Il pensiero inglese tra empirismo e utilitarismo

«Agisci in modo che lo spettatore imparziale possa simpatizzare con te» (A. Smith)

RAZIONALISMO ED EMPIRISMO

Il razionalismo bene inteso, indipendentemente da questa o quella aberrante forma storica, è la traduzione filosofica delle esigenze della ragione; è una visione della vita e del reale ispirata alle medesime esigenze, tra le quali non va annoverata quella di una falsa assolutezza della ragione, che porterebbe a risolvere tutto il reale nel razionale o a negare valore di realtà a tutto ciò che si discosta dal razionale. Il razionalismo, in quanto indirizzo logico e coerente, nonché adeguato a se stesso e al reale, non consiste affatto nel negare gli aspetti irrazionali della coscienza e della vita umana; il razionalismo è tale in quanto afferma la struttura razionale del reale e il primato metafisico e deontologico della ragione. Il razionalismo moderno sottolinea l’importanza delle proposizioni necessarie e universali senza le quali non si ha conoscenza dimostrata.

È quella dottrina secondo la quale le conoscenze propriamente dette, e in primo luogo quelle che sono lume e norma di tutte le altre, sono:

per quanto riguarda la loro origine, indipendenti e inderivabili dall’esperienza; non sono frutto di associazioni o trasformazioni di sensazioni, né sono, infine, acquisite mediante un processo astrattivo; sono, pertanto, a priori, innate attualmente o virtualmente;

per quanto riguarda il valore, in quanto verità di ragione, ed esse sole, necessarie, oggettive, universali.

L’empirismo vuol decifrare il grande libro della natura e dell’uomo cercando la garanzia delle sue tesi nell’esperienza, origine e collaudo delle nostre idee; nasce come esigenza di concretezza e in polemica col razionalismo (critica dell’innatismo). Fa appello all’esperienza come canone o criterio di validità della conoscenza: ogni sviluppo conoscitivo si svolge dall’esperienza e mediante l’esperienza stessa. La sua insegna potrebbe essere il motto formulato fin dall’antichità: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Ma l’empirismo si allontana dal realismo quando, in alcuni rappresentanti (ad esempio Condillac 1714-1780), ignora che soggetto e oggetto sono due poli di un medesimo atto conoscitivo (per cui l’uomo non conosce solamente l’oggetto della sua attività conoscitiva, ma si percepisce come il principio di questa attività) e che l’atto con cui l’uomo coglie se stesso, come principio di questa attività, non è distinto dall’atto con cui conosce l’oggetto, essendo la percezione di sé e dei suoi atti un elemento costitutivo della conoscenza obiettiva (ogni oggettivazione sparirebbe se il soggetto non si conoscesse come tale).

Allora l’empirismo cade inevitabilmente nel sensismo, il cui presupposto fondamentale consiste nel ritenere che non solo il contenuto di coscienza, ma anche le facoltà e le attività dell’anima non siano che «sensations transformées» (Étienne Bonnot de Condillac).

Prima obiezione. La nostra conoscenza passa da un oggetto all’altro, ma questo passaggio è sostenuto da una presenza incessante dell’io a se stesso, condizione indispensabile della nostra presenza al mondo come soggetto cosciente: l’oggetto specifica la nostra capacità di conoscere, non la produce.

Seconda obiezione. L’ipotesi della statua che, «interiormente costruita come noi», dalla sensazione più povera di contenuto conoscitivo, come quella dell’odorato, giungerebbe ai momenti più complessi della conoscenza e all’esercizio di tutte le facoltà attribuite all’anima, è ipotesi inverificabile e presuppone nell’interiorità attribuita alla statua le potenzialità che si intendono derivare dalle sensazioni. La statua non sentirebbe se non avesse la capacità di sentire, di concentrare la sua attenzione, eccetera.

La seconda e più coerente alternativa dell’empirismo, disancorato dall’analisi realistica dell’atto conoscitivo, sta nel congiunto rifiuto di ogni conoscenza che superi l’evidenza sensibile della percezione immediata e di ogni conoscenza oggettiva. Hume conclude alla soggettività di tutta la nostra conoscenza, spegnendo l’esigenza di concretezza dell’empirismo in uno scetticismo radicale.

Dopo Bacone, il cui empirismo è geniale e robustamente orientato verso il reale, «la gnoseologia dell’empirismo segna per un verso una reazione, per l’altro un proseguimento della teoria cartesiana. Un proseguimento, perché accetta il presupposto cartesiano che noi conosciamo solo idee, una reazione, perché nega che vi siano idee innate e mette tutte le idee sullo stesso piano… Negare le idee innate, partendo dal presupposto che noi conosciamo solo idee, voleva dire concludere alla soggettività di tutta la nostra conoscenza, a meno di non trovare qualche scappatoia extra-razionale» (Sofia Vanni Rovighi, Gnoseologia, Morcelliana, Brescia 1963, p. 117).

THOMAS HOBBES (1588-1679)

La filosofia ha per oggetto i corpi, le loro cause e le loro proprietà. Poiché i corpi sono o naturali inanimati, o naturali animati, o artificiali (come lo Stato), ne consegue la famosa trilogia di Hobbes: De corpore, De homine, De cive. Tutto ciò che è essenza spirituale o che non è corporeo è escluso dalla filosofia. Al cogito sostituisce il sentio et cupio, ergo sum (sento e desidero, dunque sono).

  1. Giustificazione metodologica del materialismo metafisico. Un solo principio esiste per ogni spiegazione: il movimento dei corpi. Non si tratta del moto aristotelicamente inteso, bensì del moto quantitativamente determinato, ossia matematicamente e geometricamente determinato (il moto galileiano). Sulla base del corpo, inteso come ciò che non dipende dal nostro pensiero e «coincide e si coestende con una parte dello spazio», e del moto, Hobbes tenta di spiegare l’intera realtà. L’anima è corpo: sentimenti, idee sono prodotti in essa dal movimento dei corpi esterni. Se Dio è sostanza incorporea non esiste.
  2. Radicale nominalismo. Il nome è il segno verbale di uno o più oggetti ed è foggiato dall’arbitrio umano. «Il nome è una voce umana usata ad arbitrio dell’uomo, perché sia una nota con la quale possa suscitarsi nella mente un pensiero simile ad un pensiero passato e che, disposta nel discorso e profferita ad altri, sia per essi segno di quale pensiero si sia prima avuto o non avuto in colui stesso che parla». La conoscenza effettiva è dei soli sensi: ha per fondamento i fatti. La conoscenza razionale è ipotetica: ha per base le definizioni. Pure non si dà scienza senza definizioni razionali di ciò che è oggetto di ricerca: la sola definizione valida è quella genetica. «Ubi generatio nulla, ibi nulla philosophia intelligitur». I modelli della filosofia, intesa come scienza dei corpi, sono la geometria di Euclide e la fisica di Galilei. Ma la differenza fra geometria e fisica è notevole. Le premesse della geometria sono postulati fissati da noi e la «generazione» delle figure è da noi prodotta mediante linee che tracciamo, sicché esse «dipendono dal nostro arbitrio». Hobbes precisa: «Proprio per il fatto che siamo noi stessi a creare le figure, avviene che c’è una geometria e che è dimostrabile». Noi conosciamo perfettamente ciò che noi stessi stabiliamo, facciamo e costruiamo (vi è qui un precorrimento del Vico), ma non possiamo con altrettanta certezza conoscere le cose naturali, perché non le costruiamo noi. De homine, 10: sono valide le scienze matematiche, morali e politiche, perché la generazione di queste cose dipende dal nostro arbitrio. La certezza è fondata sulla convenzionalità: sono valide quelle regole stabilite ad arbitrio per raggiungere determinati fini.
  3. Determinismo morale. Vero e falso, bene e male sono valutazioni soggettive, relative, convenzionali. La volontà è sempre intrinsecamente necessitata: ogni azione è prodotta da tutto ciò che esiste in natura. Pur essendo relativi tutti i beni, vi è tuttavia fra di essi un primo e originario bene, che è la vita e la conservazione della medesima.
  4. Rovesciamento del giusnaturalismo. L’ordine politico è deduzione geometrica delle due tendenze fondamentali della natura umana: la cupiditas, cioè l’egoismo, e la ratio naturalis, cioè la paura della morte violenta. L’uomo non è animale politico, ma homo hominis lupus: la società non è naturale, la condizione naturale è «la guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra homines)». Per ottenere sicurezza e pace, l’uomo conviene con i suoi simili in un patto sociale, mediante il quale tutti i sudditi deputano un unico uomo (o assemblea) a rappresentarli. Solo il sovrano conserva un potere illimitato su tutto, per il bene e la protezione di ciascuno. Lo Stato nasce per interesse dei sudditi e per loro volontaria soggezione, fornito dei necessari poteri coattivi. Vediamo al riguardo cosa scrive Hobbes nel Leviatano: «Il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli, e perciò ad assicurare in tal maniera, che, con la propria industria o coi frutti delle proprie terre, possano nutrirsi e vivere in pace, è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad una assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di voti, ad un volere solo… Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta Stato, in latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, o piuttosto – per parlare con più reverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, al disotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché, a causa di quest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello Stato, esso usa di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni. E in esso è l’essenza dello Stato… Colui che rappresenta questa persona, è chiamato sovrano, e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro all’infuori è un suddito». Il potere del sovrano è indiviso e assoluto e lo stesso diventa fonte di norme morali e giuridiche, che hanno un valore puramente convenzionale. Al sovrano spetta infatti di decidere su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è giusto e ingiusto, e perfino su ciò che è vero o falso in materia di religione. È questa la più radicale teorizzazione dello Stato assolutistico, dedotta non dal diritto divino, ma dal patto sociale.

JOHN LOCKE (1632-1704)

Aspetti della personalità e influenza di Locke

I manoscritti di John Locke tra il 1660 e il 1667, pubblicati dal Von Leyden nel 1954, hanno gettato nuova luce sulla storia della formazione del pensiero lockiano. Lo scritto più importante è il Saggio sul diritto naturale (1664) per l’atteggiamento filosofico che esso ci rivela, a mezza strada tra Hobbes – in quegli anni in auge – e la Scuola di Cambridge. Si critica l’innatismo e il consensus gentium: vi è solo un lume naturale che, usato bene, scopre alla nostra coscienza la legge della nostra natura morale. Qui ancora Locke condivide l’autoritarismo di Hobbes, ma cerca di fondarlo su basi teologiche e non su rapporti di forza. La giustizia e non l’utilità è il fondamento della legge di natura: l’utilità è una conseguenza della rettitudine. Nel 1671 Locke, al centro di vivaci discussioni politiche e religiose tra un gruppo di amici, riflette sulle cause della difficoltà a trovare un accordo comune. Si pone allore un problema: «Mi venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare la nostra stessa capacità, e vedere quali oggetti siano alla nostra portata e quali superiori alla nostra comprensione » («Epistola al lettore», premessa al Saggio sull’intelletto umano). La filosofia di Locke nasce a stretto contatto con l’attività pratica; e anche la sua intonazione empiristica consiste soprattutto nello scegliere, tra più soluzioni possibili, quella che meglio s’accorda col «buon senso» e con le esigenze di un ordinato vivere umano. Si tratta di una ricerca del ragionevole, piuttosto che del razionale. Questa consapevolezza pragmatica ispira la concezione lockiana della politica e della religione, e, infine, anche del conoscere in generale, in quel Saggio sull’intelletto umano che il Locke elaborò per circa vent’anni, e che, uscito nel 1690, gli diede la massima fama di filosofo.

Gli aspetti fondamentali della sua personalità sono:

– la fedeltà programmatica all’esperienza in ogni campo e una moderata tolleranza delle opinioni altrui, non per indifferentismo o per opportunismo, ma per la coscienza dei limiti del proprio sapere;

– la profonda convinzione del valore morale e religioso dell’uomo, valore da salvaguardare nelle espressioni civili, politiche, educative della propria personalità;

– un empirismo problematico in campo gnoseologico.

Locke ebbe una notevole influenza nella filosofia del tempo e venne considerato il maestro del liberalismo. Il Saggio ispirò Condillac, i Pensieri sull’educazione ispirarono Rousseau e il Saggio sul governo civile Montesquieu. L’empirismo di Hume e il criticismo kantiano svilupparono temi e motivi lockiani; Locke divenne il filosofo di moda del Settecento, ma il suo trionfo fu pagato al duro prezzo di avvilimento della parte più sana del suo empirismo. Il primo libro del Saggio – la critica dell’innatismo – divenne la conclusione dell’intera opera. «Da Platone a Locke è il vuoto: solo Locke ci ha dato un libro in cui non ci sono che verità e verità perfettamente chiare» – scrive Voltaire -. «Cartesio e Malebranche hanno scritto i romanzi dell’anima, Locke ne ha scritto modestamente la storia e ha dimostrato la costitutiva insolubilità dei problemi metafisici». Kant caratterizzò assai bene il Saggio definendolo «una fisiologia dell’intelletto».

Si riportano di seguito i giudizi di Gustavo Bontadini e Armando Carlini, che hanno studiato approfonditamente il pensiero lockiano. Secondo Bontadini, il suo pensiero filosofico è scisso e ondeggiante, ben lontano dall’oleografia di Locke pensatore popolare e chiarificatore mondano di problemi filosofici: vi è nella sua filosofia un’apparente chiarezza che maschera l’indecisione di fondo di un empirismo zoppicante. Il suo è un «razionalismo empiristicamente ridotto». Per Carlini il Locke, non contento della riforma baconiana dei metodi sperimentali, affrontò il problema dei limiti dell’instrumentum instrumentorum, ossia della mente stessa del soggetto conoscente e ci diede un concetto di soggettività del reale. Dal punto di vista religioso il latitudinarismo lockiano mette a capo a un nuovo deismo. Mentre quello precedente pensava la religione naturale come fondamento comune a tutte le religioni positive, il deismo lockiano vede nel cristianesimo la religione naturale in cui tutte le altre religioni rivelate si debbono risolvere e annullare.

Priorità della pregiudiziale gnoseologica e la polemica contro l’innatismo

Mentre Bacone tende a darci una legislazione della ricerca scientifica, Locke intende compiere una verifica dei poteri dell’intelletto umano mediante la ricerca della origine delle idee. Lo scopo dell’indagine del filosofo inglese è ben chiarito fin dai primi passi del Saggio sull’intelletto umano: «Se possiamo scoprire fin dove l’intelletto può estendere la sua vista, fino a che punto ha la facoltà di arrivare alla certezza, e in quali casi si può solamente giudicare e indovinare, forse impareremo ad accontentarci di ciò che è raggiungibile nello stato in cui ci troviamo». Il compito pregiudiziale della ricerca speculativa è dunque di carattere gnoseologico. Qual è l’origine delle idee, quali sono le effettuali capacità dell’uomo? Se non si risponde prima a questi problemi è avventuroso affrontare le questioni più complesse della scienza e della filosofia. Il metodo seguito da Locke è analitico-descrittivo. Il presupposto dell’indagine può essere così sintetizzato: «noi non conosciamo direttamente che le idee ma le idee che noi troviamo nella nostra coscienza non sono affatto le idee innate». L’impostazione lockiana del problema gnoseologico appare pertanto come un proseguimento della teoria cartesiana e per un verso come una reazione ad essa: un proseguimento, perché accetta il presupposto cartesiano che noi conosciamo solo idee, una reazione perché nega che vi siano idee innate. Idee significa rappresentazione, qualcosa che occupa la nostra mente e esiste solo in quanto pensata. Ma come le idee si trovano nell’intelletto? Come si sono formate? Indagare la genesi psicologica è la via che si deve battere per scoprire quali vie sono vere.

Locke polemizza in particolare nei confronti di Cartesio e dei platonici di Cambridge, sulla base di tre argomentazioni fondamentali.

  1. È contraddittorio dire: le idee sono nell’intelletto e nello stesso tempo riconoscere che l’intelletto non le percepisce nella loro immediata attualità. Se possedere un’idea significa averne coscienza, non esistono idee innate, perché di esse noi non ne abbiamo coscienza fin dalla nascita. Gli idioti non giungono mai a pensarle, i bambini vi giungono troppo tardi attraverso procedimenti suggeriti dall’esperienza.
  2. Non vi sono idee su cui sussista un consenso universale. Locke ammette che se un’idea dovesse essere innata questa dovrebbe essere quella di Dio creatore dell’universo e fondatore della legge morale. Ma neppure essa è innata perché le nozioni più alte della divinità furono acquisite solo mediante il pensiero e il retto uso delle facoltà umane. Se l’idea di Dio non è innata a maggior ragione non lo è nessun’altra.
  3. Anche le idee evidenti sono acquisite attraverso l’esperienza e la riflessione. Non si deve confondere l’innatismo con la verità di un principio: idee e principi possono essere veri (principio di identità e non contraddizione) e nello stesso tempo non essere innati, perché acquisiti nel corso dell’esperienza individuale.

Le due fonti: sensazione e riflessione – Le idee

Poiché nessuna idea è innata, tutto il contenuto della conoscenza deriva dall’esperienza, è nostra formazione. Le fonti dell’esperienza sono due: la sensazione e la riflessione, l’esperienza esterna e l’esperienza interna. Mediante la sensazione l’intelletto acquista le idee-impressioni derivanti dal contatto dei nostri sensi con gli oggetti sensibili; in secondo luogo, riflettendo su noi stessi, ci accorgiamo di percepire, pensare, dubitare, credere, volere, eccetera. Le idee-impressioni indicano qualità che attribuiamo alle cose (giallo, bianco, freddo, molle, amaro, ecc.); sono idee di riflessione tutte le idee che si riferiscono ad operazioni del nostro spirito, conoscibili in un secondo tempo, quando l’attenzione si porta sul mondo interiore. L’anima nostra è un «foglio bianco» su cui l’esperienza imprime i suoi caratteri: «Supponiamo che lo spirito sia un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva. La nostra osservazione adoperata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le operazioni interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. Queste sono le due fonti della conoscenza, dalle quali scaturiscono tutte le idee che abbiamo o possiamo avere naturalmente» (Saggio). Locke aggiorna il paragone aristotelico dell’anima tavoletta cerata, ma dimentica di precisare che l’immagine aristotelica è ben lontana dal significato empirico che posteriormente le si è voluto dare. Aristotele nega che l’intelletto abbia la conoscenza in atto di oggetti particolari, non essendo determinato a conoscere un oggetto piuttosto che un altro; ma il filosofo di Stagira afferma che i primi principi sono colti intuitivamente dall’intelletto, in quanto sono essi a fondamento di ogni conoscenza e di ogni esperienza come di ogni discorso. Malgrado il suo empirismo, Locke non è affatto un sensista; per il filosofo inglese rimane vero che solo il contenuto di conoscenza è di nostra formazione, mentre i poteri intellettivi non sono essi stessi prodotti dall’esperienza.

Le idee si distinguono in semplici, complesse e generali.

Idee semplici sono quelle che l’analisi non può ridurre in altre rappresentazioni più elementari; esse sono come l’alfabeto del pensiero.

Idee complesse sono prodotte dalla unione di varie idee semplici. Lo spirito, passivo nel ricevere le idee semplici, diventa attivo nel riordinare il materiale delle idee semplici. Le idee complesse si raggruppano in tre categorie.

  1. Modi: idee complesse che non sussistono di per sé; non cose, ma proprietà, azioni, sentimenti (ad es. dozzina, gratitudine).
  2. Sostanza: si ha quando la mente considera una molteplicità di idee semplici come unificate in un «sostrato», qualcosa che è sotto. La critica lockiana dell’idea complessa di sostanza muove non dal concetto metafisico di sostanza come esse in se, capace di esistere e di agire da sé, in quanto soggetto di cui si può affermare qualcosa, ma dall’immagine spaziale che l’etimologia latina suggerisce. La sostanza è «l’ignoto sostegno» di qualità sensibili e questo vale sia per la sostanza spirituale che materiale. La critica di Locke oscilla tra l’inconoscibilità e la irrealtà stessa della sostanza. Antonio Rosmini, nel Nuovo Saggio, si chiede: perché si negò l’idea di sostanza? E risponde: perché si credette che per poter avere l’idea di sostanza si richiedesse più che non si richieda. Una modificazione richiede un soggetto modificante: questo soggetto è una realtà sostanziale. Questo soggetto non saprete mai cosa sia, in maniera positiva, se lo spogliate delle sue proprietà e dei suoi effetti.
  3. Relazione: la mente umana non si limita a considerare una cosa isolata, ma passa a considerare i rapporti delle cose tra loro. Tra le idee di relazione, poste dalla nostra mente, sono di particolare importanza quelle di causa ed effetto e di identità e diversità. Il concetto di causa di cui Locke si servirà esplicitamente per dimostrare la esistenza di Dio è definito in modo ambiguo come «l’antecedente riconosciuto necessario, ciò che produce un’idea semplice o complessa noi lo chiamiamo causa e ciò che è prodotto lo chiamiamo effetto». In altri termini la causa ha carattere formale, non è nient’altro che la concatenazione reciproca delle nostre idee, ma appare sfornita di un suo proprio valore ontologico.

Come affermare l’identità dell’io? Locke giustamente afferma: «è impossibile che qualcuno percepisca senza che percepisca di percepire», ma ritiene di non poter oltrepassare la coscienza delle nostre attività per affermare l’identità personale come realtà sostanziale. Nega che si possa affermare oltre la coscienza dell’attività del pensiero l’unità metafisica del soggetto pensante.

Idee generali: sono enucleate dal complesso dell’esperienza (astrazione che non coglie l’essenza reale ma solo quella nominale) per essere poi usate in tutti i casi simili che possono essere sperimentati (generalizzazioni). Sono designate con un nome il quale le rende comunicabili. Hanno un valore pratico e sociale, e il nome è nient’altro che un modo di semplificare e rendere maneggevole lo schema di un’esperienza sensibile. L’astrazione lockiana appartiene all’ordine riflesso, quella tomista è attività spontanea, intuizione astrattiva, essendo il nostro modo di vedere intellettivo. L’astrazione lockiana appiccica un nome universale a idee particolari; Locke non vede che il concetto, pur dandoci la «talità», la determinazione essenziale del percepito, non riempie per nulla il vuoto della nostra ignoranza nei confronti della cosa percepita e allora svaluta nominalisticamente il concetto, avendo chiesto ad esso ciò che non può dare.

Mediante le idee che cosa ci è dato di conoscere? Quando la nostra conoscenza è vera? Locke distingue tra una conoscenza intuitiva (quella del cogito), una conoscenza dimostrativa e l’attualità della sensazione.

La conoscenza dimostrativa è richiesta quando la mente non coglie certi nessi con un solo sguardo, ma è costretta a ricorrere a prove, cioè ad altre idee intermedie. Si può paragonarla all’immagine di un viso riflessa da uno specchio all’altro. Dell’esistenza di Dio si può dare dimostrazione nel seguente modo: l’uomo è certo della propria esistenza e non può produrre se stesso, ma ciò che è e ha avuto un principio dev’essere prodotto da qualche cosa d’altro.

Per Locke noi abbiamo la conoscenza del mondo per mezzo della sensazione attuale. La sensazione non è certa se non per il tempo che dura l’impressione attuale delle cose stesse sui nostri sensi. Altro è vedere il sole di giorno, altro pensarlo di notte.

Ma se ci domandiamo che cosa sono quegli oggetti esterni che producono in noi le sensazioni, qui ogni certezza vien meno. Quando la nostra conoscenza è vera? Locke risponde in modo oscillante: la verità per un verso è nient’altro che la coerenza formale tra le idee, percezione del loro accordo o disaccordo; per un altro verso la validità del nostro conoscere è innanzitutto conformità delle idee alla realtà delle cose. Non è in grado di giustificare le sue intenzioni realistiche né può conciliarle con i suoi atteggiamenti antimetafisici.

L’esperienza non ci dà che idee semplici di qualità sensoriali: di queste qualità possiamo dire che alcune sono soggettive (le qualità secondarie) e altre oggettive (le qualità primarie).

Le qualità primarie (solidità, estensione, figura, moto o riposo, numero) ci danno al più la costituzione generale comune a tutti i corpi. Le idee di qualità primarie sono immagini di qualità realmente esistenti nei corpi; invece alle idee delle qualità secondarie non corrispondono nei corpi proprietà reali e inseparabili da essi. Ad esempio: i corpi non sono colorati, ma hanno, in virtù della loro estensione e del loro movimento, il potere di produrre in noi le impressioni-idee di colore. In altri termini, le qualità secondarie dipendono dal vario reciproco rapporto e dalle combinazioni delle qualità primarie tra loro.

Osservazioni.

a. In Galileo e Cartesio la distinzione si fonda tra ciò che è quantificabile in termini matematici e ciò che non lo è.

b. La distinzione implica riferimento ontologico alla realtà esterna del mondo naturale; ma se conosciamo solo idee, come possiamo sapere che esse si conformano alle cose?

In realtà il canone lockiano della certezza della sensazione limitata all’attualità di essa non ci permette né la distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie, né la giustificazione del sorgere della scienza. Infatti per Locke non esistono scienze dimostrative, ma ipotesi che riescono; non v’è certezza, ma probabilità.

GEORGE BERKELEY (1685-1753)

George Berkeley riprende il tema cruciale della filosofia lockiana: posto che l’oggetto immediato del nostro conoscere siano le idee, è possibile garantire una realtà esterna corrispondente? Berkeley risponde che da un punto di vista gnoseologico il problema della corrispondenza tra le idee e le cose non ha senso perché le cose, per noi, esistono solo in quanto percepite dal nostro spirito, in quanto nostri contenuti mentali o idee. «Esse est percipi». Dal punto di vista gnoseologico l’oggetto e la percezione sono la stessa identica cosa; ogni oggetto non è che un insieme, una collezione di idee o percezioni (la mela ad esempio, è l’insieme di un certo colore, di un odore, di una figura, ecc.). Non si nega la realtà; si nega che le cose possano esistere senza essere riferite ad una mente: ciò che io percepisco, esiste. La percezione prova quella realtà che è identica ad essa, ma non può provare una realtà che le sia estranea. In quanto esperita, la realtà fenomenica è indubitabile. «Le idee impresse nei sensi sono cose reali o esistono realmente: questo non lo neghiamo, ma neghiamo invece che possano esistere senza le menti che le percepiscono, o che siano imitazioni od immagini di certi archetipi esistenti fuori della mente; giacché il vero essere di una sensazione o idea consiste nell’esser percepita, e un’idea non può somigliare ad altro che ad un’idea» (Principi della conoscenza).

Non irrealismo, dunque (Voltaire diceva che per Berkeley in battaglia morivano non uomini ma idee di uomini), ma attualismo fenomenistico. L’attualismo fenomenistico è la risoluzione di ogni eventuale antefatto del nostro atto di esperienza nella concretezza del nostro atto conoscitivo; significa che le cose percepibili sono realmente esistenti solo nell’atto onde effettivamente le percepiamo. Possiamo pensare agli alberi in un dato parco senza percepirli, ma solo apparentemente. Il fatto di pensarli ci impedisce di considerare gli alberi del parco come non pensati. Ma quale realtà spetta alle cose negli intervalli in cui non sono percepite da noi? Non si deve credere che le cose siano annichilite e create dal nostro atto percettivo: le cose non percepite da noi non sono per noi, ma sono in quanto percepite e volute da Dio. Berkeley fa proprio l’occasionalismo di Malebranche: è Dio stesso che, presente nella nostra anima, produce in essa le idee e i rapporti necessari con cui sono determinate le idee nei nostri spiriti (sono le cosiddette leggi di natura). Le sensazioni sono segni di un linguaggio naturale con cui Dio parla agli uomini.

La negazione della sostanza materiale è uno dei punti della filosofia di Berkeley più controversi.

Se l’esse è dato a noi dal percipi, non è più possibile mantenere la distinzione tra qualità primarie e secondarie. Le qualità primarie non sono più oggettive delle secondarie, dal momento che le une e le altre non possono sussitere per noi fuori dalla percezione che ne abbiamo. C’è poi un’altra considerazione: le qualità primarie non sono percepibili senza le secondarie. Non si dà estensione che non sia colorata, per esempio.

Se la materia è – come la concepiscono gli scienziati – il supporto invisibile delle qualità sensibili, si deve affermare la realtà delle qualità sensibili, quale oggetto di percezione, mentre la sostanza-supporto, cadendo fuori dalla percezione, è un non-ente. La materia-sostanza è un termine vuoto di significato, un nome astratto inconcepibile per la mente come ogni idea astratta. Per Berkeley dunque la causa principale degli errori e delle incertezze che si incontrano in filosofia è la credenza nella capacità dello spirito di formare idee astratte. La critica a Locke su questo punto è in nome di un radicalismo nominalista che discende anch’esso da Ockham.

Gustavo Bontadini osserva a questo proposito che il Berkeley, dicendo che io nel pensare la pianta o il triangolo mi debba riferire ad una pianta individua – sentita o immaginata – e a un determinato triangolo che poi considero rappresentativo di tutti gli oggetti della stessa natura, sostiene che noi pensiamo sulle immagini e che io ho pensato la natura della pianta o del triangolo. Ora Berkeley mi avverte che tale natura io non la posso pensare per se stessa, campata in aria, ma debbo coglierla nell’individuo concreto: la critica dell’astrattezza intesa in questo senso ha in realtà una piena plausibilità teorica e ci fa ricordare che i grandi assertori della «astrazione» concepivano l’astratto proprio come l’intelligibile del concreto (giacché la natura è la natura dell’individuale). Berkeley nei paragrafi 7 e 9 dell’«Introduzione» al Trattato sui principi della conoscenza umana critica l’astrazione impropria – che consiste nel ritenere una determinazione del concreto lasciando le altre o nel ritenere il comune di più oggetti lasciando il proprio. Locke l’intendeva così. L’astrazione propria Berkeley l’ammette senza teorizzarla. Henri Bergson riassume così i temi della filosofia di Berkeley: immataterialismo, nominalismo, volontarismo e spiritualismo.

DAVID HUME (1711-1776)

Lo scetticismo moderato

Le sue opere principali sono il Trattato sulla natura umana e le Ricerche sull’intelletto umano: su quest’ultima opera si fermò la meditazione di Kant. David Hume chiama «moderato» il suo scetticismo rispetto a quello pirroniano: in realtà è superiore a ogni altro per ampiezza e rigore critico. Vi è un’alternativa costitutiva nell’uomo: un istinto di credenza, una fede spontanea risolve in probabilità ogni conoscenza; ma questa probabilità ridiventa dubbio insanabile per opera di un altro istinto, quello della ragione. Secondo Armando Carlini, Hume trasforma il dubbio cartesiano in alternativa dialettica credenza – ragione; mentre per Nicola Abbagnano l’empirismo di Hume è la riduzione del mondo umano alla soggettività empirica dell’io. I due tipi di percezione sono le impressioni e le idee. Le sensazioni, le passioni, le emozioni nell’atto in cui sentiamo, desideriamo, odiamo sono percezioni di maggior forza e evidenza: costituiscono le impressioni. Le idee sono impressioni illanguidite. Il pensiero è povero, e apparente è l’illimitata libertà di pensiero. Due esempi di idee sono il tempo e lo spazio: sono modi di presentarsi delle impressioni nella coesistenza (spazio) e nella successione (tempo). Ogni realtà deve risolversi nei rapporti di connessione tra impressioni e idee. Hume fa sua la negazione di Berkeley delle idee astratte ed estende la negazione berkeleiana del concetto di sostanza materiale ad ogni sostanza in quanto tale. Esistono solo idee particolari (non c’è l’idea del triangolo senza che ci si riferisca ad un particolare triangolo isoscele, scaleno, ecc.), assunte come segni di altre idee particolari ma simili. Quando abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee per altri aspetti diverse (le idee dei diversi triangoli) adoperiamo un nome unico per indicale. La possibilità di un’idea di spiegare la funzione di segno si verifica solo per abitudine. Tra le idee che costituiscono il mondo dell’esperienza c’è un ordine per la connessione psicologica che tra di esse si è operata. Hume si disse il Newton della psicologia per aver scoperto le leggi dell’associazionismo psicologico tra le idee nella somiglianza (un ritratto ci fa pensare all’originale), contiguità (il ricordo di un mobile di una casa ci fa venire in mente un altro mobile della stessa casa), causalità (ferita – dolore che ne deriva). Il valore delle matematiche poggia sulla relazione di somiglianza in quanto riferita a semplici idee e non a cose reali, alle quali si riferiscono le impressioni. Nel regno delle pure idee, l’immaginazione è sovrana: i rapporti che essa stabilisce non possono essere smentiti. Anche se non esistesse nella natura neppure un triangolo, le verità di Euclide conserverebbero sempre la loro certezza. Non così accade nel mondo delle realtà di fatto. Il contrario di un fatto è sempre possibile. Il sole che si leva oggi, potrebbe non levarsi domani. La relazione tra causa ed effetto non è conoscibile a priori e anche dopo essere stata accertata per esperienza è arbitraria, priva di qualsiasi necessità oggettiva. La connessione causale è «semplice aspettazione psicologica» (hoc post hoc); la sua necessità è un presupposto ingiustificabile dell’esperienza dettata dall’abitudine (custom). È l’abitudine che ci spinge a credere che domani il sole si leverà, come ieri, come oggi. Ma l’abitudine è guida infallibile per la pratica della vita, non principio di giustificazione razionale o filosofica. Ogni conoscenza è risultato di un’abitudine, è sentimento, istinto, credenza. Non è finzione, è sentimento naturale. Nell’Estratto del Trattato sulla natura umana il filosofo inglese chiarisce bene il suo pensiero sull’argomento: «Tutti gli argomenti probabili sono fondati sulla supposizione che vi sia conformità fra il futuro e il passato e perciò non possono provare tale supposizione. Questa conformità è una questione di fatto e, se deve essere provata, non ammetterà altra prova che non sia quella tratta dall’esperienza. Ma la nostra esperienza del passato non può provare nulla del futuro, se non in base ad una supposizione che ci sia somiglianza fra passato e futuro. Perciò questo è un punto che non ammette affatto prova di sorta e che noi diamo per concesso senza prova alcuna. Noi siamo determinati soltanto dall’abitudine a supporre che il futuro sia conforme al passato… I poteri in forza dei quali operano i corpi sono del tutto sconosciuti. Noi percepiamo soltanto le loro qualità sensibili; e quali ragioni abbiamo di ritenere che gli stessi poteri saranno sempre congiunti con le stesse qualità sensibili? Non è dunque la ragione la guida della vita, ma l’abitudine. Essa soltanto muove la mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato. Per quanto facile possa sembrare questo passo, la ragione non sarebbe mai in grado di compierlo per tutta l’eternità». Dal punto di vista della ragione non si può affermare una realtà diversa dalle percezioni ed esterna ad esse, la realtà esterna è ingiustificabile: ma l’istinto a credere in essa è ineliminabile. La vita ci distoglie dal dubbio filosofico e ci affida di fatto alla credenza istintiva. L’anima è una repubblica, i cui membri sono uniti da un vincolo reciproco di interdipendenza. L’io è un fascio di percezioni legate insieme dai rapporti di somiglianza e causalità. Ricorriamo alla nozione di «io» per quell’habitus che ci fa ridurre il diverso all’identico. Dice Hume nell’Estratto del Trattato sulla natura umana: «L’anima, in quanto la possiamo concepire, non è che un sistema o una serie di percezioni differenti, di caldo e di freddo, di amore e di collera, di pensieri e di sensazioni, tutte unite insieme, ma senza alcuna perfetta semplicità o identità… Noi conosciamo soltanto qualità o percezioni particolari. Come la nostra idea di un corpo, per esempio di una pesca, non è che l’idea di un particolare sapore, colore, figura, grandezza, solidità, ecc., così la nostra idea di una mente non è che quella di particolari percezioni, senza la nozione di tutto quello che chiamiamo sostanza, semplice o composta che sia».

Utilità e simpatia in Hume

David Hume ha esteso alla sfera delle valutazioni morali alcune considerazioni relative alle valutazioni estetiche. «L’utilità» di un comportamento, di una «azione» – è la sua tendenza a realizzare «un certo fine» che possa essere considerato «piacevole» (Ricerca sui principi della morale, V, 1 e 2).

L’utilità, dice letteralmente Hume, «è piacevole e ottiene la nostra approvazione. Questa è una questione di fatto, confermata dall’osservazione giornaliera. Ma, utile? Per chi? Certamente per l’interesse di qualcheduno. L’interesse di chi, dunque? Non già il nostro soltanto; poiché la nostra approvazione si estende più in là di noi. Deve essere, dunque, l’interesse di quelli a cui giova il carattere o l’azione che viene approvata; e da ciò dobbiamo concludere che, per quanto lontani, essi non ci sono totalmente indifferenti». «Questo principio è – secondo Hume – una grande sorgente» di distinzioni estetiche e morali (Ricerca, V, 1).

Quando un oggetto produce piacere in chi lo possiede, è sempre considerato bello, quando invece produce dispiacere e pena, è considerato sgradevole o brutto (Trattato, III, 3, 1). La comodità di una casa, la fertilità di un campo, la vigoria di un cavallo, la sicurezza e la velocità di navigazione di un vascello costituiscono rispettivamente «la principale bellezza» di questi oggetti.

L’oggetto considerato bello qui ci piace «soltanto per la sua tendenza a produrre un certo effetto» determinato. Tale effetto «consiste nel piacere o nel vantaggio di qualche altra persona». Ebbene, il piacere e il vantaggio di una persona che ci sia estranea può, a sua volta, recare piacere mediante simpatia (Trattato, III, 3, 1).

Quando un oggetto è causa di piacere in chi lo possiede è, conseguentemente, causa di piacere nell’osservatore il quale simpatizza col possessore. Per «la maggior parte» le opere artistiche sono stimate belle in rapporto alla loro adeguatezza all’uso che l’uomo ne fa. La bellezza non è una qualità assoluta, ma relativa che ci piace per nessun’altra ragione al di fuori della sua tendenza a produrre un fine «piacevole». Il medesimo principio «in molti casi» genera i nostri sentimenti morali così come quelli relativi alla bellezza (ibidem).

Hume vuol qui insomma mettere in luce l’esistenza di «molti casi», che, secondo lui, «sono la maggior parte», nei quali la valutazione estetica, e di conseguenza anche la valutazione morale, si fondano sull’utilità mediata, per così dire, dalla simpatia. Importante è tenere presente che, per Hume, la considerazione utilitaristica, come considerazione del piacere che consegue alla realizzazione di un determinato fine, implica sempre il processo simpatetico. È utile soltanto ciò che possa essere considerato tale dal punto di vista della partecipazione simpatetica.

Quando un oggetto è causa di piacere in chi lo possiede, è utile. Ma quando è che il piacere di chi possiede un oggetto può essere considerato come piacere vero, non illusorio, né pazzesco? Quando può essere oggetto di simpatia. In definitiva, l’utilità di una cosa o di un comportamento è sempre motivo di approvazione di quella cosa o di quel comportamento quando è utilità vera e obiettiva. L’utilità è vera e obiettiva quando è socialmente rilevante. È socialmente rilevante quando è oggetto di partecipazione simpatetica. (Ciò per il carattere di socialità proprio del processo simpatetico).

Di conseguenza Hume può legittimamente contrapporsi, come effettivamente si contrappone, alle dottrine le quali hanno derivato il loro fondamento dell’approvazione morale dall’egoismo. Appunto perché l’utilità, che è sempre suscettibile di approvazione morale, non si riduce, secondo Hume, all’utilità egoistica, non si riduce cioè al piacere immediato prodotto dall’uso di una cosa o dall’esercizio di un’azione. «Spesso – egli dice – noi lodiamo azioni virtuose compiute in tempi molto remoti o in paesi lontani nelle quali la massima sottigliezza dell’immaginazione non saprebbe scoprire nessuna apparenza di egoismo né trovare qualche connessione della nostra felicità e sicurezza presente con avvenimenti così estranei a noi». In definitiva l’utilità, che è motivo dell’approvazione morale, non è immediata perché, per poter essere riconosciuta, ha bisogno di quella relazione emozionale in cui si determina la partecipazione simpatetica. L’utilitarismo simpatetico è così del tutto diverso dall’utilitarismo immediato e dall’utilitarismo riducibile nella forma della morale egoistica (cfr. Luigi Bagolini, La simpatia nella morale e nel diritto, 3a ed., Giappichelli, Torino 1975, pp.76-79).

Secondo Frederick Copleston l’etica di Hume contiene differenti linee di pensiero non ben armonizzate tra loro. «L’elemento utilitaristico fu successivamente sviluppato da Bentham e dai due Mill, mentre l’insistenza sul sentimento ha trovato nuova vita nell’empirismo moderno, nelle dottrine emozionali dell’etica» (Storia della filosofia, V, Brescia 1967, p. 435).

ADAM SMITH (1723-1790)

Amico di Hume, di cui scrisse la biografia, Adam Smith (1723-1790) integra e rende espliciti i contenuti dell’etica del grande filosofo scozzese, sottolineando la necessità di integrazione tra la utility e la propriety, che è l’atteggiamento in cui il piacere derivante dall’armonica organizzazione dei mezzi idonei alla realizzazione di un fine può prevalere sul piacere concernente la realizzazione stessa del fine. La morale della simpatia di Smith è stata messa in forte rilievo nei volumi di Luigi Bagolini La simpatia nella morale e nel diritto e David Hume e Adam Smith.

Smith si impegnò a fondo nello studio della natura umana sia per determinarne le tendenze, sia per evidenziare tra esse quelle che contengono il germe della moralità o che le sono favorevoli, prima di tutte la simpatia. Egli mira a fondare la morale sull’esercizio e sullo sviluppo di una simpatia disinteressata, altruistica, che diventa sentimento di umanità e benevolenza solo se razionalizzata. Insomma, perché sia idonea a procurare la felicità degli altri e a farci gioire di essa, la simpatia non deve rimanere un impulso irriflesso e parziale, ancora troppo vicina al contagio degli animali; occorre invece che proceda dalla ragione la quale eleva una tendenza favorevole alla moralità a legge di giustizia e di reciprocità, a dovere.

Nella Teoria dei sentimenti morali, apparsa nel 1759, Smith si serve di un paragone che ci aiuta a capire il fondo del suo pensiero: «Pensiamo a noi stessi come se dovessimo agire in presenza di una persona piena di candore e di equità, che non ha alcuna relazione particolare con noi o di quelli i cui interessi dipendono dalla nostra condotta: una persona che non è né nostro padre, né nostro fratello e neppure nostro e loro amico, ma è semplicemente un uomo, uno spettatore imparziale che guarda alle nostre azioni con lo stesso distacco con cui noi guardiamo alle azioni di un’altra persona» (II, 1). Il porsi immaginativamente nella situazione di un altro non basta quindi a costituire una valutazione morale. È necessario che la valutazione implichi il punto di vista di uno spettatore imparziale e ben informato. Smith giunge a formulare la legge morale in questi termini: «Agisci in modo che lo spettatore imparziale possa simpatizzare con te». Commenta Luigi Bagolini: «Perché una mia azione, nel momento in cui sto per compierla, mi risulti degna di lode, bisogna che immagini di trovarmi nella situazione dei destinatari, reali o ipotetici, della mia stessa azione e che, nello stesso tempo, io conservi la consapevolezza della situazione in cui la mia azione si è svolta, si svolge o si svolgerà. In questo modo mi costituisco spettatore imparziale della mia azione» (Luigi Bagolini, David Hume e Adam Smith, Patron, Bologna 1976, p. 47). Va sempre tenuto presente che l’imparzialità non è assoluta, ma relativa agli standards sociali della condotta.

La morale della simpatia differisce profondamente dalle teorie utilitaristiche di Jeremy Bentham e John Stuart Mill, perché in essa non si tratta di procedere a un qualsiasi calcolo dell’interesse o del piacere, ma solamente di obbedire ai sentimenti disinteressati che portano l’uomo a sacrificarsi per un altro e a lavorare per il bene comune della società e dell’umanità. Ci si deve, però, chiedere: fino a che punto la morale della simpatia può essere classificata, come pure voleva il suo teorizzatore, una morale del sentimento? E se la simpatia per costituirsi a principio morale deve far ricorso alla ragione, questo ricorso come si giustifica in un contesto in cui il sentimento conservi il primato? Né è sufficiente dire che occorre armonizzare ragione e sentimento; rimane, infatti, il problema di sapere qual è nel loro rapporto l’elemento formale, strutturante. In ciò la concezione di Smith, peraltro così fine e nobile, mostra un’ambiguità irrisolta.

JEREMY BENTHAM (1748-1832)

L’utilitarismo è il nome che si dette quella corrente filosofica che pone il «principio di utilità» a fondamento della vita morale e sociale. I suoi massimi rappresentanti sono: il penalista Jeremy Bentham (1748-1832), James Mill (1773-1836) e il figlio di questi, John Stuart Mill (1806-1873). Il clima in cui nasce e si sviluppa l’utilitarismo vede la confluenza del tradizionale empirismo inglese, dell’illuminismo e poi del positivismo che in Francia si affermò con Claude Henri Saint-Simon (1760-1825) e Auguste Comte (1798-1857). Bentham codificò il «principio di utilità» nella Introduzione ai principi della morale e della legislazione e l’opera, apparsa nel 1789, ebbe immediatamente un’eco straordinaria.

Nel primo capitolo dell’Introduzione Bentham scriveva: «Per utilità si intende quella proprietà, in qualunque oggetto, che lo rende atto a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene, ovvero a prevenire che avvenga danno, pena, male o infelicità alla persona o all’ente di cui si considera l’interesse: se questo ente è la comunità in generale, si tratta della felicità della comunità; se è un particolare individuo, della felicità di questo individuo». Ottant’anni dopo Stuart Mill ribadiva lo stesso concetto: «Coloro che sanno qualcosa della questione, sanno benissimo che ogni scrittore, da Epicuro a Bentham, che abbia sostenuto la teoria dell’utilità, non intende per utilità qualcosa che vada distinto dal piacere, ma il piacere stesso insieme alla mancanza di dolore» (Utilitarismo, cap. 2, 1863). È chiaro che bisogna distinguere l’utile degli economisti dalla nozione filosofica di utilità. Vilfred Pareto coniò il termine greco ofelimità (Cours d’économie politique, Losanna 1896) per designare la qualità fondamentale degli oggetti economici, cioè il loro valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità. Ad esempio, uno stupefacente ha un valore d’uso, ma non ha utilità. Per Bentham utile è, invece, solo ciò che contribuisce al nostro benessere considerato oggettivamente e non ciò che produce un piacere soggettivo transitorio, anche se fornito di un forte potere di attrazione. Come si vede, la difficoltà strutturale dell’utilitarismo balza subito agli occhi nel momento in cui i suoi teorici ne formulano i principi, non essendo affatto scontato il passaggio dalla valutazione individuale di ciò che si direbbe piacevole a ciò che è utile per la comunità.

Gli antecedenti storici dell’utilitarismo sono da cercare nel mondo greco ed ellenico: l’edonismo cirenaico, prima, e quello epicureo, poi, quali che siano le loro differenze sono infatti veri e propri sistemi di morale utilitaria per i quali l’uomo ha interesse a scegliere il solo bene richiesto dalla sua natura, il piacere, e la virtù morale consiste nel saper calcolare le conseguenze gradevoli o dolorose delle nostre azioni. La novità di Bentham sta nell’aver posto a fondamento del suo edonismo non, come si dice, l’etica di Adam Smith, ma una delle sue tesi di economia politica, un assunto a cui l’autore della Ricchezza delle nazioni non conferiva alcun significato «morale» o «immorale»: la corrispondenza tra l’interesse degli individui e l’interesse generale, la cosiddetta «identità naturale degli interessi». Sicché, alla domanda: «Supponendo che ogni uomo sappia calcolare il suo interesse bene inteso, ne conseguirà che ognuno, cercandolo, cercherà anche l’interesse degli altri?», la prima risposta di Bentham è un sì puro e semplice. Tuttavia egli era uno studioso di diritto penale e sapeva fin troppo bene che il diritto penale non sarebbe stato né inventato né applicato se l’identità naturale degli interessi fosse universale. Di qui la necessità di adoperarsi in qualche modo a correggere il postulato di base con la costruzione, mediante l’educazione e le sanzioni adeguate ai diversi crimini, di una sorta di «identità artificiale degli interessi».

L’utilitarismo inglese, insomma, si ingegna a ridurre il più possibile e addirittura a cancellare il soggettivismo che si insinua nella valutazione dei piaceri e lo fa in due modi. In primo luogo comanda di applicare ai piaceri, che pure dovrebbero essere fatto di esperienza vissuta, sette categorie ideali o «dimensioni» necessarie a rendere i piaceri omogenei tra loro, quantificabili e, dunque, misurabili. Le «dimensioni» sono: l’intensità, la durata, la certezza, la prossimità e la lontananza, il numero dei soggetti a cui può estendersi, la capacità di produrre altri piaceri, il grado di purezza o di mescolanza del dolore. Di qui l’aspetto più noto, e anche più discusso, del programma benthamiano e le formule che l’hanno tradotto in facili slogans: trasformare la morale in una vera e propria «aritmetica morale». Solo un’aritmetica morale, infatti, consente di applicare regole scientifiche nella ricerca del piacere, mettendo in grado gli uomini di perseguire l’intenzione universale della natura: «massimizzare il piacere e minimizzare le pene». In secondo luogo, l’utilitarismo si spinge tanto avanti nel suo oggettivismo da esteriorizzare la stessa vita morale. Esso, infatti, considera la misura degli effetti piacevoli-spiacevoli del nostro agire veramente morale solo quando questi effetti siano resi tangibili da un sistema di sanzioni, cioè di ricompense e punizioni, sancito dal codice e dal costume. La qual cosa tende inevitabilmente a confondere il punto di vista del filosofo con quello del magistrato o del poliziotto, e la morale con le disposizioni legislative, o con la mentalità prevalente in un dato momento nella società.

Le tesi del fondatore dell’utilitarismo moderno fanno sorgere, però, più di un interrogativo non solo tra i suoi critici, ma anche tra gli stessi continuatori, il maggiore dei quali fu senza dubbio John Stuart Mill.

JOHN STUART MILL (1806-1873)

John Stuart Mill, figlio del filosofo James, aggiunse il cognome Stuart per riconoscenza verso un omonimo benefattore. Educato rigidamente dal padre alle idee di Jeremy Bentham, di cui lesse le opere quand’era quindicenne, a vent’anni ebbe una crisi spirituale che lo fece dubitare della concezione della vita in cui si era formato. Entrò giovanissimo nella Compagnia delle Indie, e da essa si ritirò nel 1858 quando il governo assunse direttamente l’amministrazione di quel sub-continente. Nel frattempo Stuart Mill aveva svolto un’intensa attività pubblicistica e aveva scritto alcune delle sue opere più importanti. I suoi scritti – che si occupano di logica induttiva, di politica e di morale – sono ricchi di osservazioni di notevole finezza. I più importanti sono: Il sistema di logica (1843), in cui il libro VI è dedicato alle scienze morali; Principi di economia politica (1848); il celebre saggio Sulla libertà (1859); Considerazioni sul governo rappresentativo (1861); la raccolta in più volumi di Dissertazioni e discorsi (1859-1875). Alla questione femminile Stuart Mill dedicò un’opera anticipatrice e coraggiosa, La soggezione della donna (1869). Nel 1867 pubblicò la sua opera più organica sul problema morale, Utilitarismo.

Aperto all’influenza di Claude Henri Saint-Simon, iniziatore del positivismo in Francia, e per qualche tempo in relazione diretta con Augusto Comte, il filosofo inglese non aderì mai al socialismo dell’uno e alle teorie politiche, di ben diverso orientamento, dell’altro; cercò, invece, a più riprese, un punto d’incontro tra il liberismo e il socialismo, affinché la soluzione del problema sociale conseguisse lo scopo di limitare il più possibile le ingiustizie, senza per questo far naufragare la libertà in un sistema politicamente oppressivo, che a sua volta genera un’economia improduttiva. Occorre tener distinte per Stuart Mill il processo che produce la ricchezza e quello che la ridistribuisce nel corpo sociale. Il primo non può non tener conto delle leggi economiche, che sono pressoché immodificabili; il secondo può essere modificato dalla volontà politica e morale. Stuart Mill si ripromette la soluzione della questione sociale anche da una serie di rimedi, quali l’elevazione delle classi lavoratrici mediante l’istruzione, il frazionamento della proprietà terriera, l’emigrazione e la limitazione delle nascite. Egli ha avuto il merito di aver capito che il problema di fondo della democrazia è la difficile conciliazione tra i valori di giustizia e di libertà. Rimane comunque fermo il principio che l’azione dello Stato è sempre finalizzata alla libertà dell’individuo ed è soltanto a difesa dei diritti dell’individuo che si giustifica l’intervento statale, assegnando ad esso nello stesso momento precisi limiti. Con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue, Stuart Mill non può accettare che la rivoluzione liberale sia limitata ed inficiata dal privilegio di classe. «Si deve riconoscere – scrive nel capitolo terzo delle Considerazioni sul governo rappresentativo – che i benefici della libertà, quali li abbiamo goduti finora, vennero ottenuti estendendo i privilegi di essa a una parte soltanto della comunità; e che un governo in cui tali privilegi siano estesi imparzialmente a tutti non è stato ancora realizzato. Sebbene ogni forma di avvicinamento a tali condizioni abbia un certo valore, la partecipazione di tutti a questi benefici costituisce la condizione ideale del governo libero. Gli interessi degli esclusi sono lasciati privi della garanzia accordata agli altri ed essi hanno minor motivo e stimolo di quanto potrebbero avere ad esercitare le proprie energie per il bene proprio e della comunità. Tale è la situazione per quanto riguarda il benessere e la condotta degli affari pubblici della presente generazione». In realtà la riflessione politica di Stuart Mill segna l’avviamento del liberismo verso la democrazia; ma egli, avendo assimilato la lezione di Alexis de Tocqueville, vede con chiarezza i due pericoli ai quali la democrazia è esposta. Il primo è di carattere politico e consiste nell’oppressione esercitata sul corpo sociale da una maggioranza dove predominano gli interessi esclusivi di una classe o di pochi demagoghi. La «tirannia della maggioranza» agisce oggi anche negli Stati che hanno ordinamenti liberali e lo fa attraverso quelle deliberazioni che, sebbene votate dal Parlamento, sono lesive della libertà degli individui e dei gruppi sociali; ma il suo veicolo ordinario è costituito soprattutto dall’imposizione sistematica di atti che il potere fa eseguire per mano dei funzionari pubblici. Più insidiosa è la tirannia che la società stessa esercita non tanto con le leggi quanto con la routine, le abitudini passive, il disorientamento di un’opinione pubblica plagiata da miti e pregiudizi. Da un certo punto di vista, la «tirannia sociale» è assai più grave di altri generi di oppressione politica. «Vi deve pur essere un limite – scrive Stuart Mill nelle pagine introduttive al saggio Sulla libertà – alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovare tale limite, mantenendolo contro ogni usurpazione, è indispensabile al buon andamento delle cose umane quanto la protezione contro il dispotismo politico. La questione pratica di come stabilire un organico accomodamento tra l’indipendenza individuale e il controllo sociale è un argomento su cui quasi tutto rimane da fare. Occorrono regole di condotta, sia attraverso leggi appropriate, sia attraverso movimenti di opinione pubblica nei molti campi che non si prestano alle azioni delle leggi». Contro l’uno e l’altro pericolo occorre svolgere efficace azione di contrasto, se si vuol evitare quel livellamento nel basso, che rende tutti gli uomini ugualmente mediocri. Alla schiavitù sociale si deve opporre la libertà morale, la riscoperta da parte del maggior numero di cittadini della sfera intangibile dell’«io».

Sul piano teoretico Stuart Mill vuol essere fedele al metodo dell’empirismo e, nello stesso tempo, lotta per sfuggire alle conclusioni scettiche che Hume ne aveva tratto. Allo stesso modo nel campo morale, egli ribadisce la sua adesione all’utilitarismo professato da Bentham e da suo padre, James Mill, e tuttavia lo rettifica di continuo e ne slarga gli orizzonti fino a includervi esigenze e valori che non sono riconducibili al «principio di utilità». René Le Senne ha detto molto bene che «con Stuart Mill l’utilitarismo assume un andamento e un tono simili al fervore religioso» (René Le Senne, Trattato di morale generale, Fabbri, Milano 1962, vol. II, p. 410).

Al rapporto tra Stuart Mill e Bentham sembra proprio applicarsi l’adagio «nec tecum, nec sine te». Lo si vede chiaramente sin dalla prima opera filosofica, Il sistema di logica, del 1843. Nel secondo volume Stuart Mill, delineando il carattere tendenziale delle cosiddette «leggi della società», oppone ai processi di una metodologia corretta quelli del metodo geometrico o astratto. Nella concezione geometrica della realtà sociale sembra che i fenomeni sociali derivino sempre da una forza unica, da una sola proprietà della natura umana. Ebbene, esempi tipici di questa tendenza astratta o geometrica sono per Stuart Mill la concezione hobbesiana del timore reciproco degli uomini, premessa di tutta la costruzione politica di Hobbes, e la teoria benthamiana dell’interesse individuale. Che gli uomini si lascino governare sempre e dovunque dagli interessi è una tesi così assoluta che è ben lungi dall’essere universalmente vera. Le azioni degli uomini non sono sempre governate dai loro interessi temporali. Né si può affermare che questi interessi prevalgano sicuramente nella media degli uomini e neppure tra gli uomini che esercitano il potere. Anche senza parlare del senso del dovere o dei sentimenti di umanità, che pure hanno il loro peso, si deve prendere atto che il carattere e l’azione dei governanti subiscono largamente l’influenza dei sentimenti e degli stati d’animo dei modi di pensare e di agire correnti nella società, nonché delle opinioni della classe sociale a cui appartengono, al di là di ogni calcolo di interesse privato. L’identità perfetta di interessi è una «chimera inattuabile (an impraticable chimera)», ma si può ben realizzare in politica una linea che renda convergenti l’interesse generale e le esigenze della conservazione del potere.

Stuart Mill prende le distanze da Bentham, ma in realtà, sia pure praeter intentionem, egli corregge, criticandolo, l’utilitarismo in quanto tale. Vediamo in breve come procedono le sue argomentazioni.

Egli in primo luogo osserva: «Bentham non ha considerato tutti i possibili aspetti del problema morale. Esistono infatti anche altri moventi dell’agire umano oltre l’interesse: la bellezza, il bisogno di ordine, la pietà ecc.». Orbene, è vero che per Bentham la morale considera l’effetto, la conseguenza dell’agire, non il movente, e già questa è una limitazione inaccettabile perché l’intenzione è ciò che qualifica quello che andiamo facendo, è la forma interiore che conferisce all’agire un carattere morale. Tuttavia, anche ponendo tra parentesi un problema di così decisiva rilevanza filosofica, rimane il fatto che dall’acuto, fondatissimo rilievo di Stuart Mill, l’utilitarismo tout court ne esce drasticamente ridimensionato. Da quell’obiezione quanto mai realistica noi, infatti, non possiamo non trarre una prima conclusione: se le cose stanno così, il «principio di utilità» serve tutt’al più a mettere a fuoco un aspetto, una sezione dell’agire umano, e non è affatto l’unico, il supremo criterio di giudizio, il fondamento della vita morale. Insomma, la realtà della vita morale è superiore e più ampia rispetto alla sua teorizzazione che di essa ha elaborato l’utilitarismo. Bentham si era ingegnato a costruire una sorta di «aritmetica morale» che elevasse l’etica a dignità di «scienza newtoniana» e credeva di essere egli il Newton della vita morale. Di qui il suo complicato tentativo di rendere tra loro omogenei i piaceri, per misurarli secondo le «sette dimensioni», che a lui apparivano esclusivamente materiali: intensità e durata, certezza e prossimità o lontananza, capacità di estensione di uno stesso piacere ad altri soggetti purché non richieda alcun sacrificio, fecondità nel produrre altri piaceri e purezza, o mancanza di ogni dispiacere. La misura dei piaceri ha un’evidenza aritmetica, che consente di riconoscere che un certo numero è maggiore di un altro. In tal modo l’utilitarismo risolve ogni situazione in una equazione. Per Stuart Mill, invece, vi è una differenza non solo quantitativa, ma qualitativa tra i singoli piaceri e vi sono molteplici forme di piacere, sì che per agire bene è necessario stabilire una loro gerarchia, cioè una scala di valori riferibili a «una facoltà più elevata» dello spirito umano. In ultima analisi, il problema morale si identifica con quello del «come tendere ai piaceri di qualità più elevata» e la vagheggiata aritmetica morale diventa non solo ineseguibile, ma inutile. Nel saggio Sulla libertà Stuart Mill considera l’utilità come la «parola ultima in tutte le questioni morali», ma afferma che egli si riferisce a «un’utilità intesa nel senso più ampio, fondata su interessi permanenti dell’uomo in quanto essere progressivo». Formula questa talmente ampia da abbracciare nel cosiddetto principio di utilità l’aborrito dovere kantiano, o l’amore cristiano. Nell’Utilitarismo, Stuart Mill ribadisce questa linea nel famoso passo: «È meglio essere un uomo insoddisfatto piuttosto che un porco soddisfatto, essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che uno scemo soddisfatto. E se lo scemo o il porco sono di diversa opinione, è perché conoscono solo un lato della questione». Ma è lecito chiedersi: si può ancora parlare di utilitarismo, quando si contesta l’equivalenza tra utile e piacere, piacere e bene, gradevolezza e virtù morale?

Un punto importante dell’utilitarismo è il presupposto hobbesiano, secondo il quale la molla dell’agire umano è l’egoismo; ma alla «paura», che schiacciava l’uomo abbandonato a se stesso nello stato di natura, nella crudele situazione di una guerra di tutti contro tutti, Bentham sostituisce la tesi della identità naturale degli interessi, della corrispondenza e della reciprocità tra interesse egoistico dell’individuo e l’interesse egoistico degli altri. In una parola, l’utilitarismo non chiede ad alcuno di rinunciare al proprio egoismo, ma solo di regolarizzarlo perché, così facendo, dall’egoismo inevitabilmente verrà fuori l’altruismo. Qualche dubbio sulla identità naturale degli interessi tra gli individui e la società deve averlo coltivato, però, anche Stuart Mill dal momento che tiene a precisare che «l’interesse generale deve essere cercato da ciascuno prima del proprio interesse individuale», perché il primato va a quanto è comandato dal bene comune. Nella sua opera maggiore, l’Utilitarismo, Stuart Mill ribadisce chiaramente che quando siano in gioco il bene degli altri e il proprio, «ognuno dev’essere così rigorosamente imparziale da trasformarsi in spettatore disinteressato e benefico». Di questo passo, però, egli giunge quasi senza accorgersene al rovesciamento di tutte le premesse egoistico-edonistiche da cui parte l’utilitarismo, da Aristippo di Cirene a Bentham, per approdare addirittura alla «regola d’oro di Gesù di Nazaret»: fare agli altri ciò che si vorrebbe gli altri ci facessero, amare il prossimo come se stessi.

È inoltre opportuno tornare in modo più diretto su uno dei presupposti basilari della dottrina utilitaristica: quello per cui si definisce l’interesse «ogni piacere e ogni causa di piacere», il piacere ben calcolato il solo bene e ogni azione buona è detta di per sé piacevole. Stuart Mill ha messo in luce l’incomparabilità assoluta fra il Socrate insoddisfatto e lo scemo felicemente appagato; tuttavia la logica impone di approfondire la revisione critica dell’utilitarismo, da lui avviata, e di non fermarsi a metà strada, quasi che quella dottrina diventi meglio difendibile nell’atto di limitare la portata dei suoi principi. Ebbene, è proprio il «caso Socrate» che induce a rendere ineludibili altri interrogativi: chi potrà mai scambiare, ad esempio, la serenità di Socrate, di fronte alle accuse infamanti che lo portano in tribunale e alla tragica fine che incombe su lui, con la felicità? Può trarre godimento un uomo giusto dall’ingiusta sofferenza che è costretto a subire, per non aver tradito i valori che hanno reso retta e buona la sua vita? L’utilitarismo, in nome delle sue presupposte identità bene = piacere e buono = piacevole, alla luce dei suoi principi, è costretto a dichiarare, come fa Bentham, che nessuno perde e tutti hanno sempre da guadagnare», e che «non si richiede all’uomo alcun sacrificio definitivo». Ma chi oserà veramente pensare, sol che si guardi attorno, che in questa vita vi sia perfetta adeguazione tra virtù e felicità e che la vita morale escluda sacrifici definitivi? Come al solito, Stuart Mill si dichiara d’accordo con Bentham, in linea di principio, nel rifiutare un valore intrinseco al sacrificio; ma poi anche in questo caso fa una di quelle ammissioni che attestano la nobiltà del suo animo, assai più che la coerenza del pensatore utilitarista. «La sola rinuncia ammessa – scrive non senza un qualche imbarazzo – è la devozione alla felicità degli altri, all’umanità o agli individui, secondo quanto è richiesto dagli interessi collettivi dell’umanità». Rimane, però, il fatto che la morale utilitaristica è particolarmente incapace di dare una ragione di quegli aspetti della vita che comportano un sacrificio e, anzi, si potrebbe dire che la sua principale intenzione sia di rendere superfluo il sacrificio.

È fin troppo facile per gli utilitaristi esorcizzare il sacrificio come un residuo della «morale ascetica», dando all’espressione un significato fortemente dispregiativo. Ma possono essi riuscire in questo loro intento? Anche l’utilitarista che voglia far bene i suoi calcoli, ogni volta che agisce sceglie, e per ogni «sì» che pronuncia dice molti «no», sacrifica cioè altre possibilità, alcune delle quali sono talora, per il soggetto che vi rinuncia, le più agognate. In realtà la vita umana, e in particolare quell’aspetto decisivo di essa che è la vita morale, è semplicemente inconcepibile senza la lotta per il valore, e dunque senza il sacrificio che quella lotta esige. L’uomo è chiamato ad attuare il bene non in un universo di armonia prestabilita, o che comunque consegua infallibilmente il risultato dell’armonizzazione degli interessi individuali e collettivi, ma tra ostacoli e contraddizioni di ogni sorta, che sono dentro e fuori di lui, nel suo cuore come nell’ambiente in cui egli si muove. Ma bisogna pure allenarsi al dominio di sé, al rischio e dunque al sacrificio, se si vuol diventare liberi ed essere pronti a testimoniare concretamente nella vita il valore che vivifica la coscienza. Si vorrebbe poter agire in un’atmosfera di diritto e d’amore, tale che il sacrificio sia il più possibile economizzato; ma la situazione in cui siamo chiamati ad agire è data a noi e non siamo noi a sceglierla, e da noi dipende solo il tipo di risposta che ad essa siamo capaci di dare. Anche nella situazione più lontana dal diritto, e ancor più dall’amore, noi dobbiamo volere e fare ciò che è giusto e degno, costi quel che costi. È pertanto escluso che il sacrificio possa sparire dalla nostra vita e, comunque, non sarebbe neppure auspicabile, pena la scomparsa dell’uomo come essere intelligente e libero. L’eroismo morale – di cui Henri Bergson ha esplorato genialmente le sorgenti – è la testimonianza più alta che un uomo possa dare del suo disinteresse attivo e della sua dedizione agli altri fino al più completo sacrificio di sé.

In conclusione: l’utilitarismo ha un suo punto di forza, ma va incontro a insanabili difficoltà. L’anima di verità e la forza di attrazione dell’utilitarismo stanno nell’energico richiamo a considerare le conseguenze per sé e per gli altri immanenti a un certo tipo di condotta e a giudicare un uomo dai suoi atti. È un aspetto importante della vita morale su cui richiama l’attenzione anche il Vangelo quando ci ricorda che è dai frutti che si conosce l’albero. Ma le conseguenze delle azioni di cui parla il Vangelo non sono certo riconducibili al denominatore comune della morale utilitaristica piacere-dolore, gradevolezza-ripugnanza. Certamente anche il «calcolo» può avere una sua funzione, ma dove si può calcolare, cioè nel limite in cui un confronto è possibile: quale preferire tra due o più lotterie, sistemi assicurativi, opportunità di lavoro? Nelle scelte di fondo della vita morale, però, non si tratta di misurare il vantaggio o la gradevolezza del vivere che derivano da una certa azione; la questione è, in primo luogo, di valutare la «dignità» e il «valore» di una forma di esistenza nel suo complesso e delle singole scelte che ne costituiscono la trama. Socrate ancora una volta ci attesta, con la sua vicenda, che la posta in gioco è, in ultima istanza, ciò che rende o non rende la vita degna di essere vissuta; il resto è secondario, spesso opinabile.

Stuart Mill ha scritto tre Saggi sulla religione, riguardanti la natura, l’utilità della religione, il teismo, che sono stati pubblicati postumi nel 1874. In essi Mill aspira a fondare una dottrina empiristica della religione. Mill denunciava le fantasticherie della comtiana «religione dell’umanità» e voleva tuttavia assimilare i motivi di fondo di tale tentativo e dare ad essi più coerente soddisfazione nell’ambito di una concezione rigorosamente positivistica. Per Stuart Mill l’argomento cosmologico non ha valore perché la materia e la forza non avendo un inizio non hanno bisogno di una causa. E però impongono le loro condizioni, come Platone aveva già detto. L’argomento teleologico prova l’esistenza di un Dio ordinatore ed è ben fondato perché ha carattere induttivo. L’ordinatore del cosmo non ha però i caratteri del Dio cristiano, perché gli manca l’onnipotenza e l’onniscienza. L’uso che Dio ha fatto della materia e della forza – i due elementi fondamentali dell’universo – è ammirevole come combinazione, ma non manifesta onnipotenza. Ma il non essere onnipotente di Dio, ci permette di conservare a lui i suoi attributi morali: giustizia, bontà, amore.

L’indagine di Stuart Mill è rivolta a far rinascere una forma più o meno esplicita di dualismo manicheo? Antonin-Dalmace Sertillanges: egli non aderisce come suo padre James Mill alle idee propriamente manichee; tuttavia, non le ripudia completamente. Egli tende, a causa del male, a limitare la potenza di Dio per salvare la sua bontà. Ludovico Geymonat: il pericolo del manicheismo è più apparente che reale; ripugna a Mill la divinizzazione del male. Se di dualismo si può parlare, occorre riferirsi al dualismo platonico «Demiurgo – causa errante o materia con causa» come al precedente storico che presenta più evidenti analogie con la concezione di Stuart Mill. Per il filosofo inglese, perché la creazione abbia un carattere morale è necessario supporre che il potere che vi presiede non sia interamente libero della sua azione: tutto ciò che poteva, era di mettere la sua creatura ragionevole nella condizione di lottare con vigore e di procedere a poco a poco verso la vittoria. In queste condizioni vi è un ordine morale e l’uomo ne è con Dio l’artigiano. In che senso è necessario all’uomo rapportare a Dio il significato e il fine della sua vita? Per dare consistenza e continuità alla lotta combattuta dagli innumerevoli individui umani vissuti nelle epoche più diverse; per evitare che la Divinità nella sua titanica lotta perda la collaborazione anche di un solo pur debolissimo individuo umano. Il riconoscimento della non onnipotenza delle forze del bene corregge l’ingenuo ottimismo di quegl’illuministi i quali vedevano troppo facile la vittoria della civiltà e richiama l’uomo alla consapevolezza della serietà della lotta.

L’esistenza di Dio, insomma, coordina ogni nostra azione al fine comune di realizzare un mondo migliore e ci fa sentire la solidarietà di tutti gli esseri buoni.

 

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.