Il tema dei sondaggi d’opinione

Lavoro nel settore dei sondaggi e delle ricerche campionarie da diciassette anni, e negli ultimi dieci anni ho prestato particolare attenzione allo sviluppo dei sondaggi politici in Italia; ho così avuto modo di collaborare con istituzioni, partiti politici e mezzi d’informazione; ritengo quindi opportuno evidenziare quelle che, a mio parere, sono delle anomalie nell’utilizzo del sondaggio

Oggi è molto utilizzata la ricerca demoscopica, perché attraverso la raccolta di dati su un campione di limitate dimensioni si possono ottenere informazioni che possono essere riferite alla totalità della popolazione (o dell’universo di riferimento) considerata dall’indagine; se realizziamo un’indagine per verificare la gradevolezza di uno yogurt considereremo i consumatori di yogurt e un campione di costoro può rappresentare, entro un determinato margine di errore statistico (la famosa “forchetta”), l’opinione di tutti i consumatori di quel prodotto.

Il sondaggio ha una sorta di “crisma” d’ufficialità, fornisce ai committenti dei sondaggi come pure ai lettori un’immagine distaccata e neutrale, una fotografia della realtà. Ora, l’utilizzo in politica dei sondaggi ha a che vedere con questo aspetto, cioè a questa capacità che il sondaggio ha, se ben condotto, di rappresentare le opinioni degli italiani.

In Italia, molto più che negli altri paesi, il sondaggio è stato oggetto di un significativo cambiamento delle finalità di utilizzo che ci obbliga a rivedere criticamente il rapporto tra gli istituti che realizzano i sondaggi, i clienti che li commissionano e i mezzi di informazione che li divulgano.

Vorrei rendervi edotti di quali sono gli aspetti critici, non per screditare il sondaggio ma, anzi, per restituirgli una dignità che, a mio parere, in questi anni ha rischiato di perdere e in alcuni casi ha perso.

Preciso subito che nel mio intervento parlerò prevalentemente dei sondaggi pubblicati e non di quelli “riservati”, cioè dei sondaggi che vengono commissionati ma sono divulgati.

Il primo aspetto da evidenziare, è la confusione che aleggia sul concetto di sondaggio che, come ho prima chiarito, deve avere la capacità di rappresentare l’opinione di una popolazione più ampia. Infatti, con il termine “sondaggio” si definiscono una serie d’iniziative che non possiedono questa capacità, per motivi tecnici e metodologici. Spesso si confonde il sondaggio vero e proprio con il televoto o il sondaggio su internet, il sondaggio pre-elettorale con il sondaggio post-elettorale, le proiezioni elettorali con l’exit poll, termine divenuto di moda (in molti casi utilizzato a sproposito) che sta ad indicare un solo tipo di sondaggio, quello condotto all’uscita dei seggi. In particolare, il diffusissimo televoto come pure i “sondaggi” realizzati in rete (internet) sono operazioni che consentono di conoscere le opinioni di centinaia quando non di migliaia di rispondenti, che però non hanno alcuna capacità di rappresentare l’opinione della popolazione più ampia, non per incapacità di chi li realizza ma per ragioni statistiche, dal momento che le regole di campionamento non sono rispettate.

Ecco allora che spesso sui mezzi d’informazione compaiono dati di rilevazioni che non sono sondaggi. Faccio un esempio concreto. In occasione di un programma televisivo pomeridiano trasmesso da Retequattro, il conduttore Alessandro Cecchi Paone lanciò un televoto, ovvero una richiesta agli ascoltatori di telefonare per esprimere la loro opinione, su un tema molto forte: la pena di morte. Si chiedeva di comporre un numero telefonico ai favorevoli alla pena di morte e un altro numero ai contrari. Ora, chi esercita il nostro mestiere sa che questa è un’operazione molto suggestiva, che aiuta a stringere legami con il pubblico e a mantener viva l’attenzione, ma non ha niente a che vedere con un sondaggio. Innanzi tutto non tutti gli italiani guardano Retequattro, in particolare non tutti gli italiani sono pronti nel pomeriggio ad accendere il televisore (molti sono fuori casa, lavorano, studiano, ecc.), quindi è evidente che già in origine c’era una selezione forte dei potenziali rispondenti; non solo, e qui entro più negli aspetti tecnici, la casualità, che è uno dei cardini della statistica induttiva, è del tutto assente, perché telefonano solo coloro che sono più motivati a farlo, probabilmente i sostenitori dell’opinione più estrema. Il risultato del televoto fu che una maggioranza significativa degli ascoltatori che avevano telefonato si dichiarava favorevole alla pena di morte.

Questo che era semplicemente un giochino, passatemi il termine, in realtà ha creato un corto circuito informativo; il giorno dopo su “La Stampa” di Torino Norberto Bobbio scrisse un articolo stigmatizzando gli italiani che in larga misura si erano espressi in favore della pena di morte; non solo, il “Manifesto” in prima pagina intitolò: “Teleforca”. Si scatenarono polemiche, il conduttore affermò che lui in realtà non era favorevole alla pena di morte e che comunque poteva far valere un’esperienza lunghissima a fianco delle organizzazioni contro la pena di morte, e così via. Un pandemonio basato su un gioco, non su un sondaggio, eppure in moltissimi ci sono cascati. Questo la dice lunga sul rischio che si corre nel momento in cui sono divulgate informazioni spacciandole per sondaggio.

A partire dagli anni ‘90 abbiamo assistito ad una forte aumento dei sondaggi rispetto al passato. Sottolineo che la situazione italiana è diversa rispetto a quella degli altri paesi: globalmente tutto il comparto delle ricerche di mercato pesa per circa 450 milioni di euro. Si tratta di un mercato che è la metà rispetto a quello francese, un quarto di quello inglese. I sondaggi rappresentano soltanto il 5%-6%

Nel 1995 furono censiti tutti i sondaggi pubblicati in quell’anno: erano circa 360, quasi un sondaggio al giorno. Sono passati sei anni, nessuno ha più rifatto questo conteggio, ma sicuramente è cresciuto di molto il numero dei sondaggi pubblicati.

Molti sono i motivi di questa crescita.

Innanzitutto, come già detto, c’è stata una richiesta molto forte da parte dei mezzi d’informazione. Un secondo elemento, che ne ha determinato la crescita repentina, è legata al cambiamento nel mondo politico: alla fine degli anni ‘80 cade il muro di Berlino, enrano in crisi le ideologie, il comportamento elettorale subisce cambiamenti significativi: scompaiono alcuni partiti e ne nascono di nuovi. Con il venir meno dell’importanza delle ideologie cambia l’offerta politica, aumenta la propensione da parte degli elettori a cambiare il proprio comportamento di voto, mentre fino alla metà degli anni ‘80 la mobilità elettorale (cioè il cambiamento del comportamento di voto da parte degli elettori) era un fenomeno abbastanza marginale in quanto si tendeva a replicare il voto agli stessi partiti nelle diverse tornate elettorali.

Negli anni ‘90 i partiti tradizionali entrano in crisi, non solo per la crisi delle ideologie ma anche per effetto delle inchieste giudiziarie. Le due principali conseguenze sono rappresentate dalle crescenti difficoltà economiche e dalla forte disaffezione dei cttadini i quali nutrono sentimenti di sfiducia, quando non di aperta ostilità, nei contronti di molti dei partiti politici.

I grandi partiti di massa disponevano di apparati ed organizzazioni imponenti, si avvalevano di “terminali” sul territorio e non avevano nessun bisogno di effettuare sondaggi perché bastava alzare il telefono e parlare con i numerosi esponenti locali i quali, in epoca di partecipazione poltica elevata, sicuramente dimostravano di avere “il polso” della situazione.

Con il cambiamento sinteticamente descritto, i partiti si sono trovati in una situazione del tutto nuova: si sono accorti di non conoscere il proprio paese, di aver bisogno di strumenti per comprendere le tendenze degli elettori e, in particolare, di quelli che manifestano l’intenzione di cambiare l’orientamento di voto (chi sono, dove vivono, quali sono i loro bisogni, ecc.).

Un ulteriore elemento che ha favorito la crescita dei sondaggi è legato al cambiamento delle leggi elettorali; il modello italiano, in parte maggioritario e in parte proporzionale, come pure l’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia, governatori delle regioni, hanno modificato l’offerta politica e le modalità di comunicazione; il voto è meno legato rispetto al passato alla scelta di un singolo partito, si impone la cosiddetta “personalizzazione della politica” e i leader politici, a livello locale e nazionale, si espongono in prima persona e hanno bisogno di conoscere che cosa la gente pensa di loro.

Un ulteriore fattore di crescita è costituito dall’evoluzione tecnologica. Quando ho iniziato ad esercitare questo mestiere, alla metà degli anni ’80, si eseguivano pochissime interviste telefoniche. Nel 1985 Abacus aprì uno dei primi centri di rilevazione telefoniche: fino ad allora i sondaggi erano realizzati mediante interviste personali effettuate presso il domicilio degli intervistati; venivano impiegate centinaia d’intervistatori distribuiti su tutto il territorio nazionale. I costi ed i tempi di realizzazione erano molto elevati. Al contrario i sondaggi telefonici costano molto meno e si realizzano in pochissimo tempo; questo ha determinato un incremento della domanda da parte dei partiti e dei i mezzi d’informazione, sempre più interessati ad acquisire informazioni in tempi rapidi e a costi bassi.

Sul concetto di tempo ci sarebbe da discutere lungamente: i sondaggi telefonici, infatti, inducono l’aspettativa di disporre di informazioni quasi in tempo reale mentre, viceversa, sarebbe più opportuno lasciare al pubblico il tempo per formarsi un’opinione. Quando viene realizzato un sondaggio su un episodio di cronaca, generalmente non tutti sono a conoscenza del fatto e non è detto che coloro che ne hanno sentito parlare abbiano un’opinione già definita; l’opinione si forma acquisendo informazioni, leggendo i giornali, confrontandosi con i familiari e gli amici: tutto ciò richiede tempo. I sondaggi realizzati in un batter d’occhio subito dopo la manifestazione di un evento hanno sì valore ma potrebbero avere risultati diversi rispetto a quelli condotti qualche giorno dopo, quado le opinioni si sono stabilizzate.

Un ulteriore elemento di novità rispetto al passato è costituito dal cambiamento delle finalità e dell’utilizzo del sondaggio: mentre prima era uno strumento di conoscenza, oggi tende ad essere sempre più una sorta di arbitro del dibattito. Pensate a certe trasmissioni televisive in cui il sondaggio è calato dall’alto, “vox populi, vox dei”, per mettere a tacere alcune opinioni o per distribuire torti e ragioni; oppure pensate al sondaggio utilizzato come surrogato dell’inchiesta giornalistica, in cui diventa una nota di colore, un dato per stupire e per sostituire l’approfondimento.

I cambiamenti più significativi nell’utilizzo del sondaggio hanno visto protagoniste soprattutto le forze politiche. Il sondaggio è diventato strumento di comunicazione politica, di pressione: si vuole influenzare l’opinione pubblica, in particolare gli elettori incerti, anticipando “virtualmente” l’esito di una tornata elettorale. Si vuole indurre un fenomeno noto come “band wagon” che potremmo tradurre: “saltare sul carro del vincitore”. Si parte dal presupposto che gli elettori incerti sarebbero tentati di votare per il partito dato per vincente dai sondaggi; in questi casi i mezzi d’informazione fanno da cassa di risonanza.

Non sempre però succede così. La letteratura non scioglie i dubbi a questo proposito: in alcuni casi funziona e in altri casi non funziona o funziona esattamente in modo opposto. Un esempio, a mio parere, illuminante è quello che è avvenuto in Francia nel ’95 alle presidenziali. Tutti i sondaggi davano un ballottaggio fra i due candidati di destra, Chirac e Balladour. Ciò ha fatto sì che gli incerti, anziché riversare i propri voti sui due candidati del centro destra, hanno premiato quello dato per sconfitto, Jospin, il candidato della sinistra, che vinse al primo turno precedendo Chirac che poi lo sconfisse al secondo turno.

L’opinione pubblica non si muove sempre per linee rette, ci sono comportamenti che si modificano a seconda dei contesti. Prendiamo per esempio le elezioni regionali del 2000 nelle quali si era lungamente dibattuto sulla forza trascinante di alcuni leaders, per cui Cacciari nei sondaggi di alcuni istituti era dato per vincente nel Veneto, mentre alla fine è risultato sconfitto. Cosa vuol dire? Significa che in quel caso è prevalso il voto di appartenenza politica dell’area del centro destra, però, nello stesso giorno, Bassolino è riuscito in Campania ad avere molti più voti di quanti ne ha ottenuto la coalizione che lo sosteneva. In quel caso ha funzionato la presenza del leader.

C’è un eccesso di semplificazione quando si discute di questi argomenti che non è sempre dettato da buona fede. Durante l’ultima campagna elettorale abbiamo assistito ad una sorta di ping pong fra sondaggi pubblicati dalle testate vicine al centro destra che davano un vantaggio del centro destra di 10, 12 punti, e sondaggi pubblicati dalle testate vicino al centro sinistra per le quali questo vantaggio era molto più limitato, addirittura un giornale ha scritto di 0,1 punti. Tutti avevano ragione e tutti avevano torto, infatti si è verificato un fatto assolutamente insolito: la distanza tra centro destra e centro sinistra sul proporzionale è di circa tre milioni e mezzo di voti a favore del centro-destra, laddove il dato relativo al maggioritario, vede lo scarto ridursi a quattrocentomila voti. Quindi tutti avevano ragione, però tutti avevano torto poiché ciascuno voleva presentare solo una parte della realtà nel tentativo di far pendere la bilancia a proprio favore.

Il nostro è un sistema elettorale complesso, con una parte maggioritaria e una parte proporzionale, e per prevedere esattamente chi avrebbe vinto sarebbe stato necessario compiere sondaggi che comprendessero sia la parte proporzionale sia la parte maggioritaria. Sondaggi da realizzare con campioni di grandi dimensioni, per poter stimare la distribuzione dei seggi, l’unico elemento che può far capire con precisione quali sono i rapporti di forza.

E ancora, il sondaggio è sempre più uno strumento di tipo tattico per potrer prendere decisioni imediate come avviene, ad esempio, per il cosiddetto “mercato dei collegi”. Nel periodo in cui si devono decidere le candidature si parla spesso di collegi “sicuri”, “blindati”, cioè collegi dal risultato presoché certo non solo sulla base dei risultati delle precedenti elezioni ma anche sulla base dei più recenti orientamenti di voto. Solitamente i big della politica, impegnati nella campagna nazionale, si candidano nei collegi sicuri rinunciando in molti casi a fare una campagna elettorale nel collegio in cui sono candidati. In quella fase i sondaggi sevono a distinguere i collegi sicuri da quelli “marginali” (dove l’esito è più incerto); vengono utilizzati dai segretari dei partiti della stessa coalizione per assegnare i collegi più facili ai propri candidati nel corso di trattative estenuanti delle quali i giornali ci tengono informati.

Un ultimo cambiamento nella finalità del sondaggio di cui vi voglio parlare riguarda la tendenza a considerarlo come bussola, come strumento di orientamento dell’attività politica, in modo che la politica possa sintonizzarsi con l’”agenda” delle priorità dei cittadini. Vi sembra proprio giusto pensare al sondaggio come lo strumento per capire dove andare? Io non credo che sia eticamente corretto. Ho un idea “alta” della politica, la quale deve avere il coraggio di compiere determinate scelte anche se, in un certo momento storico, sono impopolari. Koll non avrebbe unito due Germanie sulla base dei sondaggi e nemmeno avremmo introdotto la moneta unica in Europa.

L’attuale Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi ha commissionato numerosi sondaggi quando era Ministro dell’Economia al fine di capire quali erano i segmenti della popolazione contrari o timorosi dell’avvento della moneta unica e per conoscere i motivi di tali preoccupazioni. Non certo per curiosità, ma per poter intervenire con una comunicazione ad hoc, per spiegare il significato di quella scelta eminentemente politica. Questo è un utilizzo saggio e corretto del sondaggio.

Penso sia opportuno che anche gli istituti di ricerca facciano una seria autocritica e riflettano su come viene utilizzato questo strumento. Il ricercatore non deve realizzare un sondaggio per dimostrare qualcosa, per prendere una posizione, ma per raccogliere informazioni, argomentarle, capire quali sono i nessi fra i fenomeni. Se un istituto perde la propria neutralità, tutta la categoria ne viene penalizzata, viene insinuata l’idea che il sondaggio non sia uno strumento al di sopra delle parti.

E veniamo al difficile rapporto tra sondaggi e media. C’è una criticità legata alla diversità di linguaggio fra giornalista e ricercatore, soprattutto in televisione. Noi ricercatori rischiamo di essere noiosi e un po’ pedanti quando puntualizziamo, spieghiamo, interpretiamo i risultati: tuttavia ritengo doveroso restituire all’opinione pubblica un’immagine che sia almeno corretta. Il giornalista, invece, è mosso dall’esigenza dei tempi, della sintesi, della semplificazione, dello scoop. Il ricercatore è analitico, il giornalista sintetico.

Pensiamo all’incapacità dei giornalisti di accettare il concetto di incertezza, per esempio nell’esito di una consultazione elettorale. Si vorrebbe sapere con certezza chi vincerà, in taluni casi prima ancora che siano definite le candidature. Il nostro è un paese profondamente diviso e i sondaggi fortografano la divisione, l’indecisione di molti elettori e l’incertezza riguardo al risultato finale. Insomma, anche l’incertezza è una notizia! Sembra un’affermazione banale, eppure la rimozione del concetto di incertezza porta a clamorosi infortuni. In occasione delle elezioni regionali del maggio del 95, il direttore del telegiornale di una televisione di Mediaset metteva le bandierine di colore rosso e azzurro sulle diverse regioni, perché voleva comunque mostrare un risultato. Ricordo che quella sera lavoravamo per la RAI, e avevamo svolto nell’occasione il più imponente exit poll mai realizzato al mondo, con quasi centomila interviste in un giorno all’uscita dei seggi nelle 15 regioni in cui si votava. Dovevamo diffondere le nostre stime e avevamo cinque regioni in cui il risultato era fortemente incerto: in particolare ricorderete il testa a testa tra i candidati Michelini e Badaloni nel Lazio, che si concluse con uno scarto di poche centinaia di voti. A quel punto telefonai ai direttori delle testate RAI per avvisarli che era nostra intenzione non diffondere le stime nelle cinque regioni in cui il risultato era indecifrabile . Vi confesso che qualcuno mi insultò, sostenendo che altri istituti si erano già “sbilanciati” dando una previsione credibile. Tutti ricorderanno che quelle previsioni furono smentite e, in quella circostanza, la nostra prudenza fu provvidenziale perché evitò alla RAI, che svolge un servizio pubblico, di esporsi a figuracce.

Per quanto ci riguarda, anche noi abbiamo avuto un incidente di percorso, in occasione del referendum del ’99: avremmo dovuto stimare l’affluenza alle urne (e, quindi, la validità o meno del referendum). C’erano molti motivi che rendevano poco precise le stime, dal ridisegno completo delle sezioni elettorali (che rendeva di fatto impossibile un confronto con le sezioni precedenti) alla presenza nei registri elettorali di defunti ed espatriati (che alterava la base di calcolo dei votanti e degli aventi diritto). L’errore statistico in prossimità del 50% risulta più elevato. Noi stimammo 50,6%; il risultato finale fu 49,8%. Da un punto di vista strettamente statistico si trattava di un’eccellente stima; dal punto di vista della comunicazione fu un vero disastro. Io timidamente dicevo: “La partecipazione risulta al 50,6% (il dato ufficiale fu pari a 49,8%), bisogna essere prudenti, stare attenti”, dall’altra parte i sette segretari di partito e il direttore del Tg1 continuavano a premere, a insistere per avere il risultato finale. Non mi nascondo dietro ad un dito, ho fatto un errore clamoroso. Avrei dovuto essere più determinato anche a costo di subire critiche per la nostra incapacità di sciogliere i dubbi sul raggiungimento del quorum. Però quanto questo errore è determinato dal contesto, cioè dalla domanda forte di anticipare a tutti i costi quello che è l’esito finale? Non lo so, però l’ossessione per la previsione ad ogni costo porta a volte a prendere grossi rischi e, soprattutto nel caso dei sondaggi pre-elettorali, svilisce lo strumento quasi al livello di un oroscopo. Lo stesso avviene ed è avvenuto fuori dal nostro paese, tanto per fare un esempio in Israele, in Inghilterra, in Francia per arrivare alle recenti presidenziali negli Stati Uniti, dove gli exit poll assegnavano la vittoria ora a Bush ora a Gore. Gli infortuni non sono infrequenti, ma come si possono evitare? Solo con una gestione accurata dell’informazione. La prudenza non è un atteggiamento di maniera o una manifestazione di pavidità, è solamente la consapevolezza delle responsabilità che si hanno.

Inoltre, siamo sicuri che si può sondare tutto e in ogni momento? Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto: il problema del tempo. Ci sono dei giornalisti che chiamano alle nove di mattina e chiedono di avere i risultati per le tre del pomeriggio. Ma chi può essere intervistato in quel lasso di tempo: non certo gli uomini e le donne che lavorano, ma prevalentemente le casalinghe, gli studenti universitari fuori corso o quelli che sono a casa al mattino a studiare per preparare gli esami, i pensionati, i disoccupati (sempre ammesso che non siano fuori casa a cercar lavoro). Il campione intervistato non può essere rappresentativo degli italiani, eppure il giornalista vuole avere comunque i risultati per quell’ora, per chiudere il numero.

E ancora, siamo davvero sicuri che si possano sondare tutti gli argomenti? Non ci rendiamo conto che spesso le domande, anche se ben formulate, suscitano risposte doveristiche, cioè risposte finte, dettate dall’esigenza di accreditare un certo tipo di immagine presso l’intervistatore? E allora quanto valgono quelle riposte? Indubbiamente poco.

Vi racconto un episodio sconcertante che ho vissuto qualche anno fa. Avevano appena ritrovato il cadavere di un bambino ucciso da un pedofilo e la sera stessa un giornalista televisivo mi chiese di effettuare un sondaggio per sapere quanti italiani si dichiaravano favorevoli alla pena di morte per i reati di pedofilia. Opposi un garbato rifiuto adducendo una serie di argomentazioni (l’emotività del momento, l’attendibilità delle risposte e, da ultimo, il disagio per la speculazione su un episodio drammatico), ma la risposta era sempre la stessa: “Non mi interessa, io voglio la notizia, voglio un dato”. Quel sondaggio fu comunque realizzato da qualcun altro. In alcuni casi ci sono istituti superficiali, accondiscendenti, che si prestano ad operazioni come questa senza porsi troppi problemi di etica.

Un altro elemento critico nel rapporto con i media è rappresentato dal costo dei sondaggi: realizzare bene un sondaggio costa. Gli istituti subiscono spesso una grande pressione da parte dei giornalisti che chiedono sondaggi gratis o per due soldi in cambio della visibilità. Ogni istituto è libero di adottare la propria politica commerciale, però è molto probabile che se un sondaggio è realizzato gratis, sarà fatto senza grande attenzione al livello qualitativo.

Ho voluto soffermarmi su questi aspetti non per criticare eccessivamente i giornalisti, sarebbe sciocco, in fondo siamo tutti consapevoli che è attraverso la diffusione sui media che i sondaggi hanno avuto popolarità. Però credo che sia necessario un ripensamento, perché entriamo in una fase in cui non è più controllabile quello che è divulgato. Parliamo sempre più spesso di responsabilità sociale da parte delle aziende; ebbene, credo che gli istituti demoscopici e i media abbiano delle forti responsabilità sociali. Come chi produce biscotti deve seguire certe regole, così chi produce sondaggi deve avere attenzione al pubblico cui è destinato un sondaggio, deve evitare di trarlo in inganno.

Ma il pubblico crede nei sondaggi ? E’ difficile dare una risposta. Abbiamo realizzato un sondaggio sui sondaggi, formulando nell’aprile del 2001 le stesse domande utilizzate in un analogo sondaggio nel 1994. E’ emerso che, in questo lasso di tempo, con il crescere dei numero dei sondaggi è diminuito il livello di interesse del pubblico. Abbiamo assistito a un cambiamento significativo nel giro di pochi anni, poco meno di un italiano su due dichiara di aver letto o ascoltato risultati di sondaggi d’opinione o sondaggi politici negli ultimi mesi mentre sei anni prima il valore si assestava al 74%. Un risultato non dissimile riguarda la credibilità dei sondaggi; si chiedeva: “Lei crede ai sondaggi?”. Solo il 27% dichiara di credere alla veridicità di tutti i sondaggi, nel ’94 la percentuale era al 41%. Al contrario il 31%, quindi quasi uno su tre, afferma di non credere ad alcun sondaggio ed è un dato più o meno stabile rispetto al 94; il 42% dice di credere ad alcuni ma non ad altri. Si insinua dunque il dubbio che ci sia il sondaggio di parte, non neutrale.

Poi abbiamo chiesto il motivo per cui l’intervistatore non ha fiducia nei sondaggi e due ordini di motivazione sono prevalenti: la gente pensa che al telefono l’intervistato non dica la verità e ha qualche perplessità sul fatto che i giornalisti riproducano in modo veritiero le informazioni. Vi è qualche critica anche agli istituti, che per un 18% sono troppo accomodanti.

Come si può porre rimedio a questa situazione?

Gli istituti demoscopici associati all’ ASSIRM si sono dati un codice deontologico molto rigoroso e hanno resa obbligatorio la certificazione secondo gli standard Iso 9001, in modo che tutte le fasi di una ricerca siano monitorate secondo procedure riconosciute e condivise. Non solo, nel 1995 è stato firmato un accordo con l’ordine dei giornalisti che avrebbe dovuto portare alla creazione di una commissione permanente sui sondaggi con l’obiettivo di fornire all’opinione pubblica dati veritieri e interpretati in modo corretto. Questa iniziativa, purtroppo, non ha avuto alcun risultato perché la commissione permanente mista fra ricercatori e giornalisti non si è mai costituita e l’intesa diventò ben presto lettera morta.

Il legislatore ha introdotto nel 1993 una legge che prevedeva, nella versione iniziale, il cosiddetto black-out dei sondaggi, cioè il divieto di pubblicazione dei sondaggi nelle due settimane precedenti la data delle elezioni. Lo scopo è quello di non turbare l’opinione pubblica: se i sondaggi danno risultati discordanti, gli elettori vengono disorientati e non si formano la propria opinione indipendentemente. Uno dei paesi che ha introdotto per primo una simile restrizione è stata la Francia nel 1977, ma una sentenza recente della Suprema Corte francese l’ha di fatto eliminata, sulla base dell’assunto che tutti i cittadini hanno il diritto di avere un’informazione sugli orientamenti di voto, informazione che ha la stessa dignità di un articolo di giornale, di un editoriale e cosi via.

La nota come legge sulla “par condicio” ha recepito il divieto di pubblicazione e ha introdotto un’innovazione abbastanza interessante, cioè ha reso obbligatoria la presenza dei dati pubblicati, corredati dalla apposita nota metodologica su un apposito sito internet messo a disposizione dalla Presidenza del Consiglio.

Tutto ciò a mio parere non basta. Ci deve essere un impegno preciso da parte dei ricercatori, dei politici e dei giornalisti affinché si fornisca un informazione veritiera e non strumentale.

Mi ostino a considerare il sondaggio sia un vero strumento di democrazia e come tale vada salvaguardato, con un impegno forte da parte di tutti i soggetti interessati. I politici devono fare la loro parte, fare un passo indietro, utilizzare i sondaggi non come uno strumento di pressione e possibilmente capire che la politica non si attua con i sondaggi, ma attraverso i sondaggi si possono migliorare le capacità di comprensione delle tendenze sociali e di comunicazione con gli elettori. I media devono riconsiderare il ruolo del sondaggio, rinunciando allo scoop a tutti i costi e i ricercatori non devono scordare gli aspetti etici della professione. Se anche questi tre soggetti – politici, giornalisti e ricercatori – si impegnassero in tal senso forse non sarebbe sufficiente. Sarebbe auspicabile uno sforzo di discernimento, di comprensione anche da parte del pubblico che deve essere nelle condizioni di capire la veridicità dei risultati.

Forse è utopia, ma potrebbe essere un primo passo verso la riqualificazione dei sondaggi.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 22.11.2001 su invito della CCDC.