Il nodo dello Stil Novo

Tematiche: Letteratura

Parliamo del “dolce stil nuovo”, commentando un testo poco familiare agli studenti e raramente riportato dalle antologie scolastiche. E’ il sonetto che Bonagiunta Orbicciani da Lucca indirizza a Guido Guinizzelli (l’amanuense scrisse “Guinisselli”):

Bonagiunta da Lucca a messer Guido Guinizzelli

Voi, ch’avete mutata la mainera

de li plagenti ditti de l’amore

de la forma dell’esser là dov’era,

per avansare ogn’altro trovatore,

avete fatto como la lumera,

ch’a le scure partite dà sprendore,

ma non quìne ove luce l’alta spera,

la quale avansa e passa di chiarore.

Così passate voi di sottigliansa,

e non si può trovar chi ben ispogna,

cotant’è iscura vostra parlatura.

Ed è tenuta gran dissimigliansa

ancor che ‘l senno vegna da Bologna,

traier canson per forsa di scrittura.

Ad esso rispose il Guinizzelli:

Messer Guido: risposta al soprascritto

Omo ch’è saggio non corre leggero,

ma a passo grada sì com’ vol misura:

quand’ha pensato, riten su’ pensero

infin a tanto che ‘l ver l’asigura.

Foll’è chi crede sol veder lo vero

e non pensa che altri i pogna cura:

non se dev’omo tener troppo altero,

ma dé guardar so stato e sua natura.

Volan ausel per air di straine guise

ed han diversi loro operamenti,

né tutti d’un volar né d’un ardire.

Déo natura e ‘l mondo in grado mise,

e fe’ despari senni e intendimenti:

perzò ciò ch’omo pensa non dé dire.

Ma i due sonetti polemici del Lucchese e del Bolognese vanno esaminati tenendo presenti alcune terzine dal XXIV canto del Purgatorio di Dante Alighieri:

“Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

Donne ch’avete intelletto d’amore“.

E io a lui: “I’ mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando”.

“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

Io veggio ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a gradire oltre si mette,

non vede più da l’uno a l’altro stilo”;

e, quasi contentato, si tacette.

Dante definisce lo Stilnuovo

Il “nodo” rappresentato da questa categoria critica (il “dolce stil nuovo”) dobbiamo scioglierlo portandoci idealmente a quella fine del Duecento in cui la “novità” venne polemicamente percepita dai “conservatori” ed esemplarmente teorizzata da Dante, e cercando di capire come il problema era visto da loro.

E’ dunque Dante a fornire la definizione di “dolce stil nuovo”, nel XXIV del Purgatorio. In questo canto il Poeta incontra Bonagiunta Orbicciani, lucchese, un poeta della generazione precedente: Bonagiunta, quando vede il mistico pellegrino che sta visitando il Purgatorio, lo interpella offrendogli il destro per la sua folgorante definizione di poetica. Il senso generale del discorso è chiaro, ma conviene sottolineare i punti essenziali: 1. Bonagiunta riconosce in Dante l’iniziatore del nuovo stile (o, come vedremo, colui che compi e portò a pienezza e perfezione la renovatio). 2. Il testo-svolta è costituito dalla canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Il verbo “cominciato” ha un valore tecnico: nel Medioevo per dare il titolo ad un componimento, si dava l’incipit, il capoverso. E “Donne ch’avete intelletto d’amore” è una canzone che, all’interno della Vita Nuova, introduce le rime ispirate alla nuova poetica, allo “stile della lode”. Si aggiunga che anche “dolce” ha un significato tecnico: allude a una maniera da trobar leu, sublime nella semplicità, opposta all’artificiosità del trobar clus e alle dissonanze delle rime “aspre e chiocce” congrue a una materia polemica o a un stato d’animo travagliato.

Dante dà poi la sua celebre definizione: si paragona a un copista che scrive sotto dettatura; ma il “dittatore” è la personificazione dell’amore, l’Amore in persona che gli parla “dentro” (in interiore homine est veritas…), il poeta si limita a trascrivere quel dettato interiore. E’ una risposta modesta e ambiziosissima: modesta, perché egli si trasforma da inventore in fedele registratore; ambiziosa, perché finisce per attribuirsi il ruolo dell’agiografo; come l’evangelista non è autore del vangelo, ma puro tra scrittore ispirato da Dio, Dante è l’agiografo del dio d’Amore.

Di colpo, quella risposta apre gli occhi a Bonagiunta. Adesso (come dice con una espressione municipale lucchese, “issa”, dal latino ipsa hora), egli capisce qual nodo, quale impedimento trattenne al di qua del nuovo stile il Notaro, cioè Giacomo da Lentini (identificato come il caposcuola dei Siciliani), Guittone d’Arezzo (riconosciuto come leader dei siculo-toscani, o piuttosto – cercherò di dimostrarlo – come capofila di una linea di “trovare artificioso”, del trobar clus, dello scrivere difficile, della bravura per artificio), e Bonagiunta (rappresentante dell’altro partito dei siculo-toscani, quello per cui l’artificio provenzaleggiante veniva volto verso il trobar leu). Lo capisco così bene – prosegue Bonagiunta -, che ora mi rendo conto di perché le vostre penne volarono alto, segnando un distacco enorme fra nuova e vecchia maniera: il passaggio dall’uno all’altro “gradino” poetico è frutto di rivoluzione, più che di evoluzione.

La comprensione di Bonagiunta ci ricorda che il Purgatorio è il luogo in cui le anime, oltre a scontare il castigo per il male fatto, si “perfezionano”, raggiungono cioè quei traguardi morali e conoscitivi che in vita non sono stati pienamente toccati .Le anime del Purgatorio, secondo Dante, vanno “solvendo un nodo”, ad ogni passo che fanno, sulla via del perfezionamento. Evidentemente anche Bonagiunta qui ha sciolto, dopo la morte, quel nodo che in vita non era riuscito a districare.

Perché Bonagiunta?

Ma chiediamoci: perché Dante ha scelto proprio Bonagiunta? Perché, fra tanti poeti anche maggiori del lucchese, ha deciso di spiegare lo stil nuovo proprio a Bonagiunta? La risposta la dà il sonetto Voi ch’avete: il più lucido e drastico attacco polemico che un rimatore della vecchia maniera aveva mosso all’innovatore, a Guido Guinizzelli. Accontentiamoci per il momento di una prima parafrasi letterale.

Bonagiunta si rivolge al colto poeta-notaio bolognese, morto nel 1296, autore di un gruppo di rime divise tra fermenti nuovi e tradizione sicilianeggiante, rimproverandolo di aver cambiato per ambizione (per superare ogni altro trovatore, poeta) la maniera tradizionale della piacevole lirica amorosa, de li plagenti ditti de l’amore. Strettamente agganciata al canto nelle sue origini provenzali, la lirica aveva registrato un progressivo “divorzio” tra parole e musica: nei suoi sviluppi italiani, la parola è anteriore alla musica, che può ornarla (ma non necessariamente) in un secondo tempo. Però anche quando alludono alla poesia scritta, gli autori duecenteschi mantengono le sue caratteristiche di sonorità e di oralità. Gli antichi non leggevano quasi mai coi soli occhi, ma ad alta voce (come i latini). Così, come i metri conservano le denominazioni originate dall’iniziale esecuzione vocale-strumentale (sonetto, canzone) o danzata (ballata), Dante nella Vita nuova usa l’espressione “dir parole” per indicare la composizione di versi. Trovatore, del resto, è colui che inventa o reperisce dei tropi musicali.

Perciò Bonagiunta indica la poesia con il termine ditti, ma aggiunge che sono “piacenti” e che trattano di “amore”: formula cioè una poetica che collega la lirica alla materia amorosa e a una finalità di diletto. La poesia di Guinizzelli, prosegue Bonagiunta, è simile alla luce, che dà splendore alle parti oscure, ma non per noi, qui in Toscana, dove splende l’alta sfera (il globo solare o il raggio luminoso) che supera e sorpassa per chiarità ogni altro poeta. Quanto a voi (dice ancora il poeta), superate tutti per sottigliezza intellettualistica, e nessuno sa ben esporre, cioè commentare adeguatamente, la vostra poesia (parlatura), tanto essa è oscura. Conclude, poi, il Lucchese: è ritenuta da noi una grande stramberia, sebbene (e lo dice con ironia o sarcasmo) la vostra cultura venga dalla dotta Bologna, trarre faticosamente canzoni dalla scrittura, ovvero (ma il senso non muta) trarle grazie alla scrittura.

A questo testo di Bonagiunta, Dante allude anche attraverso la forte caratterizzazione linguistica municipale del suo interlocutore (i lucchesismi abbondano nel sonetto: sprendore, quìne, la conversione di z in s), e con una citazione mascherata, là dove scrive “colui che fore / trasse le nove rime”, riprendendo il verbo del Lucchese: “traier canson per forsa di scrittura”.

Ma, chiarito a quale testo pensa Dante, chiediamoci: a quale testo di Guinizzelli si riferisce il Lucchese? Per quale poesia rivolge l’accusa di oscurità e di stramberia? Il testo di Guinizzelli che ha “cambiato la maniera” deve essere quasi con certezza la canzone programmatica Al cor gentil rimpaira sempre amore. Bonagiunta parla precisamente di “canson” e, delle cinque canzoni rimaste di Guinizzelli, questa è l’unica d’impronta stilnovista: nel composito canzoniere di Guido, abbiamo vari sonetti stilnovistici, accanto a testi di vecchia maniera (cortese, siculo-provenzale), e di altro registro (come il bel sonetto “comico” a Lucia), ma Al cor gentil è l’unica canzone stilnovistica. Lo stesso Dante l’aveva implicitamente indicata come manifesto della nuova poesia, alludendovi in un sonetto della Vita nuova, “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa / sì come il saggio in suo dittare pone” (XX), che comincia parafrasando l’incipit guinizzelliano e dove Guido è detto “saggio”, con l’espressione cioè ch’egli usa nella replica al “folle” Bonagiunta, accanto all’espressione “dittare” che tornerà nel passo del Purgatorio.

Altri elementi confermano che fra le righe di Voi ch’avete va traguardata Al cor gentil: le rime del sonetto di Bonagiunta (rime in -era, -ore, -ansa e -ura) erano presenti nella canzone di Guinizzelli, cui il sonetto perciò risponde “per le rime”, secondo la tecnica delle tenzoni antiche (nel rispondere a un testo se ne utilizzavano le rime, in segno di rispetto per il dialogante o come sfoggio di bravura di fronte all’avversario); l’unica rima introdotta da Bonagiunta è una rima “aspra e chioccia” come -ogna, per “ispogna”: una rima di scherno verso la presunzione della sussiegosa, universitaria “Bologna”. Anche l’espressione “traier canson per forsa di scrittura” riecheggia parole della canzone guinizzelliana: “poi che n’ha tratto fore / per sua forza lo sol ciò che vi è vile”. Dante aveva dunque in mente il sonetto di Bonagiunta, e Bonagiunta rispondeva alla canzone di Guinizzelli. Operata la triangolazione, torniamo a leggere il sonetto di Bonagiunta, badando agli aspetti formali, che per una poesia fortemente codificata come quella antica, sono sempre anche elementi sostanziali, veicoli di significato.

Un sonetto “vecchia maniera”

Il metro è arcaico: rime alterne nelle quartine (ABAB, ABAB) e terzine simmetriche (CDE, CDE); è il metro dei siciliani (dallo stil nuovo al Petrarca verrà poi imponendosi il tipo ABBA, più mosso e variato).

Arcaico è poi il lessico: i provenzalismi come “trovatore” per poeta, “lumera” per luce, le desinenze in -ansa sono attinti al repertorio occitanico, poi italianizzati dai siciliani e da loro trasmessi alla scuola toscana “di transizione”, a Guittone e a Bonagiunta. E tradizionale o conservatrice (più siciliana che provenzale) è la poetica del diletto e la riduzione tematica implicita nella formula “plagenti ditti de l’amore” (la poesia trobadorica, com’è noto, fuorusciva dal perimetro della mera tematica amorosa, entro cui si inscrive la scuola siciliana).

Che significa questa arcaicità di metro e di linguaggio? Vuol dire che, nel criticare la nuova maniera, Bonagiunta esibisce con fedeltà orgogliosa il linguaggio della vecchia maniera, dei “plagenti ditti” di cui era un virtuoso, come mostrano questi due versi che colpirono D’Annunzio (e Leonardo Sciascia):

Vostra piacenza tien più di piacere

d’altra piacente; però mi piacete.

La ripetizione di termini, cara al gusto artificioso della tradizione siculo-guittoniana, si ritrova anche nel sonetto di Bonagiunta: avansare, avansa; trovatore, trovar, lumera luce, chiarore; passa, passate. La consonanza dell’Orbicciani coi canoni stilistico-retorici provenzali ha fatto avanzare a uno studioso italo-svizzero il ragionevole sospetto che un senhal celasse il nome di un preciso poeta cui Bonagiunta rendeva omaggio come all’alta spera che avansa di chiarore ogni altro trovatore. In passato si era pensato che l’Orbicciani alludesse a Guittone d’Arezzo: Contini, con il suo intuito singolare, osservò che l’attribuzione era poco persuasiva, e infatti Aldo Menichetti, editore dì Chiaro Davanzati, ha riconosciuto persuasivamente nel poeta fiorentino l’esempio luminoso celato sotto il senhal e contrapposto da Bonagiunta all’oscuro Guido.

Chiaro di nome e di fatto

Di Chiaro Davanzati troviamo il nome incastonato nel sostantivo “chiarore” e, con anagramma quasi perfetto, il cognome ribadito nei verbi “avansare” e “avansa”. Lo stesso Chiaro, nei suoi versi, pone in rima “spera” con “lumera”, e presenta l’immagine della “splendente luce” che “in ogne scura parte dà chiarore”. Rivolgendosi a lui, Monte Andrea da Firenze gioca sul doppio senso del suo nome, dicendolo “chiaro di chiarità”, capace di chiarire ogni “dubiosa iscuritate”. E un poeta minore, Pacino, definisce “dir piacente” la poesia di Chiaro. Il reticolo di rinvii è dunque estremamente fitto: il luminoso poeta toscano che l’Orbicciani oppone all’oscuro bolognese è proprio il Davanzati. Il suo modello spiega l’accusa di oscurità rivolta ai bolognesi: essi risentono dell’intellettualismo della cultura filosofico-universitaria, perciò la loro poesia è incomprensibile, e per di più non piacevole, difettando di abbandono melodico. Infatti, mentre i trovatori vecchio stile si danno ai “plagenti ditti de l’amore”, i nuovi pretendono di “traier canson per forsa di scrittura”.

Coetaneo di Bonagiunta, Chiaro ha lasciato un cospicuo canzoniere, comprendente un centinaio di sonetti e più di cinquanta canzoni: anche per quantità, gli si poteva riconoscere il rango di leader, o almeno di compagno di Bonagiunta in un filone siculo-toscano diverso da quello avviato da Guittone (donde l’individuazione, da parte di Dante, di tre “vecchie” scuole: del Notaro, di Guittone e di Bonagiunta, con Chiaro).

Legato alla tradizione cortese, il Davanzati è uno specialista nell’uso delle immagini tolte ai bestiari, e applicate al motivo amoroso: ecco il cervo innamorato, ecco la tigre che, nell’inseguire i cacciatori che le hanno rubato i tigrotti, deve arrestarsi suo malgrado a contemplare la sua bellissima immagine riflessa nello specchio che i sagaci cacciatori hanno lasciato sul sentiero. Anche sul piano zoologico-naturalistico, il contrasto fra il modello toscano e l’innovatore bolognese appare eloquente.

La risposta di Guinizzelli

Al cor gentil rimpaira sempre amore

come l’ausello in selva a la verdura;

né fè amor anti che gentil core,

né gentil core anti ch’amor, natura;

ch’, adesso con’ fu ‘l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente,

né fu davanti ‘l sole;

e prende amore in gentilezza loco

così propiamente

come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende

come vertute in petra preziosa,

che dala stella valor no i discende

antiché ‘l sol la faccia gentil cosa;

poi che n’ha tratto fóre

per sua forza lo sol ciò che li è vile,

stella li dà valore:

così lo cor ch’è fatto da natura

asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo’nnamora.

Amor per tal ragion sta ‘n cor gentile

per qual lo foco in cima del doplero:

splende li al su’ diletto, clar, sottile;

no li stari altra guisa, tant’è fero.

Però prava natura

recontra amor come fa l’aigua il foco

caldo, per la freddura.

Amore in gentil cor prende rivera

per suo consimel loco

com’adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ‘l giorno:

vile reman, né ‘l sol perde calore;

dis’omo alter: “Gentil per sclatta torno!”;

lui semblo al fango, al sol gentil valore:

ché non dé dar om fe’

che gentilezza sia fòr di coraggio

in degnità d’ere’;

sed a vertute non ha gentil core,

com’aigua porta raggio

e ‘l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ‘n la ‘ntelligenzia del cielo

Deo criator più che ‘n nostr’ occhi ‘l sole:

quella intende suo fattor oltra cielo,

lo ciel volgiando, a Lui obedir tole;

e con ‘segue, al primero,

del giusto Deo beato compimento,

così dar dovria, al vero,

la bella donna, poi che ‘n gli occhi splende

del suo gentil, talento

che mai di lei obedir non si disprende.

“Donna”, Deo mi dirà, “che presomisti?”,

siando l’alma mia a Lui davanti.

“Lo ciel passasti e ‘nfin a Me venisti

e desti in vano amor Me per semblanti:

ch’a Me conven le laude

e alla reina del regname degno,

per cui cessa onne fraude”.

Dir Li porò: “Tenne d’angel sembianza

che fosse del Tuo regno;

non me fu fallo, s’eo li posi amanza”.

La canzone Al cor gentil rimpaira sempre amore viene spesso segnalata per la sua novità sociologica, il nuovo concetto di gentilezza, cioè di nobiltà, determinata non da ragioni di sangue (la “sclatta” di cui si vanta l'”omo altéro”) ma di cuore. Nell’ambiente comunale bolognese (e poi toscano) i valori democratico-borghesi rompono la tradizione cortese ghibellina, dominante nelle corti feudali trobadoriche e nella regia imperial curia federiciana.

Ma, accanto a questa contenuta nella parte centrale della lirica, ci sono due altre novità decisive: la tecnica argomentativa dell’inizio (il nesso amore-cuor gentile “dimostrato” con paragoni naturali) e l’apertura metafisica del finale (il poeta immagina un colloquio fra Dio e la sua anima, post mortem).

Il rapporto di interdipendenza fra amore e cuor gentile, coi successivi sviluppi, lasciò una traccia durevole (Dante lo riprenderà: “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone”). Ma con quale tecnica sviluppa l’argomentazione, Guido? Attraverso una serie di immagini naturali, non attinte ai favolosi bestiari, erbari e lapidari cui attingevano i poeti a scopo ornamentale, ma con uno studio filosofico-scientifico professorale, di stampo universitario: le immagini naturali, toccate con attitudine scientifica (uccello-bosco, diamante-miniera, stelle-pietre, fuoco-altezza, sole-fango) sono i sillogismi che tramano una poesia tutta concetti, nonostante quell’apertura colorata di verzura e di frulli d’ala sembrasse orchestrata sui “plagenti ditti de l’amore”. Questo novità doveva irritare chi, alla poesia, chiedeva chiarezza e diletto.

L’altro elemento di grande innovazione è il finale di questa canzone, dove il poeta finge di morire e di trovarsi in cielo. Già il Notaro, nel sonetto Eo m’aggio posto in core a Deo servire, immaginava di andare in paradiso con la sua donna, non per farci “peccato” ma per il piacere di contemplarla in gloria: “in ghiora stare”; dove, s’intende, “gloria” vale essenzialmente come figurazione, come rappresentazione pittorica, complimento galante e pseudo-sacralizzazione di un sentimento profano che osava nominare, pur negandola, la possibilità di «peccare» carnalmente. Nella canzone di Guinizzelli c’è qualcosa di più: c’è il rimprovero che Dio muove al poeta, e la sua discolpa. Dio si rivolge all’anima (detta perciò “donna”): “Donna, Deo mi dirà, che presomisti?”: che presunzione hai avuto? Hai dato ad una creatura terrena, e quindi vana, l’amore che solo si conviene a me o, tutt’al più, alla Madonna, alla “Reina del reame degno”. Nel Medioevo cristiano (e nelle sue radici biblico-salmistiche), le lodi convengono infatti solo al Signore, non alle creature, come precisa san Francesco nell’esordio del Cantico. Ma, all’obiezione del Padreterno, Guinizzelli sfodera la più brillante giustificazione:

Tenne d’angel sembianza

che fosse del Tuo regno;

non me fu fallo, s’in lei posi amanza.

Sembrava fosse un angelo venuto dal paradiso, la donna amata da Guido; come fargliene una colpa? Il finale della canzone, con la proiezione metafisica, dettata da una fantasia che va oltre il puro scopo ornamentale, inaugura la figura della donna angelicata, destinata al grande sviluppo dantesco della donna scesa in terra “a miracol mostrare”, a dare salute e beatitudine.

Scrittura sacra e profana

Torniamo al sonetto di Bonagiunta. Sono ben chiare le novità ch’egli contesta: la poesia è fatta di “plagenti ditti de l’amore”, vincolata alla materia amorosa e ornata nella forma, poiché deve dilettare, non già istruire o indurre meditazione. Sulla scia di Al cor gentil, gli stilnovisti vogliono ben altro dalla poesia; e sostituendo complicazione a semplicità, s’ingegnano a trarre canzoni per forza di scrittura. La scrittura, le glosse, le spiegazioni proprie della trattatistica e della lectio accademica sono sostituite al canto; la fatica della ragione rimpiazza il piacere dell’orecchio. “Scrittura” può essere intesa appunto come quella erudita praticata nelle aule universitarie di quella Bologna, i cui verseggiatori, conferma Dante nel De vulgari eloquentia, erano anche “doctores” (I, 15).

Ma qual è la scrittura per eccellenza, se non la Sacra Scrittura? Non può essere questa la vera svolta, cui dà il via il finale metafisico della canzone guinizzelliana? Se l’interpretazione calza, l’obiezione di Bonagiunta potrebbe essere scherzosamente riformulata così: nella poesia amorosa, gioca coi fanti e lascia stare i santi. Il dilemma fra scrittura con la minuscola e Scrittura con la maiuscola, cioè fra libro profano e libro sacro, non è comunque insanabile, poiché nella cultura medievale, anche universitaria, l’auctoritas della Bibbia era la base anche del sapere laico. In ogni caso, il passaggio dall’amor profano all’amor sacro segnava non solo una svolta ideologica, ma anche di linguaggio, che anziché attingere al thesaurus lessicale e al repertorio d’immagini della tradizione cortese, si ispirava ora a una nuova fonte, ai salmi e ai vangeli, ai libri profetici e all’innografia cristiana.

Chiaro Davanzati non attingeva certo alla Scrittura: il suo repertorio lo trovava nei bestiari, e in genere nel ricco catalogo dell’immaginario cortese, qual è snocciolato nell’anonimo Mare amoroso, un testo che aiuta a capire il gusto della vecchia maniera. Questo componimento in endecasillabi sciolti, recato da un unico manoscritto con patina lucchese (l’avrà visto Bonagiunta?), è stato attribuito a Chiaro, per la somiglianza con molte immagini del canzoniere davanzatiano. Non è che una filastrocca di metafore amorose, certamente utile a un verseggiatore che volesse attingere a un manuale dell’immaginario cortese:

Ed aggio di voi maggio gelosia,

veggendo chi vi parla o chi vi mira,

che non ha il pappagallo di bambezza.

Ed io vorrei bene, s’esser potesse,

che voi pareste a tutta l’altra gente

sì com’ paria la Pulzella Laida.

E se potesse avere una barchetta,

tal com’fu quella che donò Merlino

a la valente donna d’Avalona…

Con un rosario di immagini profane, il poeta si dice rimbambito d’amore come un pappagallo, voglioso che la sua donna sia come la “Pulzella Laida” (che appariva bella all’innamorato e ripugnante agli altri, onde evitar gelosie); vorrebbe aver la barca magica di Merlino e il filtro d’amore di Tristano e Isotta; insomma, tutti gli charmes cortesi e profani che rendono “plagenti” i detti d’amore. Bonagiunta aveva dunque colto l’elemento-chiave degli stilnovisti: l’adibizione al campo amoroso del lessico e dei concetti tolti all’àmbito religioso, a rimpiazzo del linguaggio proprio del rapporto feudale che tradizionalmente si usava per traslato nella lirica d’amore. Con la sua capacità di sintesi, il Contini indicava che l’Amore, rimasto servizio (nei Siciliani) o biografia individuale (in Guittone e Chiaro), veniva promosso dagli stilnovisti a valore universale.

Al repertorio sacro della Scrittura, che aveva rifiutato Bonagiunta, avrebbero invece attinto a piene mani, con citazioni esplicite e mascherate, i poeti stilnovisti, soprattutto Cavalcanti e Dante. Gli echi scritturali sono stati evidenziati da uno studioso, il Gorni, a proposito del “nodo della lingua”. Opportunamente egli richiama la miracolosa guarigione del sordomuto a opera di Cristo (Marco, 7, 32 ss.): “Gli disse Effatá, che vuol dire ‘àpriti’, e subito si aprirono le sue orecchie, e fu sciolto il nodo della sua lingua (et solutum est vinculum linguae eius)”.

In altri episodi scritturali lo scioglimento della lingua è frutto di un evento miracoloso, come nel Vangelo di Luca, quando Zaccaria viene ammutolito dall’incredulità di aspettare un figlio in tarda età; quando acconsente a chiamarlo Giovanni secondo la volontà della moglie, riacquista la parola; giusto come accade a Dante, nella Vita nuova, quando, superato il dramma del saluto negato, approda all’idea (salmistica) di una poesia paga solo di lodare Beatrice, senza avere in cambio neppure quel saluto salutifero, felice della lode che reca in sé e purificata d’ogni ombra di mercede: allora la sua lingua parla per superiore ispirazione, “come per se stessa mossa” ed egli compone Donne ch’avete intelletto d’amore (Vita Nuova, XIX, 2), la sua canzone-manifesto. Dante, superato l’impaccio della lingua con la nuova poetica della lode, si è fatto agiografo d’Amore.

Il momento dell’ispirazione è preparato da un silenzio originato dal timore di elevare una lode non adeguata a un oggetto tanto alto: ma diventato quasi “vaso” per ricevere il dettato che viene da dentro, la vena scaturisce improvvisa e lieve. Ascoltare il dettato interiore significa ascoltare la voce della coscienza, cioè di un dittatore trascendente chiamato qui Amore ma già potenzialmente proiettato verso traiettorie teologiche, e attingere di conseguenza al linguaggio sacro, non al repertorio dei “dittatori” esterni della convenzione trovadorico-arturiana compendiata dal Mare amoroso.

Se Guinizzelli è dunque il precursore, Dante è il vero innovatore: la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore segna la svolta decisiva, e scioglie il “nodo” col superamento dell’ineffabilità, l’ostacolo e il limite ben noto ai mistici Il motivo dell’ineffabilità, derivato dalla retorica medievale, viene affinato dai poeti delle Origini, e da Dante in particolare, dalla fase stilnovista (“che ‘ntender non la può chi non la prova”, “dir non si può né tenere a mente”) fino al vertice della Commedia (“trasumanar significar per verba / non si porria: però l’essemplo basti”). Il tòpos si presenta in due forme che possono essere combinate o separate: 1. la difficoltà di esprimere una lode adeguata è dovuta all’altezza dell’oggetto (la donna è troppo elevata e non si possono trovare parole per esprimere questo); 2. l’ineffabilità deriva dal turbamento del poeta (timoroso o agitato dall’amore, egli si confonde e il suo linguaggio s’impaccia). La prima linea, oggettiva, sfocia nel “trasumanar” dantesco; la seconda, soggettiva, è di marca prevalentemente cavalcantiana. (Nel Petrarca del sonetto proemiale del Canzoniere – “ove sia chi per prova intende amore” – la combinazione delle due linee avviene su un terreno schiettamente psicologico).

Dante, indirizzando la sua canzone programmatica alle donne che hanno “intelletto d’amore”, sa di non potere rendere adeguatamente la lode di Beatrice (“sua laude finire”), ma opera per cercare un sollievo interiore (“per isfogar la mente”) e sceglie la via della semplicità, del trobar leu (“leggeramente”), superando l’ostacolo con agilità, senza fatica intellettuale, perché è assistito dall’ispirazione (la lingua gli si è mossa da sé). Anche la struttura di questa canzone, formata di soli endecasillabi, riuniti in strofe che assomigliano a sonetti, indirizza il metro sul registro della levità, dello stile “elegiaco” riconosciuto nel De vulgari eloquentia come adattissimo al sonetto, mentre la canzone era consona allo stilus tragicus, al registro più alto. Nello stilnovismo della canzone dantesca, insomma, il sublime e l’umile coincidono anche nella “contaminazione” metrica di una canzone fatta di strofe-sonetti, secondo l’interpretazione cristiana dell’ossimoro, per cui il sermo humilis è la lingua veramente sublime. E’ questo che Bonagiunta non aveva capito prima, e che capisce adesso.

La canzone dantesca, già nell’incipit, rivela la sua natura di risposta polemica, o almeno differenziale, all’ambiziosa canzone-manifesto del secondo stilnovista, dell’altro Guido: della canzone cavalcantiana Donna me prega, perch’eo voglio dire, quella dantesca è il garbato ma fermo rovesciamento. Cavalcanti sceglieva interlocutori disposti a superare delle difficoltà, e soprattutto “conoscenti” di filosofia naturale; la canzone dovrà evitare il volgo e rivolgersi solo alla scelta cerchia di chi può intendere le ardue spiegazioni (in metro artificioso e difficile) sulla natura d’amore: una forza che, risiedendo nell’anima sensitiva, è essenzialmente psicologica, para-patologica, capace di turbare l’animo intellettivo e di obnubilare il retto giudizio Dante, invece, si rivolge ad un’altra élite, alla dolce femminilità naturalmente disposta a intendere l’amore, alle lettrici cui il messaggio è pienamente e pianamente comunicabile.

Il suggello di Dante

E’ opportuno, qui, soffermarsi sulla seconda tappa del pensiero dantesco: la progressione stilnovistica da Guinizzelli a Cavalcanti e il suo perfezionamento nella Commedia. Ricordate il canto XI del Purgatorio?

Credette Cimabue tener lo campo,

ne la pittura, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura:

così ha tolto l’uno a l’altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è nato

chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,

e muta nome perché muta lato.

Riconosciuto a Guinizzelli il ruolo di precursore, Dante individua un percorso evolutivo: Cavalcanti supera Guinizzelli (mettendo da parte, pensiamo, il repertorio cortese che ancor pesava sul Bolognese e attingendo a quello del più impegnativo pensiero filosofico, e imboccando poi la via di un rasentato averroismo). Ai due Guidi succederà lui stesso, maggiore grazie al superamento di quell'”epicureismo” cui è condannato Cavalcante padre e per il “disdegno” che Guido nutrì per Beatrice, per la grazia divina, cioè, o fors’anche per una linea poetica ispirata all’amor salutifero anziché all’amor doloroso.

I tre poeti, Cavalcanti, Guinizzelli e Bonagiunta, vengono collocati in tre luoghi dell’oltretomba che sembrano riflettere non soltanto le loro qualità morali, ma anche le loro scelte intellettuali. Guinizzelli, questo innamorato dell’amore, che prefigura la donna-angelo ma anche la donna conturbante e la donna sensuale “Ah, prender lei a forza, ultra su’ grato, / a bagiarli la bocca e ‘l bel visaggio”), si purga tra i lussuriosi; Bonagiunta, poeta ingordo di belle immagini e di “piagenza”, lo troviamo tra i golosi; Cavalcanti non lo incontriamo che per interposta persona, il padre Cavalcante, significativamente condannato tra gli “epicurei”, tra i materialisti: sdegnando Beatrice aveva imboccato una strada sbagliata (secondo Dante) tanto per la poesia che per la fede.

Un ultimo particolare, per chiudere la triangolazione iniziale. La risposta di Guinizzelli a Bonagiunta per molto tempo è stata scambiata per una risposta debole, puramente difensiva: non bisogna criticare gli altri – direbbe in sostanza Guinizzelli -, poiché ognuno vede la verità a modo suo, come gli uccelli che volano per l’aria in modi diversi. Un puro invito alla tolleranza? Il Gorni ha avanzato l’ipotesi che potesse celarsi del veleno nell’immagine degli uccelli: nel libro biblico della Sapienza il volo degli uccelli è infatti paragonato all’opera dello stolto, perché passa nell’aria senza lasciar traccia.

Il testo a me pare una risposta di sdegnoso disprezzo, altrimenti motivabile. Innanzitutto, Guinizzelli rifiuta di rispondere agli argomenti dell’avversario, e rifiuta di riprenderne le rime, come convenzione suggeriva, significando quasi “io con te non discuto, non scendo al tuo mediocre livello”. Lo chiama “folle”, contrapponendolo al “saggio” (l’epiteto che Dante gli attribuirà): folle e saggio hanno nel Medioevo una forte connotazione morale: saggio è colui che segue la via della verità, che è metafisica; il folle è colui che segue le vanitates, che sono terrene. Inoltre, fedele al suo stile, risponde con argomenti appoggiati a immagini naturali (il volo degli uccelli in un universo annonicamente gerarchizzato): non con una zoologia fantastica e pittoresca. Infine, last not least, insiste sul “traier canson per forsa di scrittura”, e cita espressamente Dio. Non è poco: si capisce, anzi, che all'”altero” Lucchese mancava l'”ardire” di un volo alto; non dunque equipollenza (tutte le strade mirano al vero), ma gerarchia (c’è chi vola alto e chi resta basso).

Se questa interpretazione è giusta, potremmo vedere nel passo del Purgatorio XXIV non solo un’allusione al sonetto di Bonagiunta, ma anche alla replica di Guinizzelli. Con un atto di omaggio indiretto al poeta altrove riconosciuto come “dolce padre / mio e de’miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre”, Dante fa seguire al dialogo con Bonagiunta, che “quasi contentato, si tacette”, un’immagine ornitologica che sembra rinnovare la memoria di Guinizzelli e del suo universo di volatili:

Come gli augei che vernan lungo il Nilo

alcuna volta in aere fanno schiera,

poi volano più a fretta e vanno in filo…

Se questa immagine non è casuale, ma rievoca la discussione fra il Lucchese fautore della vecchia maniera e il Bolognese inventore della nuova, avremmo una triangolazione perfetta: anzi, il “gradire”, cioè ‘salire’, dall’uno all’altro stile dell’espressione dantesca messa in bocca a Bonagiunta, riprenderebbe l’idea guinizzelliana dell’universo posto da Dio “a grado”. Dante, con la sua sintesi geniale, indicava i nuclei unitari e le tre varianti delle due scuole, disponeva i tre gradini dell’ascesa stilistica e, liquidando per sempre la triade della vecchia maniera (il Notaro, Guittone e Bonagiunta), prendeva dalla felice risposta di Guinizzelli lo spunto per graduare la triade della nuova: Guinizzelli, Cavalcanti e Dante. Omne trinum est perfectum.

1 Testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia su invito della CCDC il 27.11.1992.