Il libro di Scoppola “Un cattolico a modo suo”

Sono molto grato ai responsabili della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e della Università Popolare Astolfo Lunardi di avermi invitato a presentare, insieme con Francesca Bazoli e con Giuseppe Tognon, quello che possiamo considerare il testamento spirituale di Pietro Scoppola . La mia gratitudine nasce anche da alcune ragioni affettive, che voglio qui esplicitare. Sono, intanto, contento di poter partecipare a un’iniziativa promossa dalla Cooperativa fondata da Matteo Perrini, un’altra persona cara cui ero legato da sentimenti di simpatia, affetto e stima maturati negli ambienti de La Scuola editrice e sotto la protezione di uomini come Vittorino Chizzolini. Ma, stasera, sono particolarmente grato agli organizzatori dell’incontro per l’occasione che mi offrono di ricordare, attraverso un libro, la figura di Pietro Scoppola, che per me e per molti di noi è stato un maestro, oltre che un grande amico.
Mentre preparavo qualche nota per questo mio breve intervento, ho ripensato al nostro primo incontro. Rammento che nei primi mesi del 1962, avendo da poco cominciato i miei studi sul modernismo francese, ebbi modo di leggere il libro pubblicato da Scoppola alla fine del ’61 su “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia”, che personalmente considero il suo libro storiograficamente più importante . Colpito da quelle pagine e desideroso di avere da chi le aveva stese qualche lume sulle vicende culturali e religiose del primo Novecento di cui mi accingevo a occuparmi, alcuni mesi dopo, forse ancora nel 1962, scrissi a Scoppola chiedendogli di poterlo vedere. Nel giro di qualche giorno mi rispose dandomi appuntamento presso il suo ufficio di referendario al Senato. Fu un colloquio molto intenso, il primo di numerosi altri incontri che, all’insegna prima degli studi e poi dell’impegno civile e politico, mi avrebbero a lui legato da vincoli profondi. Mi tornano alla mente le battaglie e gli avvenimenti che, insieme con molti dei presenti, abbiamo condiviso: dalla battaglia dei cosiddetti cattolici del no nel referendum per il divorzio ai dibattiti per la presenza della cultura religiosa a scuola e per una revisione del Concordato, dall’avvio – nel novembre del 1975 – della Lega dei cattolici democratici agli sforzi, nei primi anni ’80, per una rifondazione della DC, dalla battaglia nel 1993 a sostegno del referendum per la riforma elettorale fino al tentativo per favorire un avvicinamento fra le diverse tradizioni culturali e politiche – le tradizioni della sinistra democratica e liberale, del personalismo cristiano, del comunitarismo, dell’ambientalismo – disposte a riconoscersi in un comune impegno nel quadro di un compiuto sistema politico di alternanza.
Alla presenza di tanti amici di Pietro qui riuniti, diventa spontaneo rievocare in particolare la vicenda della Lega dei cattolici democratici, il movimento culturale e politico che, dopo lo strappo prodotto nella comunità ecclesiale dal referendum sul divorzio e di fronte all’inerzia denunciata dalla DC, intendeva aggregare su basi nuove, ma di là da ambizioni partitiche, l’area cattolico-democratica desiderosa di esercitare un’azione più incisiva nel rinnovamento della vita pubblica italiana. Ho ancora vivo il ricordo del primo grande convegno nazionale tenuto dalla Lega, con oltre cinquecento partecipanti, il 16 e 17 novembre 1976 a Roma presso un istituto religioso dell’EUR, dove – con l’aiuto di Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Paolo Prodi, Paola Gaiotti, Luigi Pedrazzi e tanti altri – mettemmo le basi per il nostro lavoro. Com’è noto, fin dagli inizi la Lega ebbe a Brescia uno dei suoi centri più attivi, che poté contare sul generoso e intelligente contributo di numerosi aderenti, alcuni dei quali – come Gervasio Pagani, Stefano Minelli, Luigi Bazoli – non sono, purtroppo, più con noi . Nel 1978, all’indomani della cruenta morte di Aldo Moro per mano dei terroristi, i responsabili della Lega decisero di dar vita alla rivista «Appunti di cultura e di politica»: non è casuale che il gruppo bresciano fosse incaricato di assumere le responsabilità organizzative e editoriali dell’iniziativa.
Come Beppe Tognon ha ben spiegato nella sua premessa al volume di Scoppola, “Un cattolico a modo suo” è un testo un po’ particolare, poiché, per un verso, è il bilancio di una vita, ma al tempo stesso è una proposta-riflessione con cui l’autore intende continuare a dialogare con noi sui molti problemi aperti che la sua intensa vita l’ha stimolato ad affrontare. A mano a mano che leggevo queste pagine, mi sono accorto che, attraverso di esse, entravo progressivamente nel regno delle madri dalle quali l’anima e il pensiero di Pietro hanno via via attinto. Per la verità, già in altre occasioni egli aveva parlato dei motivi intimi che erano alla base del suo impegno di studioso, oltre che di uomo di fede. Nell’intervista a Beppe Tognon, apparsa nel 2005, egli aveva già dichiarato che lo studio della storia era nato in lui non come scelta di una professione, ma come ricerca di un’identità . Il suo ultimo libro consente, ora, di capire meglio il significato di quell’affermazione.
Scoppola, che aveva frequentato l’istituto Massimo, una scuola cattolica di Roma diretta dai gesuiti, era stato condotto, da giovane, a fondare la sua fede su una costruzione dottrinale, una specie di ponte a tre arcate: le prove tomiste dell’esistenza di Dio, la dimostrazione storica dell’esistenza e della divinità di Cristo, la istituzione da parte di Cristo della Chiesa una e indefettibile. La presentazione di tale struttura veniva effettuata come se, una volta che si fosse percorso il ponte, l’adesione alla verità cattolica dovesse scattare in modo per così dire naturale . Ma, quando Scoppola aveva cominciato i suoi studi universitari, durante i quali incontrava – tra gli altri professori – Arturo Carlo Jemolo, questa costruzione aveva preso a scricchiolare fino e entrare irrimediabilmente in crisi, anche se egli era riuscito a salvare, sia pure in mezzo a non pochi dubbi, la fede: una fede che, priva del riferimento dottrinale, era però sospesa per aria, disincarnata, sguarnita di spessore culturale e storico. A quel punto, egli confessa nel libro, avrebbe, forse, dovuto dedicarsi a risolvere prima i dubbi per cercare, poi, di dare espressione alla sua fede sul piano storico concreto. Gli accadde, invece il contrario: «I dubbi – egli annota in “Un cattolico a modo suo” – sono rimasti e sono diventati parte del mio stesso credere […] e invece la riflessione e la ricerca sulle diverse forme in cui il cristianesimo si è incarnato e i problemi che ne sono nati sono diventati la premessa e la via per la costruzione della mia stessa identità culturale e per il mio modo di intendere il cattolicesimo e di esserne parte» .
Questa confessione proietta nuova luce sui primi studi di storia compiuti da Scoppola e sui quali gli organizzatori di questo incontro mi hanno chiesto di richiamare brevemente l’attenzione. Le ricerche di Scoppola nel campo storico cominciarono, com’è noto, agli inizi degli anni ’50 con la pubblicazione dapprima di diversi articoli e poi , nel 1957, di un breve ma denso saggio “Dal neoguelfismo alla Democrazia Cristiana” . Fin da questi scritti egli mostrava di nutrire una particolare simpatia per il cattolicesimo-liberale, una corrente minoritaria ma molto significativa del movimento cattolico. Tale simpatia non nasceva a caso.
Occorre intanto ricordare che, agli inizi degli anni ’50, per il tramite dei gruppi «Esprit » fondati da Emmanuel Mounier, Scoppola era entrato in rapporto con Ettore Passerin d’Entreves, un acuto studioso cattolico di storia, che nel ’52 aveva tra l’altro dato vita, insieme con Gianfranco Merli, ai «Quaderni di cultura e storia sociale», una rivista di storia contemporanea divenuta punto di riferimento per gli storici d’ispirazione cattolica (anche se durata solo tre anni) e sulle cui pagine Pietro pubblicò qualcuno dei suoi primi scritti storici . Ora, tra i temi di studio di Passerin d’Entreves, c’era il tema della tradizione cattolico-liberale, all’approfondimento della quale lo storico torinese avrebbe avviato anche altri studiosi, tra i quali Francesco Traniello e Nicola Raponi. Nulla di più facile dunque che, avendo avuto modo di conoscere il bisogno di Pietro di dare concretezza storica e culturale alla sua fede, Passerin gli avesse consigliato di studiare autori come Manzoni, Capponi, Rosmini, Lambruschini i quali, superando la visione impastata d’integralismo del primo Lamennais, avevano impresso al cattolicesimo liberale italiano una prospettiva di grandi aperture. Per Scoppola, il pensiero di questi autori era destinato a diventare tanto più ricco di indicazioni in quanto, affermata la trascendenza della religione rispetto a tutte le realtà mondane, essi erano portati non solo a distinguere trono e altare, ma anche a sostenere l’esigenza di una profonda riforma intellettuale e morale della Chiesa.
In Pietro l’interesse per la corrente cattolico-liberale doveva, per altro, rafforzarsi nel confronto con i lavori di altri studiosi. Teniamo presente che, nei primi anni ’50, la storia del movimento cattolico era oggetto di attente ricerche anche da parte di un altro giovane storico cattolico: Fausto Fonzi. Questi, nella persuasione che il movimento cattolico avesse avuto inizio con il fallimento del neoguelfismo, veniva studiando in modo particolare l’azione dei cattolici intransigenti che, dopo la crisi neoguelfa, avevano assunto la leaderschip dell’organizzazione cattolica determinando l’emarginazione dei transigenti . Nella valutazione di Fonzi, che finiva così con l’identificare il movimento cattolico con l’intransigentismo, la peculiarità di tale posizione era da ricondurre alla particolare attenzione che i suoi esponenti avrebbero manifestato per le aspirazioni e per i bisogni delle masse popolari e alla quale sarebbero rimasti fedeli fino al 1904, quando, in coincidenza con la crisi dell’Opera dei Congressi, molti di loro si sarebbero accostati alle posizioni moderate, favorendo così l’avvento del clerico-moderatismo. Riguardo in particolare a quest’ultimo esito Fonzi mostrava, per altro, di dare un giudizio non del tutto negativo, poiché pensava che il clerico-moderatismo, se aveva condotto il mondo cattolico a stemperare le rivendicazioni sociali, aveva anche segnato, a suo modo di vedere, l’accoglimento delle istanze del liberalismo da parte della Chiesa.
Scoppola nutriva, però, non poche perplessità nei confronti di questa ricostruzione che faceva coincidere il movimento cattolico con l’azione dei cattolici organizzati sotto la guida dell’autorità ecclesiastica. Quello che, intanto, lo contrariava era la sopravvalutazione con cui Fonzi presentava l’apertura sociale degli intransigenti, contrapponendola a un presunto conservatorismo dei transigenti. Scoppola pensava, infatti, che quell’apertura nascesse non già da una reale comprensione del problema sociale italiano, quanto piuttosto da una pregiudiziale avversione che, fin dagli inizi, il mondo intransigente aveva coltivato per la concezione liberale: «Nel 1904 – egli scriveva – “le ardite posizioni sociali e politiche” degli intransigenti, come le definisce il Fonzi, si manifestano per quello che realmente sono e sono state: un’arma polemica nella lotta contro il liberalismo più che l’espressione di una reale comprensione del problema sociale italiano» . A suo modo di vedere, discutibile era, inoltre, la conclusione con cui Fonzi sosteneva che l’esito clerico-moderato dell’intransigentismo avrebbe avuto, comunque, il merito di condurre la Chiesa ad aprirsi verso le istanze liberali. Scoppola ribatteva che quello di cui nel 1904 la Chiesa era disposta ad ereditare era non il vero liberalismo, ma un liberalismo infiacchito e incline al conservatorismo: «E d’altra parte – egli si chiedeva – di quale liberalismo i cattolici accettano l’eredità? È un liberalismo già fiacco, sfiduciato sulla bontà del metodo liberale e incline alla conservazione sociale come criterio fondamentale di scelte politiche» .
Non c’è, pertanto, da stupirsi che, in linea del resto con le conclusioni di altri studiosi, Scoppola tendesse ad allargare l’accezione del movimento cattolico al complesso delle “iniziative di azione e di pensiero” di tutti i laici cattolici preoccupati di confrontarsi con il mondo moderno e che, in questa più ampia prospettiva, facesse risalire le origini del movimento cattolico agli anni della crisi vissuta dalla Chiesa dopo la rivoluzione francese e non al momento del crollo del neoguelfismo. Così come non deve meravigliare che, rispetto a Fonzi incline a dare risalto alla corrente dell’intransigentismo, egli fosse propenso ad avvalorare le tesi dei cattolici-liberali e poi dei conciliatoristi e transigenti. Claudio Pavone, commemorando il 17 gennaio 2008 la figura di Scoppola al Senato, ha ricordato le vivaci discussioni alle quali i due storici cattolici davano vita, quando, durante i primi anni’50, Scoppola frequentava, per ragioni di studio, l’archivio della Sapienza e alle quali, essendo funzionario come Fonzi degli archivi di Stato, anche Pavone prendeva non di rado parte facendo per così dire da terzo incomodo, dato che, a sua volta, egli era su posizioni diverse da quelle sia di Pietro sia di Fonzi .
Se si vuole capire l’attenzione di Scoppola verso la tradizione cattolico-liberale occorre, infine, tenere presente il contesto politico-culturale degli anni ’50. Com’è noto, nel corso di quegli anni, il paese viveva un irrigidimento delle contrapposizioni ideologiche fra democristiani e comunisti, con una corposa partecipazione della Chiesa alle lotte politiche del momento. Scoppola guardava a tale contesto con viva preoccupazione, in particolare per i pericoli cui la Chiesa gli sembrava esporsi. Lo studio delle posizioni espresse dalla corrente cattolico-liberale finiva così con il fornirgli significativi elementi non solo per ricostruire culturalmente la propria identità personale, ma anche per individuare, sia pure al di fuori di semplicistiche strumentalizzazioni, una linea di distinzione fra religione e politica utile per riflettere, in modo critico, anche sulle vicende contemporanee. Manzoni, Rosmini e gli altri esponenti cattolico-liberali erano, invero, lì a ricordare che il vero compito della Chiesa era quello di costituirsi a guida delle coscienze e non di partecipare alle vicende mondane, immischiandosi nelle quali essa rischiava d’immiserirsi e di diventare una parte fra le parti.
Alla luce di tali richiami del tutto condivisibile mi pare il giudizio di Claudio Pavone, secondo cui, dopo Jemolo, Scoppola è stato il più grande storico cattolico-liberale italiano. A tale proposito è bene, forse, introdurre una precisazione. In realtà, se abbastanza presto Pietro fu portato a fare del cattolicesimo-liberale l’ideale filo di continuità della tradizione democratica dei cattolici, lo fece perché interpretava quell’esperienza secondo una prospettiva dinamica. In altri termini, per lui il cattolicesimo liberale era non il cattolicesimo legato a una particolare stagione storica dell’Ottocento, ma il cattolicesimo che si protendeva e si trasfigurava nel cattolicesimo democratico del Novecento. Come lo stesso Pavone ha giustamente osservato, nella vicenda dei cattolici transigenti, convivevano le premesse per due possibili esiti: lo sbocco clerico-moderato o l’incontro fra cattolicesimo e liberalismo. Scoppola riteneva che il vero cattolicesimo liberale fosse quello che, partendo dai grandi esponenti della cultura cattolica della Restaurazione – Manzoni, Rosmini, Lambruschini, Gioberti – si prolungava fino ai primi del secolo XX, arricchendosi del contributo della Lega Democratica Nazionale di Romolo Murri e di Tommaso Gallarati Scotti, per proseguire, poi, con il Partito popolare di Sturzo fino all’impegno politico di De Gasperi e Moro.
Particolarmente interessante è al riguardo la Prefazione che, nel 1979, egli premetteva alla terza edizione del volumetto del 1957 “Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana” . La Prefazione gli serviva per rispondere anche alle critiche rivoltegli da Fonzi nella nota storiografica che, nel ’77, questi aveva aggiunto alla nuova edizione del suo vecchio saggio sul movimento cattolico . Lo studioso dell’intransigentismo, tenuto conto anche delle pagine dedicate nel frattempo da Scoppola agli esponenti della Lega Democratica Nazionale di cui subito diremo, lo aveva rimproverato di «ricondurre le correnti sociali e democratiche dei cattolici italiani entro l’alveo del cattolicesimo liberale, dal quale principalmente sarebbero scaturite e dal quale avrebbero tratto i loro connotati più positivi» . Ma, a giudizio di Fonzi, in tanto Scoppola aveva potuto compiere un’operazione del genere, in quanto, ancora più in radice, era mosso dal presupposto che, all’interno del mondo cattolico, sarebbero esistite due correnti distinte e irrimediabilmente contrapposte: da una parte i “cattolici intransigenti”, ovvero i cattolici “chiusi” e responsabili di tutti i mali del cattolicesimo, e, dall’altra, i “cattolici liberali”, “aperti” e tutti fautori di progresso e modernità .
Scoppola rispondeva che, né con il saggio del ’57 né con altri scritti, si era mai fatto assertore di una visione così manichea, ma aveva al contrario sostenuto che intransigentismo e cattolicesimo liberale si erano non di rado incrociati, mettendo a frutto l’uno gli aspetti dell’altro, anche se, a suo modo di vedere, la Democrazia cristiana italiana del Novecento in tanto aveva potuto dar vita al suo progetto e riscuotere interesse e consensi perché, pur recuperando taluni elementi del riformismo sociale tipici della corrente intransigente, si era collegata, in via principale, alla tradizione cattolico-liberale: «Non è possibile – egli scriveva – porre sulla stessa linea, come esponenti della tradizione democratico cristiana italiana, Umberto Benigni, Romolo Murri e Luigi Sturzo; proprio perché il cattolicesimo sociale di Benigni non si è mai misurato con i valori della tradizione cattolico liberale non è maturato in senso democratico cristiano, ma si è chiuso e si è sclerotizzato nell’integrismo» .
Le pagine di “Un cattolico a modo suo” aiutano a collocare meglio anche gli scritti che Scoppola venne dedicando alla storia del modernismo italiano. Fin dal 1954, su suggerimento di Passerin d’Entrèves, egli aveva preso a occuparsi della Lega Democratica nazionale di Murri, allestendo un corposo saggio che sarebbe, poi, apparso nel 1957 . Le fasi preparatorie del lavoro, come spiega in “Un cattolico a modo suo”, lo fecero imbattere in un’ affermazione – Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam – che egli dice di aver rinvenuto in un discorso tenuto nel 1907 dal Gallarati Scotti a un convegno del movimento murriano . Ho fatto passare i discorsi e gli scritti di Gallarati fra il 1906 e il 1908, ma in essi di tale affermazione, che – come Scoppola avrebbe più tardi scoperto – era tratta da una dichiarazione del Concilio Lateranense IV del 1215, non ho trovato traccia . Mi chiedo quindi se, anziché in Gallarati, egli non abbia intercettato la citazione in qualche altro autore. Il Tyrrell ne faceva, ad esempio, uso in uno scritto apparso nel marzo 1908 su «Nova et vetera»: «La coscienza adunque è, come dice il Newman, il “Vicario originario di Cristo”, la suprema e l’unica assoluta autorità. Quidquid fit contra conscentiam aedificat ad gehennam» . Resta, comunque, che l’affermazione colpì molto Scoppola: egli ebbe, invero, l’impressione di vedervi teorizzata la dottrina del primato della coscienza e da quel momento non perse occasione per approfondire il problema. Le ricerche da lui compiute dovevano condurlo a rilevare che, nella tradizione cattolica, la dottrina del primato della coscienza era più antica dello stesso Concilio lateranense e che, in tempi più recenti, essa aveva trovato una delle migliori formulazioni nella poco nota Lettera al duca di Norfolk del cardinale John Newman (alla quale faceva riferimento il Tyrrell nell’articolo sopra richiamato). Tanto più grande era, perciò, l’amarezza di Scoppola nel constatare come la Chiesa, lungi dal porre nel dovuto risalto tale dottrina, l’avesse trascurata se non calpestata: «È paradossale – leggiamo in “Un cattolico a modo suo” – che il primato della coscienza sia stato negato e calpestato dalla Chiesa in innumerevoli circostanze storiche e comunque lasciato in ombra sul piano dottrinale sicché il principio di libertà di coscienza finisce per affermarsi in Europa non ad opera della Chiesa ma contro la Chiesa. È singolare che quella lettera di Newman sia stata dalla Chiesa tenuta in ombra e dimenticata» .
Nella seconda metà degli anni ’50 dal modernismo politico del Murri Pietro allargava la sua indagine al modernismo italiano nel suo insieme. A orientarlo in questa scelta s’interposero, senza alcun dubbio, alcune circostanze occasionali, come il ritrovamento di diversi archivi appartenuti ad alcuni protagonisti della vicenda modernista. In quegli anni egli ebbe, infatti, il privilegio di poter accedere, in via riservata, alla documentazione di mons. Canzio Pizzoni e mons. Luigi Piastrelli, entrambi “testimoni” e “protagonisti”, sia pure in ruoli diversi, degli avvenimenti che accompagnarono le attese di molti novatori . Ma nella decisione di Scoppola di mettersi a studiare il complesso della vicenda modernista pesò, prima di tutto, la persistente sua preoccupazione di rinsaldare la propria identità culturale e religiosa attraverso l’approfondimento delle concrete modalità con cui, storicamente, i cattolici avevano affrontato e risolto i dubbi e i problemi sorti dal confronto con la modernità e con la democrazia. Il fenomeno modernista si prestava a una verifica del genere in modo eminente. Scoppola lavorò per diversi anni e nel 1961, proprio quando la Chiesa si avviava ormai a celebrare il Concilio Vaticano II di cui egli avrebbe seguito con tante speranze gli sviluppi, pubblicò il ricordato volume “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia”.
Ho già accennato all’importanza rivestita da questo saggio e alla suggestione che, personalmente, ne ricevetti. A differenza della precedente storiografia usa a parlare del modernismo attraverso lo schema dell’enciclica Pascendi varata nel 1907 per condannarlo, Scoppola analizzava la crisi religiosa del primo Novecento nella sua realtà storica. Ne risultava, così, un grande affresco che metteva in evidenza la complessità del fenomeno e la varietà degli itinerari delle persone e dei gruppi coinvolti. Dopo la pubblicazione di questo libro, non era più possibile sostenere la tesi di don Giuseppe De Luca secondo cui il modernismo italiano sarebbe stato solo un sottoprodotto del modernismo d’oltralpe. Scoppola mostrava come in particolare alcuni esponenti del nostro riformismo religioso, come ad esempio coloro che si raccoglievano attorno alla rivista milanese «Il Rinnovamento», non avessero avuto esitazione a confrontarsi con alcuni grandi temi come appunto quello della libertà di coscienza, dei rapporti fra fede e ragione, dello studio della Bibbia nel pieno rispetto della ricerca storica. Egli non era però così sprovveduto da non capire che la parte più significativa del modernismo italiano si era riversata sul terreno più propriamente socio-politico e che, di là dagli sforzi generosi di alcuni spiriti, non c’era stato nel modernismo del nostro paese alcun contributo di particolare rilievo che potesse competere con quello che si era fatto in Francia nel campo, ad esempio, della filosofia della religione o dell’esegesi biblica. La povertà che gravava sulla cultura cattolica italiana in particolare dopo il 1870 con tutto il peso della questione romana costituiva un’ipoteca da cui non era semplice liberarsi.
Sotto questa luce significativo è l’interrogativo che, nel suo libro-testamento, Scoppola si pone per capire come mai, nei suoi ormai lontani anni giovanili, egli avesse scelto di concentrare la sua ricerca sul modernismo italiano: «Perché – egli si chiede – non ebbi l’audacia di uno studio sui grandi temi del modernismo posti dalla riflessione di Loisy, di Blondel, di Le Roy, di Laberthonnière, di Tyrrell, piuttosto che concentrami sulla vicenda, meno significativa sul piano culturale, del modernismo italiano? » . La risposta che, in queste pagine, egli dà é quella che si ricollega all’idea con cui, come abbiamo visto, si era persuaso che la storia potesse servirgli a ricostruire la sua identità lacerata: «Mi condizionarono le amicizie, le conoscenze, ma forse, più a fondo e quasi inconsciamente, quell’intuizione della storia come ricerca d’identità cui accennavo» . Dobbiamo però dire che, come del resto “Un cattolico a modo suo” ben mostra, i grandi temi del modernismo – i temi della soggettività, della fede come scelta personale, della Bibbia, della democrazia – non l’avrebbero mai più abbandonato, anche se per alcuni di essi aveva quasi il rimpianto di non essersi speso abbastanza. Per tutta la sua vita Pietro ha infatti continuato a pensare che, senza essersi misurati con quei temi, sarebbe stato difficile vivere fino in fondo il cristianesimo e riuscire a testimoniarlo in modo adeguato in mezzo agli uomini: «Mi sto sempre più convincendo – mi scriveva il 19 gennaio 2001- che sino a tanto che non riscopriremo il senso della fede come scelta personale (e di comunità), scelta ragionevole ma che si colloca al di là di pretese razionali oggettivistiche, ogni dialogo con la cultura moderna sarà impossibile. Il problema posto da Blondel e Laberthonnière alla fine del secolo scorso è ineludibile».

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 15.5.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Testo con le note nell’allegato in Pdf.