Il comandamento nuovo

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Dalla novità della fede in un Dio-Amore sgorga la necessità di una vita interamente nuova nell’amore. “Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri…Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Giov. 4, 11-16). vogliamo riamare Dio, essere in lui? Dobbiamo amarci reciprocamente e accoglierci gli uni gli altri.
“Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (Giov. 4, 20-21).
vi ho lavato i piedi – aveva detto Gesù, lavateveli a vicenda! Amatevi reciprocamente così come io ho amato voi! “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (Giov. 15, 12).
In ogni circostanza, ad ogni livello, la cosa più importante, anzi l’unica che conti veramente, è l’amore. Solo amando potrai agire bene, in modo creativo e liberamente. Senza amore la vita umana non potrebbe proseguire; non ti resterebbe che la vita vegetativa. L’amore rende autentiche tutte le virtù. Senza amore queste finirebbero di essere tali e diventerebbero vizi. Senza amore la castità diventa freddezza, incomunicabilità; la giustizia, durezza e rigorismo; la tolleranza, indifferenza e permissivismo; l’austerità, inflessibilità; la libertà, licenziosità; la gioiosità, frivolezza; la pace interiore, pacifismo e amore del quieto vivere…
Il discorso sull’amore potrebbe continuare all’infinito.
Vorremmo sottolineare alcune qualità evangeliche.
La prima: la concretezza. “Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio” (Mt. 7, 21).
L’amore non è soltanto sentimento, è un “fare”, è la “bontà del cuore” (D. Fabbri) che esprime oggettivamente in opere di misericordia: Hai dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, hai visitato gli infermi, i carcerati, ospitato i forestieri, consolato gli afflitti, corretto con dolcezza e rispetto il fratello nell’errore? (cfr. Mt. 25, 31-46).
Sono le opere di misericordia dei nostri vecchi catechismi, che non possiamo mettere da parte, anche se, evidentemente, hanno bisogno di essere riespresse e aggiornate, tenendo conto del quadro complesso della nostra società industrializzata la quale si è giustamente assunta dei compiti che prima erano di carità “privata”, come dovere di giustizia. Rimane e anzi si fa più urgente, nella nostra cultura, il bisogno di rapporti immediati, fra persone e famiglie, che abbiano del calore umano da trasmettere. C’è troppa emarginazione e solitudine nella nostra società organizzata.
San Paolo, nel suo stupendo “inno all’amore”, traccia con linee molto nitide l’identikit della carità, cercando così di non lasciarla sfumare nel vago. La carità, dice “è paziente, benigna, non invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità”. E conclude, Paolo, con un aforisma sorprendente: “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor. 13, 1-13).
Una seconda qualità dell’amore, secondo il Vangelo, è la sua gratuità. Da Dio abbiamo ricevuto gratuitamente, gratuitamente dobbiamo dare.
Dio ci ha colmato dei suoi doni, con il suo amore incondizionato e preveniente? Anche noi dobbiamo fare altrettanto con il prossimo, in casa, sul posto di lavoro, nei rapporti sociali. Dio ci ha amato per primo? Ciascuno di noi, se vuol diffondere amore intorno a sé, deve essere disposto ad amare per primo, privilegiando l’aspetto materno dell’amore cioè l’amore nonostante tutto, pronto a fare il primo passo per le riconciliazioni necessarie, per risolvere positivamente i conflitti. Ci vuole dell’umiltà per ricomporre una situazione precaria, magari avanzando non un’offerta, bensì una richiesta di aiuto.
Se volete amare veramente, insiste il Vangelo, dovete farlo senza aspettarvi nulla in contraccambio, dovete dare senza “sperarne nulla”. “Se fate del bene a coloro che vi fanno del bene (do ut des), che merito ne avrete?”. Voi piuttosto “ciò che volete che gli uomini facciano a voi anche voi fatelo a loro”: è questa la “regola d’oro” del Vangelo (Mt. 6, 27-35).
Una terza qualità dell’amore è la sua universalità.
Anche qui dobbiamo imitare Dio, il quale, come dice Gesù, fa splendere il sole sui buoni e sui malvagi e piovere sui giusti e sugli ingiusti. il nostro amore dobbiamo saperlo effondere anche su coloro che non ci amano e che per nascita o per diversità di scelte o altro non sono, in partenza, nostri fratelli.
È giusto dunque amare se stessi, ma solo come condizione e punto di partenza per un amore che non si arresta, che non opera esclusioni né emarginazioni di sorta. L’amore deve essere come un sole che irraggia senza limiti, anche se, come insegna san Tommaso d’Aquino, è del tutto naturale che debba riscaldare di più e per primi coloro che si trovano più vicini.
Senza questo continuo spaziare oltre si costruiscono soltanto degli egoismi: individuali, familiari, di clan, di classe sociale, di nazionalità, di razza, di religione…
L’amore vero come quello di Gesù è tale da far cadere tutti i muri di inimicizia che separano gli uomini in gruppi opposti od estranei, come, al tempo appunto di Gesù, gli ebrei e i “gentili”. L’amore vero opera sempre a fare di due una sola realtà, a creare situazioni di comunione. Così coloro che venivano considerati stranieri diventano concittadini, nel cuore di chi ama. Non più stranieri, né più soltanto ospiti, ma concittadini e familiari, e cioè degli aventi diritto (Ef. 2, 11-22).
Evidentemente, la cattolicità della Chiesa corrisponde a questa universalità dell’amore.
Ci poniamo una domanda che può sembrare marginale ma forse non lo è. Fino a che punto è separabile l’amore di Dio da quello del prossimo?
Che non si possa veramente amare Dio senza amare il prossimo è del tutto chiaro per il cristiano: come potrebbe amare Dio che non vede, chi non ama il prossimo che vede? (Che vede: cioè quello che è sotto i suoi occhi, con cui vive tutti i giorni spalla a spalla, i vicini cioè che talvolta è più difficile amare che non i lontani, anche se ne hanno più diritto). Ma è la domanda opposta che può creare qualche difficoltà. Può esistere un vero amore del prossimo senza l’amore di Dio? La domanda può essere riformulata così: “Si può amare veramente il prossimo senza con questo amare anche Dio, sia pure in modo implicito e inconscio?”.
Anche qui la risposta evangelica appare chiara: se ami il prossimo, ami anche Dio, inevitabilmente. Ce ne assicura Gesù: “Hai dato da mangiare all’affamato? L’hai dato a me!”. Gli chiederanno i giusti: “Quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare?”. “Ogni volta che avete fatto questo a un fratello”, risponderà Gesù (Mt. 25, 31- 40).
C’è dunque un modo invisibile ma vero di amare Dio ed è quello di amare veramente il fratello bisognoso di amore.
Bisognerà però soggiungere, a questo punto, che precisamente questo amore potrà essere vero soltanto per un dono di Dio, soltanto se il suo Spirito viene a sottrarci definitivamente ai nostri egoismi sempre ricorrenti.
Possiamo concludere questa riflessione che abbiamo tentato di svolgere, davanti al Crocifisso senza invocare , a questo punto , con una implorazione sincera, lo Spirito d’amore?
“Vieni o Spirito creatore, visita le menti dei tuoi fedeli e della celeste grazia riempi i cuori da te creati. Tu che sei chiamato consolatore, dono dell’Altissimo, fonte viva, fuoco, carità e spirituale sollievo, infondi nei nostri cuori l’amore, rafforza con incessante vigore la debolezza della nostra carne” (Veni Creator).
 

Elevato da terra, Morcelliana, Brescia 1987, pp.108-112.