Identità e futuro dei cristiani in Medio Oriente

Autori: Twal Fouad

Ringrazio di cuore gli organizzatori di questo incontro, in modo particolare la Professoressa Paola Paganuzzi, Presidente della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
“Come pastori, esortiamo i fedeli nelle nostre Nazioni a ricordare la Chiesa in Terra Santa nella preghiera, a venire qui in pellegrinaggio, a sostenere generosamente le istituzioni locali della Chiesa e a promuovere iniziative per portare pace e giustizia a tutti ipopoli di Terra Santa”.

È quanto hanno scritto, in un documento, i vescovi europei ed americani del Coordinamento delle Conferenze Episcopali a sostegno della Chiesa in Terra Santa. È il messaggio che, proprio in questo mese, ha concluso, in Gerusalemme, l’annuale viaggio organizzato dal Coordinamento nei luoghi cari alla cristianità.

Condizioni di vita e prospettive verso il futuro

Siamo una minoranza: in Israele, in Palestina e in Giordania.
1) Gli arabi cristiani che vivono in Israele sono esenti dal servizio militare. Una situazione che, di fatto, li esclude automaticamente dall’accesso a molti posti di lavoro. Nelle richieste agli uffici di collocamento, infatti, coloro che svolgono il servizio militare hanno la precedenza. Altri problemi, poi, riguardano i corsi di studio. Proseguire gli studi all’università non è sempre facile, i posti disponibili sono limitati. Anche in questo caso, facilmente, gli arabi cristiani sono esclusi. La precedenza è riservata ai musulmani e a coloro che svolgono il servizio militare. Sono tutte situazioni che creano disagio e malcontento, così, per molti, l’unico futuro plausibile è l’emigrazione.
2) Peggiore risulta la situazione degli arabi cristiani che vivono in Palestina, in una condizione di estrema precarietà sociale e politica. Sotto continua pressione della forza militare Israeliana e della presenza maggioritaria degli islamici.
3) I cristiani arabi in Giordania sono i più fortunati. C’è stabilità politica e una rilevante presenza cristiana nel tessuto sociale. Stabilità politica significa anche concrete possibilità di sviluppo economico e personale.

I motivi dell’emigrazione

Le tendenze migratorie degli arabi cristiani dalla Palestina hanno caratteri, storicamente, di notevole influsso.
1) Il clima politico. Attualmente, il disagio che provoca il flusso migratorio degli arabo-cristiani, nello specifico, è aggravato da alcuni fattori, diversi dalle motivazioni più tipiche che hanno spinto le generazioni del passato a emigrare verso terre di maggiore opportunità lavorativa e benessere sociale. Tali motivazioni specifiche sono di fatto riconducibili al conflitto arabo-israeliano e al permanente squilibrio da esso generato. La guerra arabo-israeliana del ’48 provocò l’esodo di 50/60 mila palestinesi cristiani entro i 726 mila palestinesi sfollati. Nel 1948, a Gerusalemme, la popolazione cristiana era di 31.300 individui; oggi se ne contano 10.000, circondati da 245.000 musulmani e da 450.000 ebrei israeliani.
2) Il fenomeno migratorio è reso ancora più evidente dalle condizioni economiche dominanti nell’insieme della regione medio-orientale. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo l’emigrazione era direttamente relativa all’aumento generale della popolazione e conseguente all’incapacità dell’economia locale di sostenere la pressione demografica. Attualmente, in Israele, l’interazione tra condizioni economico-sociali e livelli demografici è ricondotta ai rapporti di forza esistenti a livello politico e militare. Si tratta ormai di uno scontro endemico.
Nell’area, il tasso d’incremento demografico è molto alto, fortemente condizionato da spinte politiche e ideologiche. L’immigrazione ebraica mondiale, incentivata dai governi israeliani e, prima del ’48, dal movimento sionista, ha come contraltare la forte natalità nella popolazione araba, certamente rapportabile alle precarie condizioni di vita, ma pure caratterizzata da un’indubbia componente nazionalista e religiosa.
Da questa tensione demografica sono esclusi gli arabo-cristiani, il cui legame di appartenenza alla terra è meno esasperato. L’emorragia dei cristiani palestinesi non è così imponente come in Iraq, ma la percezione di costituire una minoranza sempre più esigua si avverte, con evidenza. Dal costituire il 10% della popolazione araba (mezzo secolo fa), si è ora passati velocemente a quote inferiori al 2%: 50 mila arabi cristiani in Palestina e poco più di 120 mila in Israele. L’intera popolazione arabo-cristiana, suddivisa in diversi riti, non arriva dunque alle 200 mila unità. L’esito è quello di essere esposti in continuazione agli svantaggi di uno status doppiamente minoritario: arabi nei confronti dei cittadini israeliani, cristiani rispetto a musulmani ed ebrei.
Gli arabo-cristiani, concentrati soprattutto nei territori della Cisgiordania, sono dunque doppiamente in difficoltà, e subiscono simultaneamente la pressione del fondamentalismo islamico e dell’isolamento imposto da Israele.
3) Il differente stile di vita e l’alto livello d’istruzione, che caratterizzano gli arabi cristiani, sono divenuti, in un contesto d’instabilità politica e di recessione economica, una causa supplementare d’emigrazione. In effetti, le possibilità lavorative permesse da un titolo di studio e l’aspirazione ad un più elevato tenore di vita, sono elementi incompatibili con la situazione generata da un conflitto armato che si protrae nel tempo, senza un traguardo annunciato. Credo, inoltre, che i nostri cristiani siano troppo abituati a fruire di certe comodità. Di fronte alle difficoltà attuali, essi ricorrono con sempre maggiore frequenza alla soluzione più semplice e immediata: l’emigrazione.
Riscontrando il numero sempre più ridotto di cristiani a Gerusalemme, a causa del peggioramento della situazione, il Signor Motti Levi, Consigliere del Sindaco per gli affari degli Arabi cristiani, ha proposto di incoraggiare e favorire il ricongiungimento familiare. Si tratterebbe di permettere l’accesso a Gerusalemme da parte di quanti vivono nei territori occupati ed hanno dei familiari residenti nella città (Jemsalem Post-16 maggio 2007), ovviando alla preclusione imposta dal muro di separazione. Si tratta, tuttavia, di una misura che avrebbe ripercussioni negative per la comunità cristiana, spingendo ulteriormente verso l’alto il livello di esasperazione della maggioranza islamica.
4) L’assenza di prospettive di miglioramento generale. È un ulteriore elemento che favorisce la crescita del fenomeno migratorio da parte di arabi cristiani. Su questa porzione del popolo, infatti, agisce più efficacemente la combinazione congiunta del disagio economico-sociale e delle calamità specifiche. Lo stato di tensione politica genera precarietà nella sicurezza, mancanza di prospettive per i processi di pace, discriminazioni nei percorsi scolastici e difficoltà di trovare lavoro. Gli arabi cristiani sono ormai stanchi di ascoltare discorsi, di presenziare alle visite dei dirigenti politici, stanchi di ricevere aiuti umanitari per sopravvivere. Avvertono il bisogno vitale di una prospettiva politica, di un “timing” che scandisca la fine dell’occupazione militare e il ristabilimento di un stato palestinese sovrano. Esausti per lo stillicidio delle umiliazioni continue, nella disperazione di chi si sente prigioniero all’interno delle proprie città; senza poter uscire per visitare i familiari, accedere a strutture sanitarie o semplicemente raggiungere i luoghi santi per pregare. Sono molti i giovani cristiani palestinesi che da anni non hanno più rivisto il Santo Sepolcro. Guardano con nostalgia, gli occhi velati dalle lacrime, i loro terreni, prima coltivati, che si trovano lungo il muro di separazione, dall’altra parte, irraggiungibili e in stato di abbandono.
5) Oltre l’insopportabile ed arrogante occupazione israeliana, va considerata la situazione di caos e anarchia dei territori palestinesi. L’assenza di un governo stabile e forte, favorisce il disordine sociale e alimenta la tentazione di lasciare il proprio paese, verso un’altra patria, con maggiori garanzie, una riconosciuta dignità e una serenità possibile.
6) Altra motivazione ricorrente, tipica questa di ogni movimento migratorio, è quella che tende a stabilizzare l’intero nucleo parentale. L’aspirazione al ricongiungimento familiare nel paese di arrivo è fenomeno diffuso nella middle-class palestinese cristiana. Alcuni parenti sono già in diaspora e costituiscono un approdo possibile e sicuro, lontano dalle incertezze della terra d’origine. Tra i cristiani della regione di Betlemme e di Gerusalemme, i più inclini all’esodo sono gli armeni, i siriani e i greco-ortodossi. Il 40% dei membri di queste comunità hanno già dei parenti all’estero. In tale fenomeno, è quasi assente l’immigrazione di ritorno: una volta partiti, se va bene, non solo non si ritorna più, ma si favorisce l’arrivo nella nuova patria dei familiari, del proprio mondo di affetti.
Davanti alla rilevanza quasi incontrollabile di questi fenomeni, la politica dello Stato di Israele resta votata esclusivamente alla sua sicurezza. Un popolo che vive nella paura del passato, del presente e del futuro, ha fatto della sicurezza una legge assoluta. Ogni restrizione, ogni violazione, è tollerata in nome delle garanzie di sicurezza. Nessuno, dall’esterno, anche dai paesi amici, osa dire cosa sia conveniente e cosa non lo sia. Auguriamo pace e preghiamo per la sicurezza di questo popolo, ma è impensabile di poter continuare a “gestire il conflitto” senza muovere nessun passo verso la sua estinzione. Una soluzione della crisi gioverebbe di certo non solo ai due popoli in conflitto, ma anche a tutti i paesi vicini e a tutto il Medio Oriente.
I mezzi di comunicazione ci inondano, ogni giorno, di notizie di attacchi terroristici e rappresaglie, frutto del clima di assurda violenza che ha preso piede in Terra Santa. L’israeliano vede nel palestinese un nemico che lo vuole sopprimere; a sua volta il palestinese vede nell’israeliano uno che non solo lo odia ma che ha anche usurpato la sua terra. Riconosce il prepotente “ultimo arrivato” che gli ha con forza sottratto la patria e la libertà. Da qui le sofferenze della gente: la fame, le distruzioni, le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo. Questo vale naturalmente per entrambi i popoli, anche se, per l’attuale disparità delle forze, le conseguenze peggiori raggiungono i palestinesi. Tutti i tentativi di mediazione fatti finora, tanto dal mondo politico internazionale quanto dai capi religiosi, sono comunque praticamente falliti.
La visione cristiana dell’uomo, che è universale ed egualitaria (siamo tutti uguali perché figli del medesimo Padre e perché il Cristo è venuto ed è morto per tutti), farebbe certo un gran bene alla causa della pace. Alla sua luce si comprenderebbe meglio l’importanza del rispetto per ogni persona umana e per la vita, vincendo la tentazione ad escludere 1’«altro». Purtroppo l’aspetto spirituale e la dimensione religiosa entrano raramente nella ricerca di una soluzione pacifica del conflitto che, ormai da troppi anni, si vive nei luoghi santi. Non ci rende conto del fatto che in Oriente la religione resta un fattore estremamente importante. Siamo – è vero – di fronte a un conflitto politico, ma non dobbiamo neppure dimenticare che questo conflitto è “impastato” di religione e che questa terra, tanto contesa, è essenzialmente una «terra promessa». Il potere qui, più che altrove, è fondato sul possesso della terra o di quanto vi è costruito sopra. Ecco perché ebrei e musulmani fanno a gara a chi acquista più case e abitazioni in Gerusalemme, pagandole anche fino a quattro volte il valore effettivo. È una competizione non solo di carattere politico ma anche religioso. Gli edifici che ogni comunità possiede a Gerusalemme avranno un peso enorme nella futura .discussione sullo status politico e religioso della Città Santa. Non tenere conto degli esiti di questa comprensione, determina che la quota maggiore degli aiuti forniti dall’Occidente vadano a finire ai musulmani, che sono la maggioranza e detengono il potere. Anche in questo caso ai cristiani arrivano soltanto le briciole. Si può quindi dire che i governi dei paesi occidentali – i quali non possono negare le loro profonde radici cristiane – stanno di fatto aiutando i musulmani a rafforzarsi ulteriormente, a tutto svantaggio della minoranza cristiana. Una spinta in più che va a cancellare spazi per il futuro, indirizzando verso l’inesorabile via dell’emigrazione. Tutto questo non accade per le altre due comunità religiose: gli aiuti a Israele da parte degli ebrei di tutto il mondo, e in particolare di quelli nordamericani, sono evidenti a tutti. Ugualmente rilevanti e noti sono i capitali che, tanto i governi dei Paesi islamici quanto una miriade di società di beneficenza, fanno giungere ai propri correligionari islamici. Solo i cristiani restano praticamente abbandonati al loro destino. Ben pochi si preoccupano di loro, almeno a livello ufficiale. A volte è proprio il caso di ripetere con il Vangelo: «Vi dico che, se questi [i discepoli] taceranno, grideranno le pietre» (Le 19,40). È giunto, infatti, il momento in cui non si può più restare zitti, dopo sarà troppo tardi.
Consideriamo pertanto come l’emigrazione si presenti come una scelta possibile per numerosi cristiani. Un traguardo che diventa ambito soprattutto per coloro che cercano una qualità di vita e intendono progredire negli studi e nelle specializzazioni professionali. Un’inchiesta condotta a Gerusalemme oltre una decina di anni fa, rivelò che la percentuale di coloro che avevano intenzione di emigrare era doppia, presso i cristiani, rispetto al resto della popolazione.

Un freno all’emigrazione e una sicurezza per il futuro

A livello locale. Il 16° Congresso dei Patriarchi cattolici orientali ha recentemente sottolineato (ottobre 2006) le conseguenze di questa demoralizzazione delle comunità arabo-cristiane e, di contro, l’importanza di mantenere la propria identità: «La presenza senza il senso della missione invita ad abbandonare il paese. La presa di coscienza della missione che hanno i cristiani, nei confronti della loro società, è il fattore più importante che li incoraggerà a restare nei loro paesi, a far fronte a tutte le difficoltà e a partecipare agli sforzi comuni per salvare i loro paesi e fondarvi delle democrazie reali, radicati in tradizioni proprie alle società arabe cristiane e mussulmane». L’assottigliarsi della presenza cristiana in Terra Santa, ha dunque conseguenze di grande rilievo, a livello sia dell’apporto culturale sia della convivenza civile. Ricercando dei rimedi occorre innanzitutto investire su una più matura coscienza personale e collettiva.
Vi è prima di tutto un lavoro intellettuale di coscientizzazione e di senso di appartenenza alla terra, che dobbiamo far nascere nei cuori dei nostri fedeli, basandoci sulla nostra identità di cristiani arabi. È necessario far comprendere che la vita in questa terra, dove ci sono i Luoghi Santi, non è un caso, ma una vocazione. Occorre far capire che questa terra, senza la presenza dei giovani, diventa un museo, ricco di storia e privo di vita. Ciò che alimenta l’esistenza autentica dei Luoghi Santi è la presenza della comunità cristiana, con le proprie istituzioni.
Va restituita loro la certezza di non essere semplicemente una minoranza, ma una parte importante ed integrante della Chiesa cattolica universale. Non sono dimenticati perché tutti i Cristiani e tutti i cattolici nel mondo, a cominciare dal S. Padre, pensano a loro e si interessano della loro sorte. Il desiderio, da parte di questa Cooperativa, di rendersi consapevoli del “futuro” dei cristiani di Terra Santa, è una prova in più dell’interessamento e della buona volontà di fare il possibile, di restituire loro la dovuta importanza, affidando il giusto ruolo da svolgere per l’equilibrio delle forze nel Medio Oriente. Sono in molti ad assicurare la propria solidarietà, non è dunque il caso di sentirsi dimenticati oppure abbandonati.
È inoltre da favorire la coscienza della propria vocazione unificante, come ponte tra l’oriente e l’occidente. È proprio del ponte essere ancorati solidamente, su entrambi i lati. In effetti, gli arabi cristiani sono ancorati nell’Oriente che è il loro contesto storico, culturale, linguistico, letterario, psicologico e politico. Sono, non di meno, ancorati anche nell’occidente: per la loro fede, il loro patrimonio spirituale e la loro apertura intellettuale. I cristiani di Terra santa e gli altri arabi cristiani, sono in genere gli unici ad avere i caratteri necessari per costituire un valido ponte sociale e culturale tra oriente e occidente, ed è nell’interesse del bene comune che vanno sostenuti ed aiutati.
Queste attenzioni sociali e culturali possono permettere il superamento di un radicato complesso di inferiorità, proprio delle, minoranze. Il numero ridotto tende per inerzia a ridurre anche la percezione del valore, lo spirito di fedeltà ed il senso di una vita responsabile.
Da queste considerazioni, sento di dover mettere in luce l’importanza da attribuire alla cultura e all’educazione dei Cristiani all’interno del mondo arabo. Solamente con una nostra ottima prestazione formativa, possiamo assicurare una presenza efficace nella società. Solamente con la vostra solidarietà possiamo raggiungere questo alto livello di cultura e perseguire questo scopo nobile di rinnovamento del tessuto sociale.

Il ruolo degli altri nel porre un freno all’esodo dei cristiani

I cristiani d’Occidente, che spesso non conoscono le reali implicazioni del conflitto arabo-israeliano, dovrebbero prendere coscienza della vitale importanza della presenza dei cristiani orientali nella Terra Santa. A loro appartiene la possibilità di moderare e mediare due mondi all’apparenza inconciliabili. Favorire la permanenza delle popolazioni arabo-cristiane nella loro terra di origine, rappresenta la naturale contromisura, alla radicalizzazione dei conflitti. Per questo occorre che esse vengano aiutate a rimanere nella patria di origine ed affermare la propria identità, con fedeltà alle tradizioni della fede. Essi possono costituire, con la loro presenza, quel ponte di dialogo e di riconciliazione, così indispensabile a garantire la stabilizzazione della regione mediorientale.
Tutte le iniziative di sostegno alle popolazioni cristiane in Palestina sono ben accette e vanno favorite. Loro principale ricaduta è infatti quella di arginare l’emorragia dei cristiani dai Luoghi Santi.

Più concretamente, i campi d’intervento sono:
1) l’educazione e la formazione: il sostegno alle scuole e alle università già presenti, in gran parte gestite dal Patriarcato latino di Gerusalemme e dalla Custodia di Terra Santa. Si potrebbe dare maggior incremento ad un aiuto mirato alle famiglie, attraverso adozioni a distanza o borse di studio per singoli studenti;
2) le opere sanitarie e sociali, gestite in gran parte da ordini religiosi e istituzioni caritatevoli internazionali: esse garantiscono l’unica assistenza sanitaria qualificata in un contesto (quello dei territori occupati) dissestato e sprovvisto di mezzi e strutture adeguate;
3) anche favorire i pellegrinaggi è un aiuto concreto e molto importante, alla portata di tutti. L’accoglienza e il supporto ai pellegrini, per molti cristiani palestinesi, è fonte di sussistenza economica, oltre che occasione di testimonianza cristiana. Un flusso continuo di pellegrinaggi contribuirebbe certo a esaltare il valore universale di questi luoghi e a consolidare la comunione ecclesiale (spesso, infatti, dall’opinione pubblica mondiale queste terre sono considerate, quasi esclusivamente, come luogo instabile di conflitti nazionali).
4) Ultimo, ma non meno importante, è l’aiuto che tutti i cristiani possono dare con la preghiera, per implorare al Signore che illumini i responsabili politici e sostenga gli sforzi diplomatici, per il raggiungimento di un clima di pace e di ragionevole convivenza. È un dono veramente prezioso, soprattutto in questo momento delicato in cui, sembra, che le vie del dialogo abbiano ceduto il posto all’esasperazione e alla vendetta.

Conclusione

La fede, per la Chiesa che è in Terra Santa, resta il solido fondamento per alimentare la speranza. Un giorno, la Giustizia e la Pace, ne affermeranno il compimento, sigillandone l’esito ultimo.
Crediamo che un giorno, i capi delle nazioni arriveranno a comprendere, al di là del gioco degli interessi e delle ambizioni personali e nazionali, quale sia il senso, la natura e la vocazione di questa Terra benedetta. Luogo scelto per celebrare l’unione di Dio con gli uomini e la comunione fraterna tra di essi.
Grazie per il vostro ascolto.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.1.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.