Il cardinale Etchegaray, basco testardo al servizio della pace

A novembre, lo scorso anno, nella terra di San Francesco ci fu l’incontro mondiale di preghiera per la pace, con la partecipazione dei capi delle diverse religioni. Colui che ideò e che più di ogni altro si adoperò per organizzare quella eccezionale giornata fu Roger Etchegaray e si pensò subito di invitarlo a Brescia per il Colloquio Internazionale sui problemi della pace, dei diritti dell’uomo, dello sviluppo dei popoli. Le notizie raccolte su di lui attestavano, pur nella loro estrema sobrietà, quanto grande fosse la stima di cui aveva ben presto goduto il figlio del meccanico di Espelette, il piccolo centro situato nel cuor dei Paesi Baschi di lingua francese.
Nato il 25 settembre del 1922, sacerdote nel ’47, è licenziato in teologia. Esercitò il suo primo ministero sacerdotale nella diocesi nativa.
Dal ’66 al ’70 segretario della Conferenza Episcopale francese, fu nominato vescovo di Marsiglia nel ’70. Dal ’71 presidente delle Conferenze Episcopale d’Europa e dal ’75 della Conferenza Episcopale di Francia. Nel 1979 fu creato cardinale da papa Giovanni Paolo II, che lo ha chiamato nel 1984 a presiedere la commissione “Iustitia et Pax”. La nota dell’ufficio stampa del Vaticano non nomina le iniziative, numerose e sempre finalizzate a superare barriere e pregiudizi, di cui Roger Etchegaray è stato l’instancabile artefice, il tenace tessitore; né dice come in lui convivano, in felice simbiosi, la franchezza, la testardaggine basca e l’esprit de finesse, la profondità della cultura, l’attenzione commossa per chi soffre. Colui che ha aperto un orizzonte nuovo con l’incontro di Assisi, è convinto nell’intimo che “la presenza del cristiano dev’essere tanto più inventiva quanto più il mondo è inquieto nel suo avvenire” e che “una Chiesa che non avesse nulla da dire al di là di ciò che l’uomo può apprendere da se stesso, non avrebbe più niente da dire a questo stesso uomo”. E non si può dargli torto.
Tuttavia Roger Etchegaray, a chi non ha la fortuna di conoscerlo di persona, si rivela nella sua straordinaria umanità anche attraverso le pagine di un libro insolito e coraggioso anche nel titolo: Tiro avanti come un asino, tradotto di recente dalle Edizioni Paoline. Il volume raccoglie i “biglietti”, come li chiama il loro autore, scritti ogni settimana e indirizzati ai suoi marsigliesi, “cittadini ai quali non basta una buona metropolitana per comunicare tra loro”.
Quei biglietti nutrono il cuore, perché in essi tutto è stato meditato, scarnificato e chi li scriveva si sentiva impegnato in prima persona. Bisogna leggerli uno o due per volta. Ma non è certo una medicina sgradevole, anzi! La preparazione culturale e teologica dell’autore è accuratamente nascosta, ma zampilla da ogni frase, con naturalezza, senza far mai ricorso a quella specie di gergo che s’è venuto formando dopo il concilio. No, questo benedetto vescovo dei marsigliesi ha preso gusto “ad attingere dall’orto di tutti i giorni” e sa usare la forza evocatrice dell’immagine con un linguaggio che è poetico e che, proprio per questo, è in grado più di ogni altro, di dare pienezza a una pienezza e di far assaporare la bellezza del Cristianesimo.
Un libro vivo e pensato come questo è anche un pezzo di storia del nostro tempo, una vicenda che si snoda tra il ’77 e l’84, l’anno in cui il papa gli mise sulle spalle la zaino di Justitia et Pax, sollecitandolo a meglio decifrare il messaggio di fraternità universale dal Vangelo nelle situazioni e nelle esigenze dell’oggi. Le pagine sul problema della pace sono particolarmente incisive, così come quelle sul “caso Galilei” (“Dopo l’appello lanciato in pieno concilio da un vescovo francese, ecco che la revisione del suo processo viene richiesta dallo stesso Giovanni Paolo II. Me ne ricordo: era il 10 Novembre 1979….”), o sul leader religioso russo Dimitri Dudko, una della più illustri vittime del regime sovietico costretto il 20 Giugno 1980 ad adottare il linguaggio dei suoi persecutori alla televisione moscovita. E così tante altre.
Quando Etchegaray nel ’75 fu eletto presidente della Conferenza Episcopale francese, il fratello prete, ormai vicino a morire gli scrisse: “Spero che non avrai paura a comprometterti nel nome del Vangelo. Costi quello che costi. La Chiesa deve annunciare Gesù Cristo al mondo di oggi senza mezzi termini, senza artificio, come serva povera e non come potente.” Non poteva giungere a Roger Etchegary augurio più bello.
Un’ultima nota: che cosa vuol dire quel titolo, così poco cardinalizio, Tiro avanti come un asino? Ho preso tra le mani un’opera preziosa da ogni punto di vista, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, di Daniel Rops e ho cercato sul finire del primo capitolo quanto si dice dell’asino. “L’asino era inseparabile dalla vita palestinese. Lo si vedeva dappertutto. Non c’era famiglia, sia pur povera, che non possedesse almeno uno di quei buoni servitori dalle orecchie lunghe… Non era l’asino delle nostre regioni, e ancor meno il somarello scalcinato e commovente del Magreb, ma il mascate, grande e forte, che fa gagliardamente i suoi quaranta chilometri al giorno. E’ il bell’animale sul quale Cristo fa nobilmente il suo bell’ingresso a Gerusalemme.” Nella prefazione al suo volumetto, con un pizzico di auto-ironia, Etchegaray ha ricordato che l’asino palestinese sopporta la fatica e il caldo, ha un’andatura sicura, è testardo e il suo mantenimento è poco costoso.
“Non so un granché – scrive il cardinale Etchegaray – ma so di portare Cristo sul mio dorso e ne sono più fiero che d’essere basco.

Giornale di Brescia, 23.9.1987. Articolo scritto in occasione dell’ incontro con il card. Etchegaray sul tema: “Chiesa, che cosa dici della pace? Chiesa, che cosa fai per la pace?”.