Il dialogo tra le grandi religioni del mondo

Già nel 1964, l’allora pontefice Paolo VI aveva richiamato la nostra attenzione sulla “straordinaria novità del nostro tempo”.
Con sempre maggiore chiarezza la Chiesa ha iniziato a comprendere che una modalità basilare del suo essere e’ “l’essere in dialogo”, perché essa è il Sacramento del dialogo di Dio con l’Uomo, attraverso Gesù Cristo.
Diversi pensatori contemporanei hanno scritto sulla “straordinaria novità del nostro tempo”.
Thomas Merton, il monaco – scrittore cistercense americano, crede che “noi oggi abbiamo raggiunto uno stadio di maturità religiosa nel quale può essere possibile per qualcuno rimanere perfettamente fedele alla professione cristiana e pur tuttavia imparare in profondità dalla disciplina e dall’esperienza vuoi buddista o indù”. Per Raimundo Panikkar , un grande teologo delle religioni, “la religione di nostro fratello o sorella è nostro problema religioso”.
Gerald Anderson, un’autorità in campo missiologico, indica e predice che “la teologia sulla missione della Chiesa cattolica è stata sottoposta negli ultimi quindici anni ad un cambiamento più radicale di quello sperimentato nel secolo precedente e che entro il 2000 tale pensiero teologico sulla missione sarà lontano dal nostro modo attuale di pensare tanto quanto oggi lo è rispetto a vent’anni fa”.
Il grande Concilio Vaticano II descrive il globo terreste di oggi come una “mappa di varie religioni”, ed è pure indicativo della novità del nostro tempo il fatto che la domanda stia cambiando da : “quale e’ la relazione del Cristianesimo con le altre culture e religioni” a “QUALE E’ IL POSTO DEL CRISTIANESIMO NEL MONDO RELIGIOSAMENTE E CULTURALMENTE PLURALISTICO DI OGGI?”
In questo senso il Cristianesimo, diversamente dal passato, ammette oggi di non essere più una RELIGIONE ASSOLUTA, ma una RELIGIONE DELL’ASSOLUTO.
Insieme ai credenti e ai non – credenti, i Cristiani sono alla ricerca di Dio, guidati dalla luce di Cristo, che crediamo essere l’epifania realizzata dell’insondabile mistero di Dio. Dall’inizio della sua storia il Cristianesimo ha rivendicato la dimensione universale. Se questa aspirazione deve essere credibile e rilevante, il Cristianesimo non può optare per rimanere intollerante ed esclusivo, secondo il suo detto ufficiale del XIV secolo “extra ecclesia nulla salus”; se l’aspirazione all’universalità deve essere credibile e rilevante oggi, esso non può continuare ad essere dialettico ed ambivalente nella sua relazione con le altre religioni.
In ultima analisi, tutte le religioni aspirano ad una unione incancellabile con l’Unico e Assoluto Dio. Alcune religioni ammettono che di questo Dio Unico e Assoluto si può parlare solo vagamente e parzialmente; altre affermano che questo Dio Unico e Assoluto rimarrà sempre al di là della comprensione umana e quindi è meglio parlare in modo negativo (dicendo ciò che non è, n.d.r.); altre ancora rifiutano di dire qualcosa sia in positivo che in negativo su questo Dio Unico e Assoluto.
Da buoni Cristiani, siamo chiamati a credere in tutta onestà lo sforzo dei credenti di tutte le religioni, qualsiasi sia la via che casi scelgono verso il Dio Unico e Assoluto.
Tuttavia, non deve sorgere conflitto o compromesso riguardo al nostro fondamentale credo cristiano, cioè che il Dio Assoluto, l’Unico Dio dei credenti di tutte le religioni, si e’ pienamente rivelato e manifestato in Gesù Cristo.
Se analizziamo infatti le prime fonti cristiane, vale a dire Giovanni Evangelista e l’Apostolo Paolo, comprendiamo che il mistero di Gesù Cristo non e’ un nuovo Dio o una costituzione del vecchio Dio, bensì Gesù Cristo e la PIENA EPIFANIA e la MANIFESTAZIONE COMPLETA dell’eterno, ineffabile, insondabile, Unico e Assoluto Dio.
L’aspirazione di tutti i credenti di tutte le religioni ad una unione indissolubile con l’Unico e Assoluto Dio e il mistero di Gesù Cristo come Epifania e Completa Manifestazione dell’Unico e Assoluto Dio sono CORRELATI. Come?

COMPRENSIONE DI GESU’ CRISTO
Ognuno dei Vangeli presenta un particolare orientamento cristologico e tale orientamento è radicato in un
particolare contesto culturale.
Così Gesù Cristo nei vangeli sinottici (quelli di Matteo, Marco e Luca) è presentato come Gesù di Nazareth; il Gesù Cristo che ci presenta il vangelo di Giovanni e’ il “logos Eterno”; Gesù Cristo quale ci viene presentato da Paolo è “l’Epifania Cosmica di Dio” il “Pleroma” e il “Compimento della creazione”.
Ognuna di queste interpretazioni di Gesù Cristo è autentica, ma non vi e’ niente che si possa dire esaurisca completamente il mistero di Cristo; al contrario possiamo dire che queste visioni sono mutuamente complementari.
In periodi differenti della storia del Cristianesimo c’è stata la tensione dì possedere, attraverso una di queste interpretazioni, “Colui che ha assunto la condizione umana, Colui che rifiuta di essere posseduto”.
E’ innegabile che la fede cristiana sia esistita solo e sempre in un ambiente culturale e religioso concreto e definito.
Benché impossibili da separare, abbiamo bisogno di distinguere tra:
1. l’essenza della religione cristiana e
2. la forma concreta nella quale la religione cristiana viene presentata.
E’ un fatto che, benché si possa dire che la religione cristiana nella sua essenza sia universale, il Cristianesimo e’ sempre esistito come una presentazione particolare. Ciò è dovuto all’intrinseca e paradossale relazione tra tutte le manifestazioni di Dio.

DIO SI MANIFESTA NELLA TRADIZIONE INDU’
Circa 610 milioni di persone seguono questa tradizione. Si tratta in effetti di una moltitudine di molte fedi diverse che enfatizzano l’aspetto di Dio come:
1) Sovrapersonale – Ineffabile – Apofatico della tradizione Shaiva;
2) Personale – Dio dell’Unione Mistica – Catafatico della tradizione Vaishnava.
Fin dal suo inizio, la tradizione induista ha accettato il fatto che l’Unico e Assoluto Dio e’ “uno, ma il saggio lo chiama con molti nomi”, (Rig.Veda I.90). Così si può sentir parlare di Dio come: “Dio è” o “Dio non è” oppure “Dio e’ L’UNO E L’ALTRO, E’ E NON E’ allo stesso tempo” o “Dio è NE’ E’ e né NON E’ allo stesso tempo”.
La tradizione indiana ammette che fondamentalmente tutti i sistemi sono inadeguati a confinare il mistero di Dio: si può parlare molto e molto eloquentemente su Dio e tuttavia aver detto a malapena qualcosa. In altri termini, tutte le parole su Dio cono vere e reali e tuttavia così lontane dalla sua Realtà.
Dunque Dio è prima e anzitutto una “ESPERIENZA personale”. Il Mistero di Dio che si dice essere “al di là” non deve essere mal interpretato come “fuori” dell’Uomo, ma piuttosto “DENTRO” ogni Uomo. Del resto, benché Dio sia in ogni Uomo, nessun, uomo e’ Dio. Allo stesso modo che quando mi innamoro di qualcuno non divento quel “qualcuno”, benché io diventi uno con lui, così Dio e l’Uomo sono uniti: si tratta di una unione mistica nella quale l’amante e l’amato sono uno con distinzione.
La tradizione indù esiste ininterrottamente da circa cinquemila anni e continua a vivere oggi. E’ una ricerca della unità di fondo, dell’armonia dell’intera creazione e della vita integrale. Essa cerca di articolare, in modo armonioso, tutte le dimensioni della vita che riguardano l’Uomo. Quindi Dio, nella tradizione indù, è visto come COSMOTEANDRICO, ovvero realtà armoniosa di COSMOS, THEOS e ANDROPOS (Cosmo, Dio e Uomo). L’Induiano vede una fondamentale e intrinseca interconnessione tra le realtà celesti, terrestri e cosmiche.
In larga misura, la tradizione induista è cresciuta e tuttora sta crescendo assimilando altre tradizioni, persino quelle dell’Islam e del Cristianesimo.
La tradizione indù si è evoluta nel suo percorso segnando quattro diverse tappe: 1) la Formativa, 2) la Speculativa, 3) la Devozionale, e 4) la Rinnovativa. Gli inizi della tradizione indù sono segnati dalla percezione della Divinità come Ordine o stabilità strutturale e nozione di purezza.
Molto prima che si sviluppasse l’idea di un Dio Assoluto e Supremo, la tradizione indù per prima si è centrata attorno ai Deva-s, ovvero i poteri divini. La preoccupazione immediata era “come esprimere concretamente e con significato la visibile e invisibile, l’ovvia e non così ovvia relazione che l’Uomo ha con ogni cosa?”.
In questa fase si percepisce e si esperimenta, più che Dio stesso, la Sua atmosfera, i Suoi raggi, il Suo velo. Dio è colto più, nella Sua dissimulazione che nella sua rivelazione. Per salvaguardare la “santità” e la “purezza” di Dio, si sviluppa il sistema delle caste.
La Storia delle Religioni mostra che Dio e l’Uomo sono due poli della religione. Un’enfasi asimmetrica su uno a spese dell’altro rende la religione obsoleta. Il periodo formativo della tradizione indù sembra aver asimmetricamente enfatizzato l’aspetto divino. Per bilanciare questa tendenza è emerso lo stadio dell’INTERIORIZZAZIONE dove l’Uomo scopre se stesso in tutta la sua profondità. Benché siano necessarie espressioni concrete e significative (azioni e riti) nella ricerca dell’Unione con l’Assoluto, l’Uomo non può rimanere legato ad azioni e riti.
Dio è fondamentalmente una forza liberante e l’uomo è essenzialmente un essere spirituale. L’uomo fa esperienza della sua natura spirituale (natura più profonda) sostanzialmente nell’essere libero; nell’essere liberato. Le azioni e i rituali dello stadio formativo sono divenuti troppo importanti nello stadio speculativo, ma sono mantenuti, accanto alla concezione del Dio Inafferrabile. Il vedere, l’odorare, il gustare, l’ascoltare e il toccare (liturgia) non sono abbandonati, ma si pone la domanda più profonda: “chi e’ colui che rende visibile ciò che è visibile, dà odore a ciò che è odorabile, dà gusto a ciò che è gustabile, emette ciò che è udibile e crea ciò che è toccabile?”.
La preghiera di questo periodo è: “Più grande di ciò che e’ grande…più piccolo di ciò che è minuto…nascosto in tutte le cose: Lui vogliamo conoscere”.
Una religione che aliena e isola l’Uomo dalla vita va sicuramente tradotta in tradimento sia dell’Uomo che di Dio.
La mera speculazione su Dio, staccata dai problemi concreti, dalle gioie e dalle pene, dai sogni e dalle aspirazioni, dalle speranze e dalle frustrazioni dell’Uomo può nuocere sia all’Uomo che a Dio. Il secondo stadio della tradizione indù è diventato eccessivamente speculativo, ma essa sembra essere guidata da Dio che ispira l’Uomo a convertire le tensioni distruttive in polarità creative.
Segue quindi un terzo stadio di sintesi: le intuizioni del periodi formativo e speculativo sono sintetizzate dando origine al periodo devozionale o BHAKTI. In questa fase i credenti cercano la verità, non per se stessa, ma per salvare l’umanità. La più alta forma di Verità è manifestata e presentata nell’AMORE, nella compassione, che non vuol dire una pietà malposta che non e’ amore. Tuttavia, non c’è solo l’egoismo a causare l’infelicità dell’Uomo, anzi, alla radice di tutti gli egoismi sta l’ignoranza della Realtà.
Il dibattere su sterili astrazioni e il praticare riti vuoti di significato, fa stagnare il dinamismo della religione. Lo scopo della vita umana non è sforzarci di raggiungere ideali “acosmici”, ovvero la non – azione e il distacco; al contrario, è essere coinvolta nella rete di relazioni e allo stesso tempo essere libera e liberata.
Col volgere del tempo, le religioni tradizionali necessitano una trasformazione radicale. Non possiamo trattare la condizione umana con le categorie del vecchio. Nella storia dell’umanità non si è mai vista tanta gente morire per malattie e per fame come oggi che abbiamo la tecnologia sufficiente per guarire e nutrire tutti. Il mondo ha un esercito di trecento milioni di soldati e cento milioni di bambini senza una casa; in questi casi la sfida per le religioni è diventare più radicali e essenziali.
Verso l’inizio del XIX secolo, la tradizione indù è entrata in un quarto stadio del suo viaggio.
Si intuisce l’inevitabilità di un cambiamento, ma ci si preoccupa anche della continuità. Come essere fedeli alle intuizioni del passato e allo stesso tempo essere significativamente rilevanti e credibili nel presente? Si intuisce che la scelta è tra RIVIVERE il passato, optando per il fondamentalismo e RINNOVARLO, optando per delle Sorgenti di NUOVA VITA.
In questo quarto stadio la tradizione indù ha sempre più optato per la seconda possibilità, esprimendo personaggi del calibro del Mahatma Gandhi, di Rabindranath Tagore e del Dott. Radhakrishna.
Il rinnovamento che conduce ad una NUOVA VITA è emerso nella tradizione indù a motivo della sua apertura rispettosa al discernimento. Tale apertura consiste nel chiedersi se la miseria e la povertà, il fondamentalismo, il communalismo, la fame, la violenza, lo sfruttamento economico, il consumismo, lo squilibrio ecologico, da una parte e il progresso scientifico e tecnologico, la possibilità di scambi tra tutti i popoli della terra, le conoscenze rese accessibili dalle varie scienze (sociologia, psicologia, storia, antropologia, filosofia) dall’altra possono trasformare la mia religione.

DIO SI MANIFESTA NELLA TRADIZIONE BUDDISTA
La tradizione buddista è storicamente più vecchia del Cristianesimo. Essa preferisce non dire niente riguardo l’esistenza di Dio o le origini del mondo perché è convinta che il silenzio sia la risposta più appropriata e probabilmente più completa alla domanda su Dio e l’origine del mondo. La tradizione buddista è primariamente preoccupata della natura SOFFERENTE di tutti gli esseri umani: essa chiede di capire “il modo in cui le cose veramente esistono”.
Buddha offre un modello di perfezione cui tutti gli uomini aspirano: sviluppo, salute, benessere. Ciò che il Cristianesimo direbbe AMORE REDENTIVO, la tradizione buddista enfatizza in CONOSCENZA LIBERANTE. Essa ritiene utile il valore delle dottrine e degli insegnamenti nella religione, ma “essi (dottrine e insegnamenti) devono essere usati solo come stracci per togliere lo sporco accumulatosi sull’Intelletto”.
La salvezza nella tradizione buddista non è un movimento da un punto ad un altro, ma “l’attualizzazione del potenziale che ognuno ha”. La salvezza è capire che non bisogna diventare niente più di ciò che si è. Come le lampade, una volta spente, non possono accendere altre lampade, così la fiamma dell’avidità, la collera, la tentazione e il peccato, una volta estinti, non possono continuare il ciclo della sofferenza.
L’uomo soffre perché affida se stesso alla realtà di sé, ma secondo la tradizione buddista questa realtà di sé è puramente fenomenale (mera apparenza). Nella ruota eterna della vita, ogni cosa nasce e perisce da un istante all’altro. Tutto e’ transitorio: nessun essere ha una essenza o una personalità che perdura. La sofferenza deriva dal fatto che cerchiamo di attaccare noi stessi a “ciò che non è”. L’attaccamento è manifestato nel nostro etichettare (in una visione di possesso) la realtà transitoria come “mia”, “la mia”, “io”, “a me”, ecc. Ad esempio: il corpo è una realtà transitoria nell’eterna ruota della vita; esso cresce e perisce di momento in momento, ma nella mia ignoranza io cerco di farlo mio, mio possesso. Questo desiderio di possedere, questa bramosia è alla base di tutta la miseria umana. Questa ignoranza è primariamente proiettata sulla natura dell’universo. L’intuizione fondamentale della tradizione buddista, nel negare l’essenza al “sé”, dichiara enfaticamente che la felicità reale e durevole consiste nell’essere senza sé; che l’egoismo è alla radice di tutti i nostri problemi. L’attaccamento all’ego si risolve nel ciclo senza fine di nascita, sofferenza e morte.
Credendo nel potenziale dell’Uomo, la tradizione buddista ha fatto nascere il dibattito su come porre fine alla sofferenza universale. Buddha suggerisce un cammino concreto in otto tappe come metodo per porre fine a tutta la sofferenza. Innanzitutto, bisogna neutralizzare le azioni distruggendo le bramosie e le passioni.
La tradizione buddista fa anche luce sull’intera questione della colpa connessa con il senso del peccato. Essa dice che i torti dell’individuo non possono essere intesi in termini di errori individuali. I torti dell’individuo sono radicati nel nostro modo umano di vivere e il contenuto stesso di questo modo di vivere è una miscela patologica di desideri irrealizzati, brame represse, paure, rimorsi e sofferenza.

CONCLUSIONE
Le religioni non prendono a prestito l’una dall’altra, ma tutte attingono dalla SORGENTE COMUNE.
Quando ci poniamo onestamente in ricerca per riconoscere i lampi di luce nelle altre religioni (come ha ammesso il Concilio Vaticano II), non stiamo cercando di completare la Rivelazione cristiana prendendo a prestito da altre religioni. Ciò che cerchiamo dì fare è, invece, liberare continuamente la nostra fede dai limiti della sua forma particolare. La religione di Gesù Cristo deve invitare tutte le religioni a cercare Dio al di là di tutti gli dei. Oggi l’ideologia più pericolosa nella Chiesa potrebbe essere l’immaginare che esista un solo modo di conoscere o interpretare Cristo, un solo modello di essere Chiesa e un solo modo di vivere ed essere cristiano. Il nostro zelo per il VERUM (la Verità) non deve indurci ad identificarlo frettolosamente con l’unum (l’uniformità).
Nel dialogo con le altre religioni siamo spinti a comprendere quanto poco conosciamo dì Dio, del mondo e dell’umanità e ad aprire noi stessi ad esperienze senza precedenti del Mistero di Dio, dell’umanità e del mondo.

NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 14.5.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.