all’Accademia e al Liceo, al Giardino e allo Stoa.

L’iniziatore dell’eleatismo, Senofane di Colofone, fiorito verso il 540 a.C., il poeta dell’unità dell’essere, il critico geniale dell’antropomorfismo, della metempsicosi, del fanatismo sportivo, scrive in versi e si fa educatore, con l’esplicita volontà di denunciare nei banchetti aristocratici l’immoralità della religione omerica (fr. 11 s.) a cui oppone la concezione di un Dio che non nasce e non muore, fa quello che pensa senza correre di qua e di là «come un servo ansimante», non avendo bisogno di spostarsi da luogo a luogo.

A realizzare l’ambizione di una «scuola» in senso stretto fu Pitagora di Samo (570-497 a.C.), a cui si deve la metafisica del numero, la concezione della struttura razionale e matematica dell’universo, la celebrazione della scienza come strumento di purificazione morale e l’approfondimento di alcuni temi religiosi secondo le suggestioni dell’orfismo. La scuola pitagorica, aperta anche alle donne, così come appare a Metaponto e a Crotone, è insieme una scuola di ricerca scientifica, una fazione politica d’indirizzo aristocratico e un convento di contemplativi. Al di là del carattere composito, amalgama di elementi diversi della dottrina e al di là delle mistiche nebbie in cui rimane avvolta la concezione di Dio, alla scuola pitagorica («italica» come la chiamava Aristotele) si deve l’affermazione più energica possibile, e tutta ionica, per così dire, della saggezza come misura, della virtù come armonia, della funzione formativa e catartica della musica, nonché intuizioni precorritrici in campo astronomico. Infine, malgrado l’impasto mitico, il concetto orfico di anima, ripreso dai pitagorici, la sua connessione a una divina norma di giustizia e la distinzione fondamentale dell’uomo meramente sensibile dal suo vero io, che è sua missione perfezionare (il cammino della vita è sforzo verso la saggezza), sono gradini essenziali nello sviluppo della consapevolezza dell’uomo e del suo processo formativo. La scuola s’irrigidì nel culto del maestro e nello sforzo di una fedeltà letterale e passiva, espressa dalla formula ipse dixit, assunta poi a designare il fenomeno di mediocrità intellettuale e di viltà morale di chi accetta acriticamente, senza motivata convinzione, una dottrina come se si trattasse di una parola d’ordine.

A Pitagora fu mossa da Eraclito (morto verso il 430 a.C.) l’accusa di «polimazia» o multiscienza. Per lo scontroso filosofo di Efeso due sono i pericoli che ostacolano il cammino dell’uomo verso la consapevolezza, l’ignoranza degli «asini», che si accontentano di un po’ di paglia e disprezzano l’oro, e la polimazia dei falsi sapienti. Costoro esibiscono un’erudizione minuziosa, varia e superflua, che sovraccarica la mente, ma non la rende capace di cogliere il senso riposto delle cose. Alla saggezza apparente di chi sa molte cose, ma non ne possiede l’intelligenza autentica, si oppone la ricerca filosofica, che è, sì, diretta a oggetti molteplici, ma tende costantemente a raccoglierli in unità, al di là delle apparenze immediate. È questa, la prima vigorosa critica dell’enciclopedismo, malanno e tentazione che vedremo rinascere sotto forme diverse e talora insospettate.

Tutto ciò non è poco; tuttavia non è dalle scuole filosofiche o dai singoli pensatori anteriori a Socrate che è venuta la spinta più decisiva al rinnovamento della paideia ellenica. La grande rivoluzione culturale e pedagogica è opera dei sofisti, di Socrate e della loro paradossale collaborazione antagonistica.

La sofistica è l’espressione culturale e filosofica della crisi del mondo greco tra la metà del V secolo e la fine del IV. Nella sofistica bisogna distinguere almeno tre fondamentali tendenze: il relativismo scettico di Protagora e Gorgia («la grande sofistica»); l’individualismo, il superomismo e la teoria convenzionalistica dello Stato sostenuta con particolare virulenza da Crizia, Callicle e Trasimaco («la nuova sofistica»); infine, la dottrina della legge naturale come comando ed esigenza della ragione, professata, pur con forti zone d’ombra, da Prodico, Ippia di Elide, Antifonte, Alcidamante. Se quest’ultima corrente prelude, sia pure entro certi limiti, a qualche posizione socratica, la prima e la seconda esprimono in maniera evidente i tratti tipici della mentalità sofistica e troveranno proprio in Socrate il loro grande avversario.

Platone accosta idealmente i signori colti e raffinati della «grande sofistica», Gorgia e Protagora, ai «nuovi sofisti» della dissoluzione scettica dello Stato e della volontà di potenza, stabilendo tra gli uni e gli altri, pur così diversi, un rapporto di responsabilità e di continuità. Infatti sono proprio in Gorgia e Protagora le premesse gnoseologiche e metafisiche dell’immoralismo del superuomo di Callicle e compagni.

I sofisti furono audaci nello scoprire le difficoltà dei problemi, ma la loro genialità non era accompagnata e sorretta da un corrispondente sforzo di ricerca, esaurendosi nella violenza polemica, nel gioco dell’ipercritica fine a sé, nella facilità dello slogan, nella sottigliezza del paradosso brillante che brucia non solo i luoghi comuni, ma anche le possibilità costruttive del pensiero logico. Essi approdano a un cinico pragmatismo, alla giustificazione dell’utile in quanto tale e al culto di quello strumento formidabile con cui si perviene al successo nelle relazioni interpersonali, nelle assemblee e nei tribunali: l’arte della parola1. Se la verità non esiste e non è conoscibile, esiste però come fatto psicologico la persuasione, e l’arte oratoria la promuove. Là dove non esistono o sono inaccessibili valori assoluti, l’utile dell’individuo o dello Stato ne prende il posto e diventa criterio di azione, suscettibile di tutte le variazioni e di tutti gli adattamenti possibili.

L’interesse dei sofisti per le discipline che riguardavano la parola e per l’insegnamento fu veramente grande. Essi ebbero in comune il mestiere d’insegnare ai giovani e furono i primi professori d’insegnamento superiore, la cui efficacia sociale è attestata anche dalla riuscita commerciale. Qual era l’oggetto del loro insegnamento? L’eloquenza politica e giudiziaria, la cultura adatta alla formazione dell’uomo politico, al cui successo è indispensabile entrare in possesso di una vera e propria tecnica della persuasione, rispetto alla quale ogni conoscenza è strumentale. Essi esercitavano il loro mestiere di professori di retorica, riunendo intorno a sé i giovani che ne avevano fatto richiesta, assumendo l’impegno di una loro preparazione completa, in tre-quattro anni di precettorato collettivo. Il servizio è assicurato in blocco per una somma sempre considerevole, ma variabile. Il «Giove» della Sofistica, Protagora, percepisce da ogni discepolo diecimila dracme e la dracma era il salario giornaliero d’un operaio qualificato (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 52); ma nel secolo seguente i prezzi calano, se il grande Isocrate, verso il 390, non domanda più di mille dracme e si lamenta che concorrenti sleali giochino al ribasso (Isocrate, Contro i sofisti, 3).

Per farsi conoscere e per reperire clienti i sofisti si esibiscono nelle città in cui sono giunti nel loro itinerario o, preferibilmente, in un santuario panellenico come Olimpia, dinanzi a un pubblico proveniente da tutta la Grecia. Le prove a cui si sottopongono sono di due tipi: la conferenza, su un tema precedentemente annunciato e svolto, e l’orazione celebrativa in occasione di una pubblica ricorrenza; oppure l’improvvisazione brillante su un qualsiasi soggetto, de omni re, proposto dal pubblico. Come si vede, si mirava a far apparire alla jeunesse dorée che li seguiva la retorica come la scientia regalis che permetteva di affrontare con successo in qualsiasi situazione qualsiasi argomento. Qui lo scetticismo si combinava stranamente alla presunzione enciclopedica della «polimazia», alla inevitabile finzione di una sapienza professionale, apparente, che li abilitasse a discutere anche di ciò che non conoscevano.

I grandi sofisti non pervennero, certo, a quel grado estremo di degenerazione della dialettica che fu proprio, più tardi, dell’eristica, ma l’avviarono sia con la loro mentalità che con i loro procedimenti, dal momento che per essi la verità importava assai meno che riuscire a far accettare hic et nunc, una certa tesi a un pubblico determinato. Dei Discorsi demolitori non possediamo che la prima frase, in cui Protagora dice che su ogni questione si possono sempre sostenere or l’una or l’altra tesi anche se contrastanti, secondo i casi e l’opportunità del momento, ma è facile coglierne l’eco nelle antilogie degli eristici e nel loro celebre e noioso repertorio d’opinioni opposte.

La tesi della isostenia o equivalenza delle argomentazioni, formulate dallo scetticismo posteriore, era già implicita nella citata proposizione di Protagora come nella triplice negazione di Gorgia (nulla esiste; se qualcosa esistesse non potrebbe essere rappresentata e conosciuta; se qualcosa esistesse e potesse venir conosciuta non potrebbe essere comunicata ad altri).

Malgrado nella sofistica il negativo prevalga decisamente sul positivo, essi dettero un insostituibile apporto pedagogico. Furono i primi professori d’insegnamento superiore, quando più se ne avvertiva l’esigenza e ancora non esistevano istituzioni rispondenti a tale domanda. Studiarono per primi il rapporto tra pensiero e linguaggio, crearono la scienza grammaticale e concessero ampia parte allo studio dei poeti, gettando così le premesse della scuola classica e, potremmo dire, del liceo classico come ancor oggi è nelle sue componenti essenziali. Né va dimenticato che parecchi sofisti – Ippia e Antifonte in primo luogo – riconoscono anche il valore fondamentale delle scienze e le fanno rientrare nel normale corso di studi.

I contributi specifici dati dai singoli sofisti al chiarimento dei problemi educativi sono tutt’altro che irrilevanti, quasi sempre assai acuti e di gran lunga migliori degli orientamenti generali gnoseologici, etici e politici. La dottrina di Gorgiada Leontini (483-374 a.C.) sulla pluralità delle virtù, lodata da Aristotele (Politica, A 13, 1260 a 27), ha una grande efficacia in campo pedagogico. Non c’è una virtù sola ed assoluta, onnicomprensiva ed assorbente, non è pensabile un eleatismo morale; ci sono le virtù per ciascuna età ed attività: virtù e vizi di un fanciullo, di un adulto, di una madre, di un politico e così via. Non è la virtù morale che s’insegna agli altri, dice acutamente Gorgia, in ciò distinguendosi dagli altri sofisti, ma il retto giudizio sul suo valore e la conoscenza dei mezzi con cui pervenire a essa. Si può suscitare negli altri non la virtù, ma il desiderio, la passione della virtù. La parola per essere efficace deve adeguarsi alla disposizione psicologica di chi ascolta; allora spontaneo sorge il consenso a chi ha saputo scoprire le tensioni intime degli uditori, aiutandoli a liberarsene. Un concetto veramente profondo è quello in cui Gorgia pone l’essenza dello spirito come non del tutto separabile dal suo manifestarsi: «essere senza parere è oscurità; parere senza essere è impotenza». È un precetto utile anche per l’educatore quello che Gorgia sosteneva, che «si deve demolire la gravità degli avversari con la facezia e la facezia con la gravità» (Aristotele, Retorica, 18, 1419 b 3).

Alcune sentenze attribuite a Protagora (486-411 a.C.) ci colpiscono per la loro verità: «l’insegnamento ha bisogno di disposizione naturale e di esercizio»; «bisogna imparare cominciando da giovani» (Grande Trattato in «An.Par.», I, 171, 31); «nulla è l’arte senza esercizio, né l’esercizio senza l’arte» (Stob.Flor., 29, 80); «non germoglia la cultura nell’anima, se non si penetra a grande profondità» (Plutarco, Sull’esercizio, 178, 25).

Un capolavoro di eloquenza parenetica è l’Eracles al bivio del sofista Prodico, maestro di Socrate, che inizia nel V secolo la reazione alle posizioni estreme e accentua il tema dell’educazione morale. «Hanno posto il sudore dinanzi alla virtù gli Immortali; lungo, scosceso e aspro dapprima è il sentiero che a essa guida». Alla bellezza pudica della virtù si oppone il fascino provocante della depravazione, ma la ragione, che deve scegliere tra le tendenze naturali, non si afferma se non opera secondo il comando della legge morale. È un preludio a Socrate, e non è poco.

Tra le intuizioni più ardite di Antifonte, che fu contemporaneo di Socrate, meritano di essere ricordate la forte sottolineatura del rapporto tra sanità mentale e salute e l’importanza del fattore tempo nella vita umana («la cosa principale negli uomini è l’educazione: in ogni cosa è verosimile che finisca bene chi ha ben cominciato»; «non ci è concesso ricollocare la vita come una pedina»).

Ippia di Elide (443-343 a.C.), democratico convinto, rivendica il diritto di natura come legge morale universale, la cui validità supera tutte le leggi scritte e a nome della legge naturale non scritta bandisce il diritto del più forte. Per raggiungere «un risultato perfetto» in educazione occorre la convergenza di parecchie condizioni: si richiede una disposizione naturale, riferita a un dato obiettivo, passione per ciò che è moralmente buono e giovevole, amore alla fatica in modo da iniziare molto presto gli studi e resistere in essi per molto tempo. Se per imparare un’arte in poco tempo è possibile riuscire non inferiore a chi ce la insegna, «la superiorità spirituale, risultante da molte azioni, non è possibile condurla al suo compimento quando si cominci tardi e neppure in breve tempo; è necessario immedesimarsi in essa e con essa progredire, con un’astensione da discorsi e abitudini disoneste alla quale faccia riscontro una pratica costruttiva di atteggiamenti virtuosi» (Sofisti: testimonianze e frammenti, a cura di Mario Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1954, fasc. III, pp. 111, 113, 119).

  1. Socrate

La figura di Socrate (470-399 a.C.) è ben singolare. C’è qualcosa in lui che l’accosta agli stessi sofisti ed è la sua spregiudicatezza nel sottoporre ogni problema o fatto o comportamento all’esame, alla critica, al dibattito2. Ma il figlio di Sofronisco ha una sola, ardente passione, per la quale ritiene degna la vita di essere vissuta, la passione di conoscere la verità, nella misura in cui essa si lascia afferrare, per conformare a essa la vita. Per questo Socrate sorpassa i sofisti e gli si oppone nella sua opera di ricostruzione intellettuale e morale. Egli diede soprattutto importanza alla razionalità ed ebbe di mira la formazione delle intelligenze; tuttavia la tecnica della controversia, piegata dai sofisti a fini scettici e negativi, in lui si trasforma in metodo attivo dell’interrogazione controllata, che vuol giungere alla certezza razionale, e la retorica diviene dialettica, ricerca delle connessioni razionali al posto delle suggestioni della parola, dialogo aperto alla prova e agli apporti della discussione e della ricerca associata, psicagogia, arte di persuadere se stesso e gli altri su ciò che insieme è stato scoperto come vero e come bene.

Il suo vivace, instancabile apostolato è svolto con il proposito di purificare i valori, facendone rilevare la rigorosa struttura e fondazione logica, in una visione critica, ma serena e oggettiva, lontana a un tempo dall’ignoranza di coloro che alla tradizione erano legati per sola forza d’abitudine e dalla saccenteria presuntuosa dei sofisti. Il suo scopo è di dare agli uomini la coscienza della propria responsabilità.

Il più lucido avversario dei sofisti, Socrate, ebbe la sorte di essere confuso con i suoi avversari sofisti nella parodia che del suo insegnamento si fa nelle Nuvole: parodia che è tanto più odiosa se si pensa che l’informazione, peregrina per il popolo, non doveva essere tale per Aristofane, il quale nella stessa opera, vera commedia degli errori, che fa da prologo alla più alta tragedia del mondo pre-cristiano, si dimostra abbastanza bene informato della tecnica antilogica. Un filosofo di tanta grandezza, educatore puro e disinteressato, non poté sottrarsi al fraintendimento e all’odio persecutorio dei tradizionalisti e degli eversori, dei dogmatici e degli ipercritici a ogni costo, forse proprio a causa dell’originalità e verità del suo punto di vista, infinitamente superiore alle loro unilateralità di opposto segno, che nondimeno si implicavano e si alimentavano a vicenda.

Socrate non può lasciarsi attrarre o incastrare dal troppo facile e superficiale scontro delle posizioni estreme di un Aristofane o di un Callicle, perché quella contrapposizione non fa che mettere a tacere la voce della ragione, che è invece la prima cosa di cui l’uomo e la polis hanno bisogno.

Non si tratta per Socrate di mediare due posizioni antitetiche, di cui l’una riesca di fatto a prevalere sia pure arricchita dal superamento della sua negazione.

Ben altra e ben alta è la posta in gioco ed in essa è impegnato il destino dell’uomo e della civiltà: è la scoperta e la giustificazione razionale del valore morale, del bene, della sua spiritualità e interiorità, di contro alle sue negazioni e deformazioni, di fronte ai disvalori che immiseriscono la vita delle singole persone e della comunità, quando non la pervertono. Si comprende allora perché Socrate è il vero iniziatore dell’umanesimo perenne.

Il contributo di Socrate è di portata immensa. Sollevò la crisi del costume etico a problema morale, e fondò l’etica come scienza; nella ricerca delle leggi logiche scoprì il valore del concetto e dei procedimenti induttivi. Con la concezione dell’anima come realtà spirituale, Socrate esplorò la struttura e la legge di questo cosmo interiore, gettando le basi della tradizione intellettuale e morale dell’Occidente. Egli fu un impareggiabile maestro di vita, che insegnò il metodo di ogni autentico insegnamento, combattendo dogmatismo e scetticismo congiuntamente, poiché ravvisò in essi lo Scilla e il Cariddi della ricerca umana, gli atteggiamenti e gli ostacoli più frequenti dinnanzi ai quali si arresta e si dissolve l’impegno per una vita personale e sociale secondo verità.

La missione «educativa» di Socrate, pertanto, consiste in una lotta per la ragione, contro la misologia3 nelle sue più diverse manifestazioni, e nella critica delle premesse agnostiche e scettiche di quel pessimismo senza catarsi che caratterizza «il vuoto di valori» della mentalità sofistica.

Socrate dimostrò ai sofisti che «nella sfera pratica dell’educazione non c’è scampo per la sfiducia nella ragione, poiché una vera educazione comporta assai più che dei semplici metodi per indirizzare la mente. Essa richiede un fine verso il quale si dovrebbe dirigere l’azione umana e una certezza intorno al bene che ci si sforza di raggiungere. L’affermazione di Protagora secondo cui l’uomo stesso è la misura di tutte le cose non è, da questo punto di vista, che la dichiarazione di bancarotta della cultura umana. Così Socrate intraprese l’infaticabile ricerca4, durata tutta la vita, della misura senza la quale non possono esistere l’educazione e la cultura umana nel loro senso più profondo» (Werner Jaeger, Umanesimo e teologia, Ed. Corsia dei Servi, Milano 1958, pp. 52-53).

«Conosci te stesso» era scritto sul portone del tempio di Delfi. Socrate fece suo il motto, dandogli un’estensione e una profondità insospettata. Mettersi in chiaro con se stessi, con un atto di coraggio e di sincerità da rinnovare di continuo, significa pervenire all’età della ragione, cioè superare l’egocentrismo, il narcisismo, così come l’istinto del gregge, la falsa certezza delle frasi fatte, dei luoghi comuni.

Conoscere se stessi significa tener viva in sé una visione di vita matura, la quale comporta una sete di verità, di obbiettività, e quindi comporta un movimento verso l’interiorità obiettivante, una nobile tensione, un rigore etico e razionale per scoprire quella verità, ch’è in noi, e che sola può guidare la nostra vita.

«Conoscere se stesso» per Socrate non significa conoscere in sé solo l’individuo con le sue caratteristiche contingenti, coi suoi variabili umori, ma conoscere e riconoscere in sé l’uomo, l’umanità comune in ciò che esige, in ciò che può, in ciò che deve. La conoscenza dell’umanità in noi consiste nella consapevolezza delle possibilità e dei limiti a tutti comuni, nonché doveri a cui la natura umana ci chiama, dei fini che dobbiamo raggiungere.

Con un’approssimativa schematizzazione, nel dialogo socratico si possono distinguere tre momenti essenziali: la professione di ignoranza consapevole, l’ironia, la maieutica. Socrate – com’è ben detto nello scritto più socratico che ci sia, l’Apologia – muove alla ricerca di «quella sapienza ch’è consentita all’uomo», e in «questo servigio prestato a Dio», in questa «sua continua occupazione» egli ha dato tutto se stesso. Ma come cercare quella sapienza, come stabilirla su di un fondamento sicuro?

Nessuna verità esiste, vive realmente come un dato materialmente trasmissibile ad altri; la verità si apre il varco, vive realmente nell’anima di chi la riscopre, la fa sua, la interiorizza. Dunque è inutile comunicare agli altri ciò che è il punto di arrivo della nostra riflessione; occorre, invece, cercare insieme, trasformare la sterile disputa sofistica in una forma di collaborazione tra spiriti fattisi ansiosi di verità, anche quando non se ne rendono pienamente conto e quali che siano i rispettivi punti di partenza. Di qui il paradossale procedere di Socrate: egli disdegna la conferenza, il discorso celebrativo, il discorso in proprio, la lezione, e cerca con le sue domande, con i suoi dubbi, con i suoi interrogativi di far affiorare nella coscienza dei suoi interlocutori un problema universale e d’impostarlo esattamente, rigorosamente. Il suo dubbio – che in realtà comportava un chiaro, sistematico rifiuto per quanto riguardava la mitologia (nell’Eutifone) e la scienza del suo tempo (celebri le pagine nel Fedone in cui Socrate traccia la sua autobiografia intellettuale) – era, invece, un dubbio metodico per l’etica.

Il dubbio e l’interrogazione si accompagnano, da parte di Socrate, alla professione di un consapevole sapere che fa da pungolo alla ricerca e alla richiesta di risposte non generiche, non evasive, che operino il passaggio dall’esempio addotto al criterio, al principio di più atti che manifestino uno stesso valore. Dinanzi alle risposte ricevute, Socrate dispiega la sua ironia: uno scherzo terribilmente serio, che irrita quasi intenzionalmente l’interlocutore per scuoterlo con energia dalle sue false certezze e renderlo, così, aperto a quella verità che ora gli sfugge. L’interlocutore, costretto da Socrate a trarre egli stesso le conclusioni insostenibili e contraddittorie innegabilmente insite sulle sue errate affermazioni, sente di non poter più poggiare i piedi su un terreno che frana e finalmente si fa strada nel suo animo una salutare diffidenza per le facili apparenze, per le pretese certezze immediate, per le formule, gli slogan e le frasi fatte. Il sofista si sottrae alla ricerca con un espediente o fingendo indignazione; ma se si tratta di giovani, desiderosi di conoscere il vero, il loro turbamento, paragonabile alla scossa inflitta dalla torpedine marina, è salutare.

Per loro e con loro Socrate continua a cercare. L’ironia, propria di chi fa avanzare a grado a grado la consapevolezza dell’insostituibile valore del vero per un mondo che voglia essere umano, diventa allora maieutica, estrazione dalle profondità dell’anima della verità presentita, con un tormento paragonato ai dolori del parto: la verità, infatti, non è mai una cosa tra le cose, ma un processo di generazione spirituale. Figlio della levatrice Fenarete, Socrate diceva spesso di aver ereditato dalla madre l’arte della maieutica. L’educazione autentica è e rimarrà sempre, finché la parola «uomo» avrà un senso, una «maieutica della persona», un punto d’incontro tra sollecitazioni e scoperte, un approfondimento dell’interiorità conseguito con e tra gli altri uomini, una conquista personale di ciò che vale per tutti.

Con Socrate ha inizio una nuova, profonda visione del rapporto e del processo educativo. L’accresciuta importanza data da Socrate alle risorse dell’individuo gli ha fatto intuire la possibilità e la validità di un metodo consistente nello stimolare gli spiriti e trar fuori da sé le proprie energie, con quel procedimento dialogico che in lui fu tanto ammirato e che venne chiamato, appunto, «socratico». Nella sua «arte maieutica» troviamo per la prima volta chiaramente annunciato il principio che l’educazione, per quanto implichi sempre una relazione sociale, un rapporto interpersonale tra educatore ed educando, si realizza eminentemente nell’intimità dell’educando, come autoeducazione, e che l’azione esterna dell’educatore ha valore soltanto se riesce a essere un efficace lievito interiore della personalità dei discepoli. Inoltre il socratismo portava implicitamente all’affermazione che tutti gli uomini hanno, almeno potenzialmente, un eguale valore e un’eguale educabilità, sebbene di fatto il suo eros di educatore si volge soprattutto a quei giovani ben disposti ad accogliere la più elevata formazione intellettuale e morale, l’aretè. Per renderli migliori, non c’è che aiutarli a scoprire ciò che essi sono, accostarsi a loro con amore, chiamarli a collaborare nella soluzione dei problemi, vagliare insieme le diverse opinioni con l’ironia critica che fa svanire la falsa scienza, esercitare l’induzione che apre le porte alla scienza vera, dimostrare la razionalità della prospettiva migliore. In tal modo l’educazione non è più privilegio di casta, ma si applica a tutti gli uomini, poiché ogni uomo è il soggetto di un destino spirituale, potendo acquistare una sua propria capacità di giudizio e una sua personale responsabilità.

L’obiettivo dell’azione educativa non consiste nello sforzo di accumulare enciclopedicamente esperienze, percezioni e neppure concetti, ma piuttosto nell’insegnare a condurre bene il pensiero, e quindi l’azione, nel dedalo delle esperienze che costituiscono in concreto la vita dell’uomo. Infine un altro principio, che sarà messo in evidenza dalla pedagogia più recente, fa già capolino nella maieutica socratica. Non s’insegna nulla a chi veramente non sa nulla. Ciò che s’insegna dev’essere già in qualche modo, almeno implicitamente, presente come esigenza o problema alla mente di chi apprende. Il nuovo è insieme conquista e sviluppo di quanto il soggetto spirituale in un certo qual modo possedeva in precedenza: che è in germe, la cosiddetta legge di gradazione, o della gradualità nella formazione del sapere.

  1. Platone

Aristocle, che passò alla storia con il nome di Platone («dalle larghe spalle»), vissuto tra il 428-27 e il 347 a.C., fu il più grande discepolo e continuatore di Socrate, il suo vero capolavoro.

Socrate è il protagonista di quasi tutti i dialoghi di Platone, che non si stancò mai di illustrare il significato vitale del messaggio, della personalità, del magistero educativo e del metodo del maestro, dall’opera prima, l’Apologia, alla commossa rievocazione del Teeteto, così che la più originale e la più bella filosofia del mondo greco è nata da un atto di rinnovata e profonda fedeltà, una fedeltà non di ripetizione parassitaria, ma di approfondimento e di sviluppo. Il platonismo è un costitutivo essenziale della civiltà occidentale.

La sua essenza sta nell’affermazione del Trascendente, o Verità in sé, come valore assoluto e oggettivo, come principio e causa finale della realtà naturale e della vita umana. La presenza dell’idea alla mente, comunque sia interpretata, è tesi essenziale al platonismo, ed è ciò che fa la profondità dell’uomo, la sua interiorità; essa fonda l’aspirazione dell’anima all’Assoluto, al Bene sommo, e l’intuizione intellettiva o noetica che rende possibile l’esperire e il conoscere universale oggettivo. Platone non dissimula il pathos della ricerca, ma lo descrive con inarrivabile forza di penetrazione e lo comunica al lettore, in un sistema sempre aperto a ogni revisione ed approfondimento. Platone scrive con slancio appassionato e con arte sovrana, rappresentando i conflitti fra le idee come un conflitto di caratteri ritratti dal vivo.

L’ispirazione orfico-pitagorica, la dottrina della preesistenza dell’anima e della metempsicosi, le oscillazioni della ricerca su alcuni temi di fondo, il dualismo anima-corpo reso celebre dal Fedone, il presupposto innatistico vanno richiamati, come aspetti caratterizzanti del platonismo, senza dimenticare, però, quegli apporti correttivi e integrativi che l’infaticabile Platone ci dà nei dialoghi della revisione del sistema (soprattutto nel Sofista, nel Politico, nel Timeo, nel Parmenide, nel Filebo). Il fatto è che, quali che siano le difficoltà del platonismo come sistema, innumerevoli sono le suggestioni feconde e le verità in cui Platone ci fa da guida. E anche quando il suo genio sfiora problemi troppo ardui, egli non chiude la speculazione in schemi di illusoria chiarezza e non rinuncia a toccare i limiti dell’inesprimibile, proponendo la soluzione intravista dalla ragione in forme di verosomiglianza e di mito, perché non ancora pienamente concettualizzate.

La ricchezza, la complessità e il divenire della filosofia platonica si riflettono chiaramente nella pedagogia, la cui importanza fu sempre centrale per il fondatore dell’Accademia. La difficoltà di presentare, senza incorrere in interpretazioni unilaterali, la pedagogia di Platone sta essenzialmente nel carattere non contraddittorio, ma profondamente antinomico del suo pensiero, che, di volta in volta, svolge aspetti diversi d’uno stesso problema, ora incentrando l’analisi sull’interiorità del soggetto e sul suo sforzo per orientarsi al pensiero obiettivo, ora sullo Stato e sulla società.

John Dewey indica sostanzialmente lo stesso punto quando, riferendosi al pensiero di Platone, scrive che «sarebbe impossibile trovare in qualsiasi piano del pensiero filosofico un riconoscimento più adeguato, da una parte, del significato educativo dell’ordinamento sociale e, d’altra parte, della dipendenza di questo dai mezzi usati per educare i giovani; sarebbe impossibile trovare un più profondo senso della funzione dell’educazione per scoprire e sviluppare le capacità personali e addestrarle in modo che possano collegarsi con le attività altrui» (John Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 119).

Qual è il compito fondamentale dell’educazione? Chi vive questa vita coscientemente, «da sveglio», si distingue da coloro che, come nel sonno, sognando, battono la via loro assegnata, senza conoscenza, solo sulla base di un’opinione più o meno giusta, ma non in grado di render conto di sé. Aiutare ad avere un desto concetto della vita, una lucida visione della vita, e del valore supremo da attuare in essa, il Bene, è il compito della paideia.

Ogni altra conoscenza e abilità, anche la più celebrata, rappresenta una finalità secondaria rispetto a quella primaria ed essenziale di sospingere un essere umano a farsi, con ogni serio sforzo e zelo, «cercatore e apprendista» del Bene, capace di distinguere la buona e la cattiva vita e di scegliere sempre e dovunque, tra le forme di azioni possibili, quella migliore: la decisione di «rendere l’anima più giusta» è la più grave di conseguenze per l’uomo, in vita e in morte. Bisogna conquistare per tempo, e rafforzarla sino alla fine dell’esistenza, una granitica sicurezza su questo punto, se si vuole veramente conseguire «la libera condizione della virtù», per non farsi abbagliare dalla ricchezza e dalla tirannide, per non preparare a se stessi un dolore insanabile, l’angoscia di aver fallito sulla questione più importante, sul senso da dare alla vita stessa.

Bisogna che l’uomo impari a muovere con tutta l’anima incontro all’essenza che sempre è e non muta per nascita o per morte (Repubblica,VI, 485 b), causa a un tempo per cui le cose esistono e causa per cui l’intelletto conosce e l’intelligibile è conosciuto (Fedone,100 c-d; Repubblica,VI, 508 c).

La suprema utilità dell’uomo è disinteressata, perché sta nel Bene che è fine a se stesso e che è cercato e amato per sé, condizione ideale e ontologica di ogni bene terreno, non mezzo per realizzare la felicità, ma fine al quale la felicità è congiunta ed è subordinata. Il Bene voluto perché tale5, per se stesso, è il primo movente, «il motivo necessariamente agente», l’ultimo fine di diritto dell’uomo e dunque della sua educazione, la prima «cosa cara» (philon) com’è detto nel Liside (219 d). Lo stabile dedicarsi del Bene, sempre accessibile e insieme inesauribile alla coscienza e al volere nella sua infinità, illumina ogni altro aspetto della vita, lo preserva dal degenerare, lo rende idoneo a una fecondità sempre più altamente positiva. Ogni singola virtù, come tutte le cose, diventa utile, e ha valore formativo solo attraverso il Bene6. Chi sia ignaro del Bene non potrà mai essere veramente un educatore, così come non dovrebbe essere tra i reggitori della cosa pubblica.

Che cosa rende possibile insegnare e apprendere? Fino a che punto, in che senso la virtù è o non è insegnabile? I paradossi dell’intellettualismo etico, che rendono insolubili quei problemi, riaffiorano nei meandri del gioco dialettico nell’uno o nell’altro dialogo, ma per essere superati da Platone quando afferma, in perfetta sintonia con l’esperienza, che la saggezza stessa può essere motivo di corruzione, perché le grandi colpe e la malvagità dipendono sempre da un cattivo impiego delle più alte virtù.

Non c’è solo l’errore, c’è il male, il rifiuto di un valore morale. E come il sapere in qualche caso è posto a servizio del male, così il male può essere conosciuto dal sapiente, senza che il suo conoscere importi necessariamente la pratica del male (Repubblica,VII, 519 a; III, 409 d). Alcibiade fu ammiratore convinto di Socrate, ma non per questo ne imitò l’esempio.

Platone ci ha dato una vera e propria metafisica dell’apprendere e dell’insegnare con la dottrina dell’anamnesis e con quella dell’eros. Non c’è conoscenza, vero insegnamento che non promuova un effettivo apprendimento, un risveglio, un diventar desti, disponibili al vero. Il sapere non può essere meramente mnemonico e meccanico, superficiale; quando sorge, viene alla luce dalle profondità dell’anima.

«La ricerca e il sapere non sono altro che reminiscenza» (Menone, 81 d). Lo schiavo ignorante, guidato dalle interrogazioni di Socrate, ma senza che questi gli insegni nulla, porta a compimento una dimostrazione di geometria.

La didattica di tutti i tempi dovrà ormai prendere a norma l’esempio geniale del maestro che, senza sovrapporre o sostituire la propria attività a quella dell’allievo, porge lo stimolo alla fermentazione delle forze interiori. L’apprendere, questo peculiare miracolo dello spirito, è un reale sforzo per appropriarsi di una realtà intelligibile e obiettiva (conoscere significa non chiudersi nella prigione delle impressioni soggettive, convogliare tutte le energie al pensiero obiettivo), la cui visione si fa chiara a grado a grado nell’intimo e dal profondo dell’anima. L’inquadramento mitico del problema fondamentale ha forse fatto smarrire al lettore il senso del problema in discussione: «che cosa rende possibile la maieutica?». L’educazione dell’uomo è un risveglio umano, inseparabile dal senso delle risorse interne di colui che apprende, dal senso delle profondità della sua anima; l’agente principale del processo educativo è colui che apprende.

Questi insegnamenti che Platone ci suggerisce, quali che siano i presupposti arbitrari o le conseguenze esagerate della dottrina dell’anamnesis7, sono sempre validi.

Platone contrappone di continuo l’apprendimento socratico e la«fornitura di conoscenze», «ciò che fa diventare sapienti e ciò che fa diventare saputi» secondo la felice espressione del Fedro (275 b); ed è questa contrapposizione che sta alla base della discussione sull’essenza della virtù, sulle possibilità d’insegnarla, su che cos’è l’educazione. La virtù si nutre di verità ed esige la verità su ciò che è bene e male, sul modo più consapevole possibile, ma non è formulabile e non può essere facilmente e successivamente comunicata agli altri come se si trattasse di un teorema di geometria.

Su questi due capi del problema, entrambi del resto individuati ma non annodati dal Socrate storico, Platone ha impostato il suo discorso con un’ampiezza di motivi e con un intreccio di posizioni che sconcerta solo chi non riesce a cogliere la necessità rigorosa e insieme l’insufficienza della razionalità nell’agire umano e nell’insegnare. Occorre agli uomini, agli educatori e ai giovani «la scienza del bene e del male e la conformità a questa sola scienza» (Carmide, 174 c); ma concludere che il bene è la scienza, come si sarebbe tentati di fare, è vano ed è errato, e la «conformità» al valore da conoscere e da far nostro incessantemente è come una seconda nascita, un parto spirituale, il frutto di una tensione dinamica in cui convergono il risveglio dell’educando a se stesso e alla visione del Bene, insieme appassionata e oggettiva, e la maieutica, la psicagogia, cioè l’arte di guadagnare le anime alla verità e al bene in un rapporto di reciproco consenso e accordo8.

La risposta, sottintesa e adombrata nel giro tortuoso di mille discussioni, diventa esplicita e precisa nel Simposio: la virtù è insegnabile per mezzo di Eros, per mezzo dell’amore. È escluso che l’insegnamento sia semplice trasmissione di sapienza da chi ne è pervaso a chi ne è privo, per il contatto dell’uno con l’altro, come l’acqua che venga travasata dal recipiente pieno a quello vuoto (Simposio, 175 d). L’educazione è, invece, fecondità spirituale di coloro che, pieni di energia diffusiva, vanno in cerca di altre anime belle e generose, e si congiungono a esse per generare la saggezza, e con questa la prudenza, la giustizia di ogni altra virtù (Simposio, 209 a).

«Non si tratta, dunque, dell’assenso che un’intelligenza presta alla dimostrazione inoppugnabile di un teorema, ma di un’adesione che impegna due esseri con tutte le loro capacità affettive, morali e intellettuali. Più non vale l’esigenza espressa dal Socrate del Gorgia che chi possiede la virtù debba necessariamente renderne partecipi i figli, e chi non ottiene ottimi risultati nell’educazione della prole sia ritenuto privo di quella, e nemmeno vale l’antitesi del Protagora che contesta l’insegnabilità della virtù per i pessimi risultati ottenuti dai grandi uomini politici nell’educazione dei figli: ormai il rapporto educativo appare, quale è veramente, reciproco, sicché il maestro più saggio e virtuoso, ove manchi la corrispondenza dell’educando, fallisce al suo scopo, senza che per ciò debba essere contestata la sua virtù o l’insegnabilità della virtù. Legata al sapere, questa è legata col sapere a tutta la vita mortale, che incessantemente muta e si evolve, muore e rinasce (Simposio, 207 e 208 b): sicché è vano pretendere che essa sia una conquista inalienabile dell’anima e che in ogni caso i frutti dell’educazione si mantengano incorrotti, senza mai risentire l’influenza del tempo e la corrosione del divenire. Scompare tutto ciò che è rigido, meccanico, fatale alla concezione del rapporto educativo. La virtù non discende prodigiosamente dall’alto, lasciando l’anima inerte; né si propaga con necessità logica di coscienza in coscienza; né si risolve in un rapimento estatico che cancelli nell’anima l’alacrità e l’individualità, ma deriva da un processo interiore dell’anima che la partorisce e la genera» (Luigi Stefanini, Platone, Cedam, Padova 19492, vol. I, p. 294).

A partire dal Fedro e dalla Repubblica in connessione alla nuova dottrina dell’anima unitrinitaria, principio di vita e di movimento, semplice e insieme complessa, razionale volitiva e concupiscente, si delinea una interessantissima psicologia delle facoltà, che sono irriducibili l’una all’altra, perché l’una può agire inibendo l’altra, (la ragione può inibire, a esempio, il desiderio smodato di bere) e che nondimeno sono chiamate ad armonizzarsi.

L’anima è come uno strumento a corde e l’educazione deve accordarlo tendendo qua e allentando là, in modo che esso possa diventare «uno», pur attraverso la molteplicità delle sue parti, e la sua vita un’armonia anziché una dissonanza.

Le discipline educative corrispondono perfettamente alla nuova dottrina che chiede il concorso di tutte le forze subalterne perché sia assolto il compito dell’educazione. Occorre contemperare ginnastica e musica fin dalla fase iniziale dell’educazione. La ginnastica, attraverso gli esercizi del corpo, non solo produce salute e forza fisica, ma disciplina l’elemento «animoso», l’anima «irascibile», l’affermazione e la consapevolezza di sé, che lasciata a se stessa si indurisce in ostinazione ed irrompe in atteggiamenti aggressivi.

L’educazione è sempre educazione dell’anima e, se mai, dell’anima in relazione al corpo; d’altra parte, l’ipertrofia della ginnastica, l’atletismo, porta con sé mali tanto grandi quanto l’eccessiva trascuratezza di essa renderebbe molli, imbelli, irritabili, ipersensibili.

La musica, nel sistema platonico, si infonde negli animi attraverso la poesia, le narrazioni, le letture, la musica propriamente detta, le altre arti belle, insomma attraverso tutto ciò che ci fa presentire la verità, la bellezza, il bene fin dai primi anni di vita del bambino «prima ancora di essere giunto all’uso della ragione» (Repubblica, III, 402 a).

Platone ha visto il ruolo decisivo della fase iniziale dell’educazione. In ogni lavoro l’inizio è della più grande importanza, specialmente quando abbiamo a che fare con una creatura giovane e tenera, perché allora, più che in ogni altro tempo, è pronta a ricevere ogni cosa. Ciò che il bambino ascolta quando è piccolo, in generale viene fermamente e indelebilmente fissato nella sua mente; egli è vivamente recettivo e le madri, gli educatori debbono renderlo ricettivo a ciò che è degno di ammirazione nella vita come nella natura e nell’arte, preparandolo ad amare il bene e ad accogliere in sé una luce, una volontà superiore, innanzi a cui l’arbitrio tace e un vincolo liberatore ci unisce agli altri tanto più quanto più ci fa aderire a Dio. Platone protesta vigorosamente contro un’educazione che propone, fin dall’infanzia, «la più grande menzogna intorno alle cose più grandi» con i miti immorali, con le favole mostruose della theologia fabulosa politeistica, resa efficace dal magistero dell’arte nei poemi di Omero e di Esiodo9.

La più grande colpa della democrazia è proprio la sua indifferenza di fronte ai fini e ai contenuti di un organico piano educativo, la sua ignoranza del dovere della comunità di rispettare l’umanità in germe, terribilmente vulnerabile, dell’infanzia e dell’adolescenza.

Il motivo centrale della svalutazione platonica dell’arte nel libro X della Repubblica non s’intende se non in rapporto alle esigenze intrinseche dell’educazione. A forza di pascere l’anima dei giovani con «vere immagini del male» (401 b), con «lo sfrenato, l’ignobile, l’indecente», giorno per giorno, a forza di dar loro «cattivo cibo» non si può, si voglia o no, non provocare un gran male nelle loro anime. L’educando ha bisogno di sanità spirituale (sophrosyne) così come di sanità corporea (hygieia).

«Dovremo invece cercare quegli artisti che hanno il felice dono di perseguire ovunque la natura di ciò che è bello e decente, affinché i nostri giovani, come abitando una sana contrada, vengano da ogni lato corroborati; possa ivi un’aura dolce, spirante sanità come da una regione salutare, addurre al loro occhio e al loro orecchio percezioni di opere belle; e guidarli così insensibilmente sin dalla puerizia alla somiglianza, confidenza e concordanza col senso del bello. In questo modo si raggiungerebbe di gran lunga la più bella loro educazione».

Educatore è colui che riconosce e aiuta a riconoscere le idee del valore, della libertà e della nobiltà d’animo, ovunque se ne manifestino le tracce. Se ciò è raggiunto, l’anima giovanile con una retta alimentazione ha già nutrito in sé una ripugnanza istintiva contro ogni cosa ignobile e abbietta, ancor prima di saper bene qual sia il vero logos d’una simile condotta, e prima che possa renderne conto a sé e ad altri: «quando sopravviene questa consapevolezza, il logos, chi così sia stato nutrito lo saluta come qualcosa di già noto per intima affinità» (402 a).

Il programma educativo nella fase elementare comprende anche un arrivo ai primi rudimenti di quella scienza che c’era allora, ma in maniera relativamente asistematica e impartita il meno forzatamente possibile «perché non si dovrebbe fare, dell’apprendere, una schiavitù per nessun uomo libero». Platone insiste, addirittura, che si dovrebbe imparare come se si giocasse (Repubblica, VII, 536 d-537 a).

Nell’infanzia e nella preadolescenza l’educazione, indiretta e diretta, dei sentimenti e del carattere morale deve avere una netta prevalenza su ogni altro aspetto della paideia.

L’educazione nei gradi superiori è simboleggiata dal famoso mito della caverna e dalle quattro tappe del processo conoscitivo. Dalla percezione confusa di immagini e dal congetturare (eikasía) si ascende alla convinzione nata da una percezione diretta delle cose (pístis), più certe della prima ma bisognose di conquistare una visione concettuale che oltrepassi l’ambito soggettivo dell’opinione e delle circostanze che ne hanno condizionato il sorgere. Al di là dell’oggetto della sensazione, con la sua capacità di «fare il doppio giuoco», la mente tende a individuare la struttura intelligibile dei rapporti presi in considerazione (diánoia), procedendo dalle ipotesi alla conclusione, come fa la geometria, e così lascia il dominio dell’opinione per entrare in quello della scienza. Aritmetica, geometria, stereometria o scienza dei volumi, astronomia o scienza dei solidi in movimento sono le discipline cui è affidato il compito di preparare la mente all’ascesa dialettica (nòesis), con cui la mente perviene all’intuizione e alla consapevolezza critica dei principi primi, delle idee nella loro connessione naturale, necessaria, oggettiva ed in primo luogo della realtà suprema del Bene in sé. L’efficacia del pensiero matematico – che bene esprime il terzo grado di conoscenza – è stata colta perfettamente da Platone: esso rende veloce la mente e l’obbliga all’esercizio del pensiero astratto, educa alla chiarezza, alla precisione, a tradurre un rapporto in uno schema visibile, a visualizzare ciò che è afferrato dalla mente, a cercarne le possibili applicazioni, a introdurre la misura nei fenomeni sensibili. Insomma, «per essere uomo, si deve saper far di conto» (Filebo, 56 e).

Platone non manca di mettere in luce soluzioni efficaci di problemi essenziali all’educazione di ogni tempo, e insieme accorgimenti didattici e metodi educativi che ancor oggi sorprendono per la loro provata validità. L’educazione degna non può essere che integrale, ammonisce il grande filosofo. Non si devono avere «nature zoppe» che, vigorose negli esercizi fisici, mal sopportano le fatiche del pensiero, o ben disposte all’attività intellettuale, rifuggono da ogni esercizio fisico (Repubblica, VII, 535 a – d). Lo squilibrio ingenerato da energie organiche preponderanti o insoddisfatte, che sormontano il vigore dell’anima, è fonte di guai. «V’ha quindi una sola salvezza: non esercitare l’anima senza il corpo, né il corpo senza l’anima, affinché si equilibrino e siano sani» (Timeo, 88 b).

Integrale ha da essere l’educazione perché sviluppa ciascuna parte del corpo e dell’anima, armonizzando intuizione e ragionamento, sentimento, moralità, religione, profondo civismo e senso della bellezza naturale e artistica.

Platone sostiene, anticipando John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Johann Friedrich Herbart, il principio della concentrazione didattica con termini non generici. «Le materie insegnate separatamente ai fanciulli, durante il periodo di educazione, debbono essere abbracciate dai giovani con un unico sguardo per scorgere i rapporti di affinità che legano tra loro le materie stesse e queste con l’essere in sé» (Repubblica, VII, 537 b-c).

Nessuno meglio di Platone seppe esprimere il concetto che una società è organizzata secondo giustizia quando ogni individuo fa ciò a cui è adatto per natura in modo da essere utile agli altri, dando così alla società ciò che di meglio può dare e ricevendo dagli altri ciò di cui ha maggior bisogno.

Uno dei compiti essenziali dell’educazione è di scoprire queste attitudini e di esercitarle progressivamente per il bene di tutti, oltre che del soggetto singolo. Occorre assegnare a ognuno il lavoro per il quale la natura lo ha reso più adatto nella vita. Se ognuno facesse la sua parte, senza evasioni e stravaganze, l’unità del tutto sarebbe incrementata. La distinzione delle classi (ognuna delle quali è rapportata alle tre potenze dell’anima concupiscibile, irascibile, razionale) in Platone ha senso dinamico e non statico, perché le classi superiori sono aperte a tutti, previa selezione.

A una preliminare selezione durante le fasi iniziali del processo educativo segue una più severa scelta sui vent’anni; in rapporto agli uffici più alti nella comunità s’impongono anche in seguito giudizi di idoneità o meno a essi. «Platone – scrive John Dewey – ha posto il principio fondamentale della filosofia dell’educazione quando ha dichiarato che era compito dell’educazione di scoprire ciò che sa fare ogni persona e di addestrarla a padroneggiare quel modo di eccellere, perché un simile sviluppo assicurerebbe la soddisfazione delle necessità sociali nel modo più armonico. Il suo errore non è stato nel principio qualitativo, ma nella sua concezione limitata della quantità di professioni socialmente necessarie; una limitazione di visione che oscura la sua percezione dell’infinita varietà di capacità che si possono trovare nei differenti individui» (Democrazia ed educazione, cit., p. 414).

Malgrado la chiara indicazione della via da percorrere, questa concezione platonica, che è senza dubbio la più nota, è forse anche la più discutibile, quella che mina alla base la vagheggiata armonia dello Stato ideale.

Il parallelismo con le potenze dell’anima è forzato e meccanico, sa di artificio; sui lavoratori, che comunque costituirebbero la maggior parte dello Stato, pesa la condanna alla condizione servile e alla totale insignificanza morale e politica. «Che i cittadini decadano e presumano di essere qualche cosa senza esserlo, non è grave danno per lo Stato» scrive Platone nella Repubblica e il misconoscimento della dignità del lavoro e dell’attività produttiva non poteva essere più pesante.

Non poche concezioni «utopistiche» della Repubblica appaiono ripugnanti a quel senso dell’uomo che permea il platonismo e ne costituisce l’intramontabile fascino.

Il vecchio Platone delle Leggi riprende i temi migliori della Repubblica e ne tempera le asprezze utopistiche, anche in campo educativo. Cade il progetto di educazione separata, in campagna, dei ragazzi e si afferma finalmente il carattere universale dell’educazione (VII, 804 d), l’obbligatorietà dell’istruzione pubblica; si consiglia di risolvere il problema disciplinare educando a una vita strenua, al dominio di sé, alla fatica, ma evitando nello stesso tempo un regime duro, rigoristico e meccanico, perché non si possono tenere i giovani come «frotte di puledri al pascolo» (II, 666 e) senza renderli vili, diffidenti, insocievoli.

Non mancano nelle Leggi cenni che prefigurano l’asilo d’infanzia, uno per ciascun rione della città. Platone difende l’ambidestrismo (VII, 794 e-795 c) e consiglia il ricorso all’intuizione sensibile e alla manipolazione degli oggetti per imparare il calcolo divertendosi (VII, 819 b-c). Contro la multiscienza, la «polimazia», contro l’enciclopedismo Platone dichiara che teme «le molte esperienze e le molte nozioni mal digerite» più della pretta ignoranza (VII, 819 a). Grande è l’efficacia, sia corruttrice che formativa, del costume politico, degli esempi concreti di condotta, dell’opinione pubblica, delle leggi sull’animo dei giovani, a causa della più immediata efficacia e della moralità implicita che ogni influenza non diretta comporta e suggerisce.

Nell’ultima opera di Platone, l’apprezzamento per il regime che tende a far coincidere popolo e potere nella libertà, si fa aperto e solenne, a correzione di altri giudizi che suonavano critica così implacabile delle insufficienze della democrazia, da far pensare a un rifiuto della stessa democrazia come ideale etico e politico.

Se l’uomo e il cittadino non sono mai separabili, ancor meno lo sono in un regime di democrazia, cioè di autogoverno, in cui non c’è vero bene comune senza una retta paideia. Solo chi accresce la propria umanità, conduce a salvezza se stesso e la comunità di cui fa parte.

  1. Aristotele

Aristotele (384-322 a.C.), che ebbe il privilegio d’una lunghissima permanenza nella scuola platonica per quasi venti anni, ha dedicato ai problemi dell’educazione parte del VII e dell’VIII libro della Politica e considerazioni esplicite d’interesse pedagogico sono sparse nelle sue opere. Né gli mancò un’esemplare esperienza diretta. Nel 343-2 Filippo di Macedonia invitò il filosofo a curare l’educazione di Alessandro che aveva allora tredici anni e Aristotele, poiché attribuiva grande importanza all’educazione dei futuri regnanti, accettò. Probabilmente fu durante il soggiorno presso Alessandro, a Pella, che Aristotele diresse la sua attenzione in modo sempre più sistematico ai problemi della filosofia politica. Nel 340 Alessandro cessò di essere suo discepolo e divenne reggente per il padre. I rapporti tra il filosofo e il conquistatore, mai intimi, si mantennero formalmente cordiali, ma Aristotele nella sua Politica critica apertamente il militarismo e l’imperialismo. Ben più vasta e feconda fu la sua azione di maestro in Atene, dove verso il 335 fondò la sua scuola, il Liceo, fuori dalla città, affittando – non poteva comperarli, essendo straniero – alcuni edifici siti in un boschetto consacrato ad apollo Licio, luogo prediletto da Socrate per le sue passeggiate. La scuola fu detta anche «peripatetica» dall’ampio viale (peripatos), ove ogni mattina il maestro e i discepoli solevano disputare, all’aperto, tra gli alberi, sulle più importanti questioni filosofiche, a esempio di metafisica e di logica. Gli appunti dei vari corsi riservati agli scolari, variamente redatti e rifusi, costituiscono quei capolavori che hanno segnato per sempre il cammino della cultura (scritti acromatici, che raccoglievano le cose ascoltate, le lezioni; sono detti anche esoterici, cioè per gli intimi, per un numero ristretto di persone, di iniziati). Il pomeriggio o la sera si trattavano argomenti accessibili a un pubblico più vasto e gli scritti che raccoglievano questa attività del maestro, se resero Aristotele celebre nell’antichità, oggi sono quasi del tutto smarriti (scritti essoterici, destinati al pubblico).

Il Liceo comprendeva una biblioteca e un museo di storia naturale. I vari membri dirigevano a turno la scuola per dieci giorni e ne difendevano le tesi contro chiunque si presentasse a discuterle. La ricerca scientifica e storica (si pensi agli apporti di Aristotele in campo biologico e alla grande collezione di Costituzioni) fu fortemente sviluppata e in essa il maestro ebbe di certo a valersi di un nutrito stuolo di collaboratori. Il contributo preminente di Aristotele alla pedagogia è da vedersi nei corollari che discendono da quelle concezioni e teorie che fanno del loro autore uno degli spiriti più universali della filosofia e della cultura. Di vaste applicazioni in pedagogia sono suscettibili le sue concezioni della forma, del divenire come passaggio dalla potenza all’atto, della intuizione dei primi principi dell’apprendimento, della vita morale e della formazione del carattere, nonché le acute osservazioni di natura psicologica e metodologica. Dare sviluppo e compimento alla forma personale della vita di un soggetto diventa lo scopo essenziale dell’educazione. Educare significa pertanto avviare un processo di formazione della persona, sviluppare le capacità che formano l’uomo, aiutare l’educando a diventare tutto ciò che la sua propria forma esige. Per cultura allora s’intende tutto ciò che permette allo spirito di entrare in possesso del proprio potere. Il processo di formazione della persona è un divenire che muove da potenzialità e disposizioni interiori del soggetto verso un’attualità che sia essenziale apertura ai valori di verità e di bene, in uno sforzo costante di personale acquisizione e attuazione. La cultura e l’educazione, presentando all’adolescente e al giovane l’umano nei suoi diversi atteggiamenti tipici e fondamentali, lo aiutano a prendere coscienza di sé e a coltivare quei poteri specificamente umani, il cui perfetto esercizio caratterizza appunto l’uomo completo, l’uomo formato. Ma Aristotele non andò fino in fondo ai suoi principi, non trasse da essi quelle verità che implicitamente possedevano, e se ciò vale per la metafisica e la morale, è a fortiori da tener presente quando si cerca di mettere in luce la valenza pedagogica latente del sistema aristotelico.

L’educazione comincia «sin dalla prima età» (Politica, VII, 1333 b) e si estende a tutti gli stadi della vita umana che ha bisogno di direzione. Aristotele dà qualche buon consiglio nella chiusa del settimo libro della Politica sull’allevamento dei bambini (molto latte, pochissimo vino, avvezzarli per tempo e «gradatamente» a tutte le contrarietà dell’ambiente). «I bambini facciano tanto moto quanto occorre per vincere il torpore del corpo; e questo moto si deve procurare anche coi giuochi fanciulleschi, che devono essere decenti, non faticosi né molli». Fino ai sette anni i fanciulli devono essere allevati in casa. Ma prima e dopo i sette anni, nell’educazione familiare e in quella pubblica, bisogna evitare che apprendano sconcezze attraverso racconti e conversazioni, discorsi uditi in casa e fuori. Quando si è in tenera età certe cose si apprendono «con gli orecchi e con gli occhi». L’attore tragico Teodoro non permetteva che sulla scena alcuno degl’infimi attori lo precedesse, perché «gli spettatori si conquistano con le prime audizioni». «Avviene lo stesso con le compagnie degli uomini e con la pratica delle cose; essendo tutti inclinati a compiacersi delle prime impressioni, bisogna estraniare i giovani da ogni spettacolo cattivo, specialmente avente in sé un’intima sostanza di gravità o malignità». Quando l’età e l’educazione avranno reso i giovani «guardinghi dall’ebbrezza e dal danno proveniente da certi spettacoli», allora vi siano ammessi.

Aristotele si chiede se l’educazione dev’essere pubblica o privata, in che cosa consista e come vada impartita. Le risposte esplicite sono nel libro VIII della Politica. Il filosofo di Stagira, critico illuminato ed acuto dell’unitarismo collettivistico di Sparta e della Repubblica platonica, non si lascia dominare dalla polemica e coglie nell’esigenza di un’educazione pubblica il loro contributo essenziale e proprio. L’azione legislativa si deve occupare di educazione, e questa «si deve impartire in comune». «Poiché uno solo è il fine dell’intero consorzio civile, è manifesta la necessità che l’educazione sia una sola e identica per tutti, e che la cura di essa sia affidata allo Stato e non ai privati». L’educazione si rivolge anche alle donne; le donne sono la metà del genere umano e non è indifferente per il fondamento etico dello Stato la loro saggezza e probità. Ma il carattere pubblico e comune dell’educazione non comporta affatto la legittimazione di qualsiasi soluzione esclusivamente statalista. Le simpatie di Aristotele vanno per una struttura pluralistica dello Stato. «Conviene creare con l’educazione – scrive profondamente Aristotele – l’unità e la socievolezza della città, senza pregiudizio della molteplicità dei suoi elementi» (Politica, II, 1263 b).

Un aspetto costitutivo del problema educativo è l’istruzione. Orbene l’insegnamento è possibile in quanto ogni uomo intuisce intellettualmente i primi principi che condizionano l’apprendimento e la dimostrazione. La loro conoscenza non richiede dimostrazioni, ma è fondamento di ogni sapere, di ogni conoscenza e ragionamento. «Noi ragioniamo non partendo da essi, ma in conformità a essi» (Analitici Posteriori, II, 72 a 16-16). Socrate aveva praticato consapevolmente l’induzione e la deduzione, Platone aveva accentuato i procedimenti dell’analisi e della sintesi, Aristotele portò a un grado di rigore e di perfezione ancora insuperato lo studio delle leggi della ragione e dell’arte di applicarle correttamente nel discorso. Se in quest’opera gigantesca Aristotele ha dato maggior rilievo al sillogismo – che è il più tipico dei processi deduttivi, ma non l’unico – non per questo ha misconosciuto il valore dell’induzione «più chiara per noi, più persuasiva, comune ai più; più intellegibile in termini di sensazione» (Topici, I, 12, 105 a). L’induzione è la via regale dell’insegnamento; è un processo non tanto di ragionamento, ma di visione diretta, di percezione mediata psicologicamente da una rassegna di casi particolari. Che siano necessari un solo esempio o pochi o molti, dipende dall’intelligibilità dell’argomento. Tutto ciò è di estremo interesse per l’insegnamento, il quale non deve mai smarrire il primato dell’induzione e insieme la coscienza del carattere complementare dell’induzione e della deduzione. In fondo non c’è comprensione effettiva di una legge generale o di un principio universale che non sia accompagnata da una coscienza percettiva o immaginativa dei particolari che cadono sotto di esso. «Quando si sono persi di vista completamente i particolari, la legge non è più un oggetto di conoscenza genuina, ma è una memoria thecnica che può essere rivivificata, ossia attualizzata, solo mediante un nuovo contatto con i particolari» (William David Ross, Aristotele, Laterza, Bari 1946, p. 256). Contro il logicismo intemperante e la pseudo-scienza in cui sarebbero incappati in futuro i cattivi aristotelici, che si sarebbero a torto appellati alla sua autorità invece di rifarsi al suo esempio, proprio Aristotele ha scritto cose egregie. Così, per esempio, egli aveva ammonito, con caratteristico buon senso, che «non tutti i problemi, né tutte le tesi valgono la pena di essere discusse» (Topici, I, 11); se un effetto è presente in assenza della sua supposta causa, ciò mostra solamente che la causa supposta non è la causa reale (Analitici secondi, II, 17); i principi logici costituiscono le condizioni di ogni dimostrazione e di ogni scienza, ma non ci danno nessuna verità in particolare; la ricerca è impossibile se la verità è ridotta alla reciproca implicazione di proposizioni nessuna delle quali è conosciuta indipendentemente come vera (Analitici secondi, I, 3); «bisogna far credito all’osservazione piuttosto che alle teorie, e alle teorie solo se ciò che esse affermano si accorda con i fatti osservati» (Sulla generazione degli animali, 760 b, 30-33).

Noi veniamo a conoscere cose che nel senso ordinario della parola non conoscevamo prima. Come può accadere, si chiede Aristotele? Vi è passaggio dalla potenza all’atto, ma anche qui si deve precisare «mediante l’azione di qualcosa che è già in atto», perché solo la realtà ontologica di una sorgente costitutiva del pensiero ed essa sola può spiegare l’avanzare del pensiero verso se stesso e verso l’oggetto, nel suo esercizio di funzione, nel quale consiste la sua seconda e più piena attualità. L’anima mostra una varietà di operazioni intermittenti, dietro ciascuna di esse vi è un permanente potere di operare, un primo originario atto d’essere. I diversi modi di operare sono tali per cui l’anima non è tutta in ognuna delle sue operazioni, ma ciascuna di queste ha le qualità del tutto, cioè di quell’essere umano di cui l’anima è la forma sussistente. Le facoltà dell’anima non dividono l’anima in parti qualitativamente differenti, né coesistono come pietre in un mucchio. Questi modi deformanti di concepire le facoltà dell’anima sono esplicitamente criticati da Aristotele, anche se polemicamente saranno da non pochi attribuiti proprio al filosofo di Stagira. Le facoltà si compenetrano reciprocamente e rifluiscono l’una nell’altra. Ma ciò che più conta, dal punto di vista pedagogico, è l’osservazione che il loro ordine di sviluppo è cronologicamente inverso rispetto al loro valore e che i caratteri più generali condivisi con altri esseri precedono e preparano quelli superiori, più specifici e personali. Di qui le particolari caratteristiche e accentuazioni delle diverse età. Approfondire dal punto di vista psicologico ed educativo questa intuizione non fu compito dell’antichità, ma l’intuizione rimane valida ed è teoreticamente idonea a giustificare le future conquiste della psicopedagogia.

Di grande significato pedagogico sono le dottrine sui fini della nostra natura, ossia sul senso della vita, sull’essenza della virtù e sul rapporto tra legalità e moralità, cittadino e Stato, politica ed educazione. Molte cose che facciamo – osserva Aristotele – non hanno il loro scopo in se stesse. Accade, infatti, che facciamo una cosa per ottenerne un’altra, rispetto a cui la prima attività non era che strumentale. Qual è l’attività degna di essere voluta e compiuta unicamente per se stessa? Qual è il bene che deve essere voluto per se stesso, quaggiù nella nostra vita umana, perché in esso e per esso l’uomo dà un perfetto compimento alla sua stessa natura? L’interrogativo aristotelico, con la rassegna dei fini parziali ed eteronomi che l’accompagnano, fa affiorare il carattere di autonomia del bene morale e della persona chiamata a realizzarlo.

Il suo riflesso pedagogico è diretto, poiché «è segno di grande dissennatezza il non indirizzare la vita a un dato fine» (Etica Eudemia, I, 1, 1214 b, 10). Aristotele, dopo aver criticato l’edonismo e l’utilitarismo, fa consistere il bene dell’uomo nella vita secondo virtù e cioè nell’attività perfettiva della parte migliore dell’anima nella sua specifica duplice capacità di conoscenza e di azione morale. Ma la vita più propriamente umana, ammonisce il filosofo, è una conquista, «è una vita di serio sforzo e non di divertimento» (Etica Nicomachea, X, 6, 1177 a). Aristotele riconosce la necessaria relazione dell’eudaimonia, del compimento perfettivo dell’umana natura, con ciò che è superiore all’uomo. A chi obbietta che una vita secondo virtù sarà superiore alla natura dell’uomo, il filosofo non esita a rispondere: «infatti, non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui vi è qualcosa di divino» (Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b). Proporre all’uomo solo ciò che è umano è fargli torto poiché, per la più eccellente parte di se stesso che è l’intelletto, l’uomo è chiamato a qualche cosa di migliore di una vita puramente umana. «Non bisogna seguire – dirà con insolito lirismo Aristotele – quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane ed, essendo mortali, a cose mortali. Al contrario, per quanto è possibile, l’uomo deve immortalarsi e far di tutto per vivere secondo la parte migliore di sé, la quale eccelle di molto su tutte le altre per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, consistendo ciascuno di noi proprio in essa, sarebbe assurdo se l’uomo non scegliesse la vita a lui propria». Qui, come altrove, il platonismo perenne riemerge e si afferma e Aristotele, il critico implacabile delle aporie platoniche, appare per quello che è, il più geniale continuatore del suo maestro, della cui dottrina e della cui autocritica – ampiamente svolta nei dialoghi della vecchiaia – ha assimilato i motivi più profondi. La dottrina dell’Atto Puro illumina l’etica e la paideia, aprendo l’una e l’altra all’orizzonte più vasto, quello additato dalla solenne chiusa dell’Etica Eudemia: «Dio è il fine in vista del quale la saggezza comanda. Perciò quella scelta e possesso di beni che conferirà maggiormente la contemplazione di Dio, sarà migliore, e questo è il miglior criterio di riferimento; invece qualsiasi cosa che, o per difetto o per eccesso, impedisce di servire e contemplare Dio, sarà cattiva».

Di grande rilievo pedagogico è l’analisi aristotelica del mondo morale, come mondo propriamente umano. La razionalità fa dell’uomo un essere capace di progettare, di porsi un piano e di eseguirlo, di agire cioè secondo un’intenzione. Ragione e volontà si implicano a vicenda, senza per questo identificarsi. Il libero arbitrio è riconosciuto pienamente. La bontà morale non è né naturale, né innaturale; la nostra capacità di fare il bene morale deve essere sviluppata dall’esercizio. Si diventa buoni compiendo atti buoni, come impariamo a essere costruttori costruendo. Ci sono atti che concorrono a formare un carattere morale e ci sono atti che ne emanano, che ne fluiscono per così dire; ma un carattere non si forma senza coerenza e continuità nel volere e nel fare ciò che va fatto in rapporto alle circostanze e per un motivo degno, avente cioè un’intrinseca validità. Dire che la virtù è un abito significa pertanto sottolineare che essa è una conquista che va rinnovata con atti di rinnovata fedeltà a qualcosa che è stato scelto per se stesso e non come mezzo in vista di qualche cosa d’altro. La virtù morale è giusto mezzo fra vizi opposti: il coraggio tra la viltà e la temerarietà, la sincerità fra l’ossessiva denigrazione di sé e la vanteria, ecc. Giusto mezzo quindi come equilibrio spirituale, dominio di opposte passioni e sviluppo armonico delle potenze superiori dello spirito: non giusto mezzo di mediocrità, ma giusto mezzo di eminenza, sommità fra due depressioni contrarie. La morale del Bene in sé, come valore assoluto, è anche una morale della felicità per Aristotele, perché la gioia più grande è anche il segno del possesso del bene più grande, ma l’eudemonia aristotelica non ha un significato utilitario.

L’educatore può trarre indicazioni preziose da non poche osservazioni del filosofo. Le tendenze a sentir piacere e pena non vanno soppresse (sarebbe vano pretenderlo), ma modellate nella giusta forma; gli impulsi naturali non sono in se stessi né buoni né cattivi, per cui è inaccettabile sia la condanna globale che ne fa l’ascetismo esasperato che la loro adozione a guida della vita come avviene nelle dottrine naturalistiche. Aristotele ammette che «le attività virtuose sono in genere piacevoli solo in quanto si raggiunge il fine» (Etica Nicomachea, 1117 a, 29 b, 22) e che, pertanto, non c’è armonia prestabilita tra l’attività virtuosa e la felicità che dovrebbe accompagnarla. È tuttavia opportuno che, di norma, l’esercizio del bene sia compreso nel suo valore di arricchimento interiore e che l’attività virtuosa sia intensificata, completata, perfezionata dal sentimento della felicità che dovrebbe accompagnarlo, come naturale ricompensa d’una vita virtuosa, contentezza interiore e senso di espansione della persona. Il piacere non è una condizione preliminare dell’attività buona, ma dal punto di vista educativo non è un male che sia un suo concomitante. Comunque, qualora sia formato, un carattere morale può brillare anche attraverso circostanze avverse (1100 b, 30).

Aristotele ha distinto chiaramente morale e diritto, legge morale e legge giuridica e ha sottolineato con vigore due concetti di grande importanza: 1) la legge avente valore giuridico non può e non deve imporre la moralità (come farebbe a garantire che gli uomini agiscono «per amore di ciò ch’è nobile?»), ma le azioni corrispondenti, conformi a virtù; 2) le leggi hanno un’incidenza notevole, sia negativa che positiva, sul costume di un popolo e dunque sulla formazione dei singoli cittadini. «I molti non sono per natura portati a obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per le punizioni», perché «in generale sembra che la passione non obbedisca alla ragione, ma alla forza» (Etica Nicomachea, 1179 b 4, 8). Di qui la necessità di buone leggi, di leggi veramente giuste le quali concorrono in modo rilevante a creare condizioni più favorevoli e il clima sociale più adatto all’opera educativa propriamente detta. «La legge garantisce i diritti reciproci, ma non è capace di rendere buoni e giusti i cittadini» (Politica, III, 1280 b). All’educazione, come alla politica, in tutte le arti e in ogni ordine di conoscenza è necessario che si abbia chiara coscienza del fine e dei mezzi: quello dev’essere retto, questi idonei. Purtroppo «alcune volte buono è lo scopo, ma non si adoperano i mezzi opportuni per conseguirlo; qualche volta sono efficaci i mezzi per raggiungere lo scopo, ma questo è cattivo: molte volte poi sono cattivi i mezzi ed è cattivo il fine» (Politica, VII, 1331 b).

L’educazione, «la quale si deve impartire ai figlioli senza nessun riguardo alla utilità o alla necessità, ma per la sua intrinseca bellezza spirituale, che la rende degna d’un uomo libero» (Politica, VIII, 3, 1338 a), si articola in quattro «consuete» discipline di insegnamento: le lettere, la ginnastica, la musica, il disegno. L’educazione va distinta in due periodi, a grandi linee: dai sette anni alla pubertà e poi dalla pubertà a ventun anni. In ogni caso il curriculum formale degli studi non dovrebbe cominciare prima dei sette anni; prima il metodo educativo si basa essenzialmente sul gioco e sulle attività di osservazione. Aristotele ricorda però che il gioco, o meglio «il movimento prodotto dei giuochi», se cercato al momento propizio, è un sollievo per l’anima. Il gioco non è il fine della vita, ma il giovane e l’adulto devono assegnare al gioco il compito di interrompere il lavoro, perché lavorare costa comunque fatica e sforzo, anche quando interessa («non si apprende scherzando: senza affanni, infatti, non si impara nulla», Politica, VIII, 1339 a). La grammatica, l’educazione letteraria è utile alla vita e di vasto impiego, rende possibile allargare il raggio di altre cognizioni, alimenta l’altezza d’animo. Qui come per le scienze, un monito non va dimenticato nello studio: si eviti il surmenage, il sovraccarico di lavoro che ottunde l’intelligenza e la confonde, invece di liberarla. Il disegno e la pittura affinano la capacità di cogliere il bello e di esprimerlo. Precise funzioni e limiti altrettanto rigorosi sono assegnati da Aristotele all’educazione fisica. L’atletismo danneggia l’aspetto e lo sviluppo del corpo e, pertanto, va bandito. Le eccessive fatiche rendono i fanciulli «bestiali», non ne accrescono l’umanità e il coraggio. Il coraggio non s’accompagna alla rozzezza selvaggia, ma all’animo forte e mite, pronto ad affrontare un pericolo per motivi generosi e nobili e non in obbedienza a un impulso di aggressività e di ferocia. Gli errori dell’educazione spartana sono evidenti. Né si deve credere di poter affaticare nello stesso tempo l’ingegno e il corpo, poiché «le fatiche della mente e quelle del corpo operano in senso contrario, impedendo quelle lo sviluppo di questo, e questo lo sviluppo di quella» (VIII, 4, 1339 a). Alla musica Aristotele dedica parecchie pagine, lumeggiandone la triplice funzione: ricreativa, in quanto passatempo intellettuale; educativa, in quanto «forza propulsiva verso la virtù» e influenza formativa del carattere; catartica, per il sollievo che reca dopo uno stato di tensione, sempre che si tratti di musica che esprime gradi e qualità di emozioni auspicabili. La Politica termina bruscamente, mentre ancora la discussione pedagogica è in pieno svolgimento.

Malgrado il persistente limite classista, in sintonia del resto con quell’aura di privilegio che circondava un tempo l’educazione, il fondatore del Liceo ci ha lasciato osservazioni profonde sui problemi educativi e spesso propone soluzioni che appaiono le più appropriate. Anche se mutano incessantemente le situazioni storiche e ambientali, Aristotele ha saputo individuare magistralmente, per esempio, nel V libro della Politica, le tensioni proprie di ogni società del benessere, i cui membri siano dominati dalla ricerca frenetica di beni puramente materiali a scapito dell’incremento di conoscenza, di giustizia e di generosità a cui pure gli uomini sono chiamati, così come di ogni regime imperfettamente democratico. Le sue analisi sono così penetranti e i rimedi proposti così validi, oggi come ieri, da superare nettamente, nella logica del discorso, rebus ipsis dictantibus, i pregiudizi sociologici a cui anche il filosofo di Stagira aveva pagato il suo tributo.

L’abbondanza, il benessere, l’avere più del giusto induce all’egoismo, alla violenza, all’ignoranza del bene comune, alla parossistica ipertrofia dell’interesse proprio o della propria parte, calpestando «l’eguaglianza proporzionale nella giustizia» (III, 13, 1283 b) rivolta al vantaggio di tutta la società civile. «La democrazia è fondata sulla qualità del popolo» (VI, 4, 1319 a) e sulla sua educazione politica, «che ora purtroppo si tiene in non cale» (V, 9, 1310 a, 21); «non è facile che duri senza la convergenza dell’azione di buone leggi e di buoni costumi» (VI, 4, 1319 b), senza quel sottile equilibrio tra il controllo sociale o autorità e la libertà o responsabilità di singoli e di gruppi, equilibrio che contraddistingue una società libera10.

  1. Isocrate

Platone, alla fine del Fedro, fa pronunciare a Socrate un giudizio sul giovane Isocrate (436-338 a.C.), già discepolo di Gorgia, e gli fa dire che nella sua natura c’è qualcosa di filosofico. È il giudizio più equo che potesse dare del suo avversario. Platone e Isocrate infatti sono «opposti e collegati». Sono opposti perché il primo propugna l’ideale della cultura filosofica, il secondo la necessità di una cultura superiore che dia rilievo all’elemento retorico e pratico-politico. Filosofia e retorica stanno ancora una volta di fronte e la polemica è dura, ma la concezione che Isocrate ha della retorica presuppone l’opera di riforma morale del socratismo e la vigorosa critica platonica nei confronti della retorica sofistica. Ed in ciò Isocrate ha «qualcosa di filosofico» ed è collegato col suo avversario, il quale, d’altronde, affidava il magistero della sua filosofia anche alla poesia, al mito, al ritmo e all’andamento drammatico del dialogo, al fascino della parola e teorizzava, a esempio nel Fedro, la convergenza tra la dialettica e una superiore retorica nell’arte della persuasione, o psicagogia, che si serve di un «sapere vivo e animato, vario e adeguato» per meglio penetrare nella persuasione degli altri. Isocrate combatte Platone, ma ne subisce l’influenza. Egli non è un eroe del pensiero, ma è stato «il maestro per eccellenza di quella cultura oratoria, di quell’educazione letteraria, che s’imporranno come caratteri dominanti alla tradizione classica, nonostante la tensione dialettica creata, in seno a questa stessa tradizione, dalla critica filosofica» (Henri-Irénée Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 1984, III rist., p. 116).

Il segreto del suo immenso successo va forse cercato nel suo programma di assegnare alla nuova retorica uno scopo eticamente valido e nello stesso tempo suscettibile di applicazione politica, formando uomini che sapessero proporre un ideale di solidarietà panellenica alle masse mal guidate e agli Stati greci, dilaniati da troppe guerre che ormai dovevano essere giudicate come crudeli guerre civili.

Isocrate ha condiviso la critica platonica del formalismo, della indifferenza morale della retorica in senso convenzionale, e pertanto ha ridefinito l’ufficio della retorica11 nella formazione dell’uomo politico, dando alla retorica un’animazione etica. Per lui il compito essenziale della retorica non consiste nella tecnica di manipolare i tribunali e le masse, ma in quell’atto dello spirito, semplicissimo e fondamentale, che ogni uomo tutti i giorni compie in se stesso quando fra sé e sé si consiglia sul suo bene (Nicocle,8). «Il parlare come si deve è il segno più valido del ben pensare» (Antidosis, 274), e l’oratore vero ha affinato in sé, grazie alla cultura e all’esercizio, la capacità di cogliere in ogni situazione la decisione buona e di «tendere all’azione retta e appropriata» (Nicocle, 6). Solo «la parola mossa e riempita dalla ragione» innalza l’uomo sulla bestia (Panegirico, 47). È onore e vanto della Grecia aver fatto coincidere in un unico termine parola e ragione e aver scoperto, per mezzo del Logos, che è la loro forza propria, un principio che anche gli altri uomini debbono accogliere, per la sua validità: l’ideale della cultura, lo sforzo di attingere, in ogni manifestazione spirituale, una norma universale. Perché ciò che fa di un uomo un greco non è la razza, ma lo spirito: «chiamiamo greci coloro che hanno in comune con noi la cultura, piuttosto che coloro che hanno lo stesso sangue» (Panegirico, 50). Isocrate fu scrittore, pubblicista politico, professore d’eloquenza per oltre mezzo secolo (393-338 a.C.). Gracile di costituzione, timoroso del pubblico, con una voce debole, non era per nulla oratore, né mai pronunciò in pubblico le sue orazioni, ma le pubblicò ed esse divennero i testi base su cui si esercitarono i suoi discepoli. La sua scuola, aperta a tutti, a pagamento (mille dracme per tre-quattro anni), era frequentata da cinque a nove alunni e questo rapporto così personale spiega i sentimenti, le amicizie e l’affettuosa devozione che costantemente i discepoli nutrivano per Isocrate. E il maestro a giusto titolo se ne compiace, enumerando a lungo gli uomini eminenti che uscirono dalla sua scuola ed entrarono a far parte della vita stessa della patria12.

La concezione che Isocrate ha della retorica mira giustamente a una sintesi di contenuto e forma. Più degno è l’oggetto a cui si applica il pensiero, più grande è l’efficacia educativa. L’eloquenza non può fare a meno della tecnica, ma non può esaurirsi in essa. Essa ha infatti uno schietto valore estetico ed è l’erede e la continuatrice dell’opera della poesia nella parte che essa aveva sostenuto nella vita della nazione. La poesia, e in genere la letteratura, è chiamata a svolgere un ruolo insopprimibile nella formazione del retore. Essenziali sono l’analisi del discorso nelle sue strutture logiche, grammaticali e stilistiche e l’esercizio di ricomposizione inventiva, in cui le figure e le forme essenziali del discorso sono rapportate a un singolo caso, a una situazione concreta, possibilmente a un fatto d’esperienza. La tecnica retorica insegnata è varia e scaltrita. Accanto alla formazione letteraria e giuridica Isocrate dà un notevole peso alle matematiche e alla conoscenza storica. Se le scienze matematiche sono altamente apprezzate anche dall’Accademia platonica per il loro carattere di ginnastica mentale e di esercizio delle capacità logiche, il rilievo dato all’insegnamento della storia è un’acquisizione nuova e feconda di conseguenze. Per merito di Isocrate, con intuizione felicissima Erodoto e Tucidide sono assunti tra i classici. La storia è il laboratorio, la fonte principale dell’esperienza politica: «studia la storia – raccomanda Isocrate – poiché se porterai in te il passato nel vivo ricordo, meglio giudicherai dell’avvenire» (Isocrate, Nicocle, 35).

Grandi sono le conseguenze di un’esatta soluzione del problema educativo («chi tiene la gioventù, tiene lo Stato» – Antidosis, 174), ma l’azione educativa ha innegabili limiti. Su questi limiti aveva fortemente insistito Socrate, acutamente consapevole delle immense difficoltà, spesso insospettate dalla gente comune, di ogni vera educazione. L’atteggiamento ironico socratico di fronte all’attività educativa dovrebbe renderci più avvertiti sul significato deontologico del suo insegnamento tutto proteso ad affermare l’imperativo di un sapere che fosse sintesi di pensiero e azione, in equazione con il volere e il fare. Si tratta appunto di un ideale normativo, di un dover essere che non autorizza nessuna illusione sulla presunta onnipotenza dell’istruzione e dell’educazione. Anche Isocrate non nutre facili, utopistici entusiasmi. Tre sono i fattori dell’educazione – natura, apprendimento, esercizio – ma il più decisivo rimane la disposizione naturale. Un gran dono di natura senza cultura dà spesso risultati migliori che la sola cultura senza dono, ammesso che una tal cultura si dia e non sia illecito parlare di cultura senza qualcosa che valga la pena di coltivare. Insomma l’educazione in se stessa rimane un mistero. Né si può sottrarla del tutto alla natura, né abbandonarla del tutto a essa. Occorre la compenetrazione dei tre fattori del processo formativo: cosa difficile e complessa, perché tale è appunto l’educazione. Non mancano in Isocrate intuizioni felici, ma la sua vera e duratura importanza consiste nell’aver creato «un tipo e un contenuto d’insegnamento che è rimasto a base, per sempre, della cultura umanistica» (Raffaele Cantarella, La letteratura greca classica, Sansoni-Accademia, Firenze 1967, p. 466).

Isocrate non è certo «il padre dell’umanesimo», come è stato detto con una definizione esagerata e ambiziosa, ma può essere considerato come «padre della tradizione scolastica del classicismo», di una paideia più accessibile di quella platonica e più letteraria di quella aristotelica che aveva un netto indirizzo scientifico. Il mondo ellenistico-romano sarà dominato dalla paideia di Isocrate.

 

NOTE

 

  1. «Il contrasto tra l’educazione antica e la moderna, che rispecchiava un più profondo contrasto tra l’antico e il nuovo, doveva essere tra i temi più consueti della conversazione quotidiana ad Atene. Il contrasto di epoche e anche di generazioni diverse è stato ed è sempre un argomento di discussioni polemiche. I sofisti e i loro seguaci costituivano una minoranza di élite, mentre l’uomo medio nell’Atene del V secolo, li considerava come un gruppo tutt’altro che innocuo di eccentrici e di snobs. In una pagina tucididea (III, 38, 4-7) il politico Cleone evidentemente considera i sofisti alla stregua di retori perdigiorno, capaci soltanto di fare dell’accademia. E non bisogna dimenticare che dietro Cleone c’era Tucidide, per quanto questi non andasse affatto immune da influenze sofistiche. Coloro che attribuiscono a Platone e ad Aristotele la responsabilità di aver deformato polemicamente la figura e il pensiero dei sofisti e quindi di aver gettato il discredito sulla parola «sofista», indubbiamente polisensa, dimenticano spesso opposte testimonianze: sofistés, a esempio, era anche il buffo o l’istrione nelle commedie.In realtà, pur con tutti i caratteri del tempo e con la propria fisionomia speculativa, la sofistica incarnava un atteggiamento spirituale, che non era esclusivo del mondo greco nel secolo V. La raffinatezza della cultura favoriva il sorgere di un sapere brillante, ma privo di profondi significati; la crisi della coscienza morale, religiosa e politica costituiva l’atmosfera storica e spirituale più propizia al successo pratico dei sofisti, e dall’altro canto ne risultava ingrandita e aggravata: l’abito della sottilizzazione corrodeva il costume, senza migliorarlo, demoliva antiche convinzioni senza essere in grado di sostituire a esse altre capaci di strutturare una nuova vita morale e sociale.La verità, l’essere, la natura sono ormai per i sofisti concetti vuoti di ogni significato, temi di esercitazioni brillanti, in cui il paradosso brucia non solo il luogo comune, ma la possibilità costruttiva del pensiero logico.I sofisti, da prudenti intellettuali, si mantennero ai margini delle competizioni politiche, che si agitavano in Atene e in altri centri dell’Ellade; è probabile che la loro vita privata non fosse né migliore, né peggiore, almeno in superficie, di tante altre. Ma il fermento corrosivo dei loro paradossi agiva nelle coscienze e si riversava nella vita privata della jeunesse dorée o se si vuole della gioventù bruciata del tempo, come nella nostra epoca i paradossi di Nietzsche, di Gide o di Sartre, mentre dall’altra parte politici senza scrupoli s’impadronivano delle tesi sofistiche per utilizzarle nel loro gioco, sia che militassero tra i conservatori, sia che si atteggiassero a democratici, sia che aspirassero alla dittatura, sia che lusingassero le aspirazioni imperialistiche del popolo ateniese» (Nicola Petruzzellis, Aristofane e la Sofistica, in «Meditazioni critiche», Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1959, pp. 305-308 passim).
  2. «Un’esistenza cui sia tolto il libero esercizio d’indagine (l’esame del pro e del contro) è un’esistenza che nemmeno vale la pena di essere vissuta», dice Socrate nell’Apologia (38 a).
  3. Assai acuta, anche dal punto di vista psicologico, è l’analisi della comune radice della misantropia e della misologia, avversione e antipatia quella per i propri simili e questa per ogni discussione.«E l’uno e l’altro morbo, misologia e misantropia, sorgono in noi dalla medesima fonte. La misantropia s’infiltra in noi quando, senza pratica della vita, ci si affida a qualcuno; si crede allora che il nostro creduto amico sia persona veramente sincera, perfetta, leale; ma poi, dopo poco, lo si trova perverso e sleale. E questa esperienza si ripete in altri casi ancora. Così quando le delusioni si rinnovano frequenti, e proprio per opera di chi vorremmo amico intimo e fedele, si finisce, dopo tante delusioni, con un odio generale, ritenendo che assolutamente non ci sia in nessuno nulla di buono… E poi è chiaro che senza sufficiente esperienza delle umane cose, costui ha provato a trattare con gli uomini. Infatti, se valendosi d’una certa esperienza, avesse fatto ciò, avrebbe formulato un giudizio conforme alla realtà dei fatti: poche sono le persone veramente buone e così le malvagie; la maggioranza appartiene al grado intermedio» (Fedone, 89 c-90 d).
  4. Socrate è ironico contro ogni pretesa assolutezza della scienza della natura, ma non è affatto uno scettico (o come oggi si dice un «problematicista»). Egli sa dire l’ultima parola in ciò che riguarda il significato dell’esistenza, l’imperatività del dovere morale, il «diventare, quanto più possibile, perfetti in una visione spirituale della vita» (Apologia, 36 c). L’ignoranza socratica sorregge, vivifica e fa camminare il dialogo solo in quanto ha valore di pregiudiziale metodologica, così come l’ironia socratica non ha affatto lo scopo di rendere tutto problematico e di perdersi nel romantico compiacimento della propria assoluta negatività, perché ogni ricerca, anche là, dove lascia ancora il problema aperto o insoluto, acquisisce tuttavia risultati notevoli, sgombra il terreno da opinioni futili e infondate, apre nuove prospettive. L’ignoranza socratica, come s’è detto, proprio quando affronta i problemi più alti dell’esistenza, si accompagna a una lucidissima consapevolezza, che non vien meno in nessun momento. L’umiltà socratica non si arresta a una mera confessione di ignoranza, ma è essa stessa «ironica», perché tende al superamento della presunzione ipercritica e della tradizione per far nascere un frutto di conoscenza reale e ben fondata. Il suo scopo è conoscere e vivere il vero. L’intellettualismo etico, con cui si vuol riassumere in modo unilaterale la complessa dottrina morale di Socrate, attesta l’eminente dignità in essa riconosciuta alla ragione e il bisogno assoluto di fondare il valore morale sulla verità. Gli stessi paradossi in Socrate sono ammonitori e richiamano motivi perennemente validi, pur mancando in lui, come osservò Kierkegaard, «la determinazione dialettica del passaggio dal comprendere al fare». La sua ironia serviva a far avanzare nella coscienza degli interlocutori, sul piano del discorso razionale, la percezione graduale di quei valori supremi, che egli aveva intimamente conosciuto e a lungo contemplato nella loro divina sorgente. Ciò è detto a chiare lettere in quella pagina dell’Apologia in cui Socrate illustra e difende la sua «missione divina». Di qui il carattere antinomico del genio socratico, così ben colto ed espresso da Henri Bergson: «la missione è di ordine religioso e mistico nel senso in cui prendiamo oggi queste parole; il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione» (Le due sorgenti della morale e della religione, Comunità, Milano 1973, p. 53). Werner Jaeger ha scritto del grande ateniese: «chi vive come lui e muore come lui ha in Dio il suo fondamento» (Paideia, II, ed. cit., p. 127). Agostino ed Erasmo da Rotterdam giudicavano allo stesso modo.
  5. La divinità, a cui si rivolge l’anelito del «più religioso degli animali» (Leggi, X, 902 b), non si risolve semplicemente nell’idea dell’ordine universale e di un fine da realizzare nella vita; bensì è la reale esistenza della divinità, operante nel cosmo, che rende possibile quell’ordine e concepibile quel fine delle azioni umane. È il primato del divino sul mondo che garantisce il primato dell’anima sul corpo nella vita morale.Parimenti, in quanto esiste in Dio la misura perfetta di tutte le cose, la vita dell’uomo ha da essere misurata e temperante, quasi riproduzione al microcosmo dell’equilibrio e dell’armonia da Dio impressi nel macrocosmo (Leggi, IV, 716 c); e in quanto «Dio è principio, mezzo e fine di ogni cosa, e tutte le cose circuisce con la bontà della sua natura», è iniquo trarsi fuori, con impeti d’orgoglio dissennato, da questa egemonia, invece di vivere con misura e umiltà (Leggi, IV, 716 a). E appunto dalla convinzione che la provvidenza divina investe tutte le cose, le più piccole come le più grandi, tutte egualmente indispensabili a realizzare la compiutezza del disegno unitario, da questa convinzione nasce la volontà combattiva del giusto che, particella minima del tutto, si sente necessario al valore universale e alleato di Dio nell’asprezza della lotta. L’etica platonica rivela nell’ispirazione religiosa il suo profondo significato, perché chi ignora il governo divino del mondo «non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità» (Leggi, X, 905 c).
  6. Se non ha fondamento sull’affermazione ontologica del Bene, ogni virtù si ridurrebbe a un utilitarismo più o meno raffinato. Non vi è moralità che in rapporto a un Bene sommo. Nel Fedone (69 a-b) è detto con chiarezza inequivocabile che «non è giusto baratto, a proposito delle virtù, quello di barattar piaceri a piaceri, dolori a dolori, paure a paure, i più grossi ai più piccoli, così come se fossero monete; mentre è moneta schietta la scienza, con la quale si ha a vendere e comprare fortezza e temperanza e giustizia, insomma, la virtù, ci sia o no la giunta di piaceri e dolori e altre cotali affezioni». La consapevolezza critica del Valore supremo trasforma il prezzo dei beni nella dignità di un valore intrinseco, perché afferma l’esistenza del Bene in sé e pone ogni atto umano, fuori del gioco del più e del meno, in relazione con un termine assoluto e definitivo
  7. Jacques Maritain ritiene che la concezione platonica debba essere presa in considerazione prima di ogni altra da chi voglia esaminare la questione dei fattori dinamici dell’educazione. «Per Platone tutto l’apprendimento è in colui che apprende, non in colui che insegna. Chi ha letto il Fedone ricorda che secondo Platone la conoscenza preesiste fin dall’origine delle anime umane, che, prima di scendere nel corpo, hanno contemplato le idee eterne; ma quando le anime sono unite a un corpo esse non possono scorgere liberamente quelle verità di cui già possiedono la conoscenza. In tal modo lo studente non potrebbe acquistare la conoscenza dal maestro, non avendo questi un’influenza causale reale e non essendo nel migliore dei casi, che un agente occasionale: l’insegnante non fa che svegliare l’attenzione dello studente verso ciò che egli già conosce in modo che imparare non è altro che ricordare. Ci sono delle grandi verità in queste esagerate vedute di Platone. E non si può che ammirare la nobiltà e la delicatezza del suo metodo socratico d’insegnamento che anche nobilita, e con tanta generosità, colui che è ammaestrato – certo! poiché lo tratta come un angelo, ancora addormentato veramente, ma tuttavia pur sempre un angelo. Queste vedute pedagogiche sono state di nuovo riprese da molti educatori moderni, sebbene in prospettive filosofiche del tutto differenti. In realtà, tuttavia, le cose non sono come le vedeva Platone, che, dopo tutto, quando trattava dell’educazione dal punto di vista politico nelle sue Leggi doveva insistere con sì sorprendente eccesso sull’aspetto autoritario dell’educazione. L’insegnante possiede veramente una conoscenza che l’alunno non ha. Egli comunica realmente la conoscenza a colui che apprende, la cui anima non ha “previamente” contemplato le idee divine, prima di essere unita al corpo» (L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 19618, pp. 46-47).
  8. I risultati positivi a cui giunge il Platone maturo sono enunciati in una mirabile pagina della Repubblica (libro VII, 518-519 b) i cui concetti possono essere così riassunti: a) hanno torto coloro i quali sostengono che l’educazione abbia il potere d’infondere la scienza nell’anima che ne sia priva: hanno torto come chi pretendesse di dare la vita ai ciechi; b) tutti hanno innata e perenne la capacità di vedere il bene, ma non tutti lo vedono, perché il loro sguardo è rivolto altrove ed intento a oggetti di passione; c) come l’occhio del corpo non può essere distolto dalle tenebre e guidato verso la luce, se tutta la persona non opera una diversione verso la luce, così l’occhio dell’anima non guarda il Bene, se l’anima tutta non si rivolge a questo, educando con l’esercizio le capacità inferiori.
  9. Qualcuno ha scritto che «è davvero strano che un filosofo come Platone, che lega strettamente il mito alla filosofia, pronunci in sede pedagogica una così perentoria condanna dei miti». In realtà il punto di vista di Platone è assai più profondo e ricco di sfumature. Per Platone i miti del politeismo antropomorfico sono falsi e diseducativi non perché miti, cioè racconti, narrazioni che nascono dalla fantasia, non perché privi di realtà storica, ma perché moralmente e metafisicamente aberranti, incoerenti, illogici, assurdi. Un mito può benissimo rappresentare qualcosa che non è mai accaduto e la sua «falsità nel discorso» è ammissibile e anzi utile soprattutto se serve a esprimere artisticamente un elemento di verità, e ancor più le verità più alte nelle forme più appropriate o meno inadeguate. Platone non ignora il valore della fantasia e del sentimento, non è tentato di dare ai fanciulli un’educazione precocemente razionale, disprezza il precocismo adultistico.
  10. «Le seduzioni della pace e della prosperità possono essere vinte solo costituendo un appropriato sistema di valori basato sull’esame critico di concetti come “libertà” e “ozio” su cui la gente spesso si arrotonda la bocca senza averne per niente chiaro il significato. Aristotele consiglia agli educatori di adattare il loro metodo pedagogico-morale ai fatti della crescita e dello sviluppo umano. La rapida crescita fisica è un tratto caratteristico dei primi anni di vita, mentre l’adolescenza segna un progresso nella capacità di concepire pensieri astratti; è chiaro quindi che anche se l’educazione del cittadino libero deve cominciare presto a instillare buone abitudini, non può però fermarsi lì. Dal momento che l’attività razionale è il culmine dello sviluppo umano, il discente deve anche essere stimolato ad applicare la sua intelligenza critica a quei principi di condotta che nei suoi primi anni di vita ha accettato senza far domande, prestando acritica fiducia a genitori ed insegnanti» (George Howie, Aristotele, sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 194).
  11. «L’uso cattivo della formazione retorica non è buona ragione per screditarla, a quel modo che ricchezza, forza, coraggio guerriero non perdono il loro valore per l’abuso che ogni giorno se ne fa. Niente è più stolto che trasferire a carico delle cose la malvagità degli uomini. Ciò porterebbe solo alle conseguenze di buttar via indistintamente come zavorra ogni cultura superiore. Gli uomini che ciò fanno non si accorgono di derubare la natura umana di quella forza che è causa dei beni supremi della vita» (Isocrate, Nicocle, 3-5).
  12. Nell’A Nicocle Isocrate fa pronunziare al giovane principe un’orazione ai sudditi contenente i principi fondamentali del suo programma di governo. Il discorso A Nicocle ci riporta alla fonte di questa sapienza politica, poiché qui è il maestro stesso che si rivolge allo scolaro che, asceso di fresco al trono, rimane tuttavia scolaro e tale seguita manifestamente a sentirsi. Isocrate si fa qui legislatore ideale, e questa posizione è espressamente riconosciuta nell’atteggiamento del giovane re di fronte al suo maestro. Così la tirannide, che per i Greci rappresentava la forma tipica dell’arbitrio, viene inserita in un ordine di valori e, pertanto, legalizzata, in quanto la si connette con la volontà del principe di reggere il suo popolo secondo una salda legge e in conformità di una norma superiore. «Gli scritti ciprioti mostrano con più chiarezza il punto di applicazione della paideia di Isocrate al reale. A prima vista sembra difficile capire, come, in un mondo per lo più democratico come la Grecia del IV secolo, una scuola di teoria politica remota dal travaglio dell’azione possa raggiungere una qualunque efficacia. Ma ecco che a questo punto ci si apre improvvisamente lo sguardo su un problema che, in quelle particolari circostanze, doveva essere d’importanza suprema: la possibilità dell’efficacia della cultura sullo Stato attraverso l’educazione dei reggitori. Un problema che s’incontra, nella letteratura del IV secolo, contemporaneamente in scrittori e pensatori della più diversa tempra spirituale: in Platone, in tutta la sua filosofia come nel tentativo pratico d’influire sul tiranno Dionisio, descritto poi nella Lettera VII come la tragedia della paideia; in Isocrate, negli scritti per Nicocle, nel messaggio a Dionisio di Siracusa, nell’Archidamo, nel Filippo e soprattutto nei suoi rapporti con il suo scolaro Timoteo; in Senofonte, nel grande romanzo pedagogico della Ciropedia; in Aristotele, nell’amicizia che egli ebbe con Ermia tiranno di Atarneo e, soprattutto, nel vincolo di educatore che lo legò al futuro reggitore del mondo, Alessandro. E son questi solo gli esempi più noti, che si potrebbero moltiplicare» (Werner Jaeger, Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1959, vol. II, p. 144-145).

Nota finale. I materiali riportati provengono dalle bozze di una storia del pensiero pedagogico battuta a macchina e divisa in capitoletti, che si interrompe al capitolo X: «Il realismo pedagogico dell’età moderna». I testi sono stati scritti dal prof. Matteo Perrini in data non precisata, probabilmente negli anni Ottanta del Novecento. Il capitolo qui riportato è il secondo. Il curatore Filippo Perrini è intervenuto in minima parte, modificando frasi con terminologie desuete e verificando, per quanto possibile, le citazioni. Un ringraziamento va al prof. Gian Enrico Manzoni che ha rivisto la traduzione di alcune citazioni in latino.