Il presagio della morte di Beatrice: “Donna pietosa e di novella etate”

Tematiche: Letteratura

Donna pietosa e di novella etate,

adorna assai di gentilezze umane,

ch’era là ‘v’io chiamava spesso Morte,

veggendo li occhi miei pien di pietate,

e ascoltando le parole vane,

si mosse con paura a pianger forte.

E altre donne, che si fuoro accorte

di me per quella che meco piangia,

fecer lei partir via,

e appressarsi per farmi sentire.

Qual dicea: “Non dormire”,

e qual dicea: “Perché sì ti sconforte?”

Allora lassai la nova fantasia,

chiamando il nome de la donna mia.

Era la voce mia sì dolorosa

e rotta sì da l’angoscia del pianto,

ch’io solo intesi il nome nel mio core:

e con tutta la vista vergognosa

ch’era nel viso mio giunta cotanto,

mi fece verso lor volgere Amore.

Elli era tale a veder mio colore,

che facea ragionar di morte altrui:

“Deh, consoliam costui”

pregava l’una l’altra umilemente;

e dicevan sovente:

“Che vedestù, che tu non hai valore?”.

E quando un poco confortato fui,

io dissi: “Donne, dicerollo a vui.

Mentr’io pensava la mia frale vita,

e vedea ‘l suo durar com’è leggiero,

piansemi Amor nel core, ove dimora;

per che l’anima mia fu sì smarrita,

che sospirando dicea nel pensero:

– Ben converrà che la mia donna mora.-

Io presi tanto smarrimento allora,

ch’io chiusi li occhi vilmente gravati,

e furon sì smagati

li spirti miei, che ciascun giva errando;

e poscia imaginando,

di caunoscenza e di verità fora,

visi di donne m’apparver crucciati,

che mi dicean pur: – Morra’ti, morra’ti.-

Poi vidi cose dubitose molte,

nel vano imaginare ov’io entrai;

ed esser mi parea non so in qual loco

e veder donne andar per via disciolte,

qual lagrimando, e qual traendo guai,

che di tristizia saettavan foco.

Poi mi parve vedere a poco a poco

turbar lo sole e apparir la stella,

e pianger elli ed ella;

cader li augelli volando per l’are,

e la terra tremare;

ed omo apparve scolorito e fioco,

dicendomi: – Che fai? non sai novella?

Morta è la donna tua, ch’era sì bella.-

Levava li occhi miei bagnati in pianti,

e vedea, che parean pioggia di manna,

li angeli che tornavan suso in cielo,

e una nuvoletta avean davanti,

dopo la qual gridavan tutti: Osanna;

e s’altro avesser detto, a voi dire’Io.

Allor diceva Amor: – Più nol ti celo;

vieni a veder nostra donna che giace.-

Lo imaginar fallace

mi condusse a veder madonna morta;

e quand’io l’avea scorta,

vedea che donne la covrian d’un velo;

ed avea seco umiltà verace,

che parea che dicesse: – Io sono in pace. –

Io divenia nel dolor sì umile,

veggendo in lei tanta umiltà formata,

ch’io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno;

tu dei omai esser cosa gentile,

poi che tu se’ ne la mia donna stata,

e dei aver pietate e non disdegno.

Vedi che sì desideroso vegno

d’esser de’ tuoi, ch’io ti somiglio in fede.

Vieni, ché ‘l cor te chiede. –

Poi mi partia, consumato ogne duolo;

e quand’io era solo,

dicea, guardando verso l’alto regno:

– Beato, anima bella, chi te vede! –

Voi mi chiamaste allor, vostra merzede”.

                                                                                                                                 (Vita Nuova XXIII)

Cominciando ad assemplare dal “libro de la memoria” le parole che dovranno costituire la trama del “libello”, Dante nel proemio sembra voler insistere soprattutto sul criterio regolativo che presiede alla scelta e alla selezione dei materiali, a partire dal punto dove si trova scritta la rubrica, Incipit vita nova: egli procederà a trascrivere le parole conservate nel “libro”, “e se non tutte, almeno la loro sentenzia”. Questo criterio, che ha la sua precisa ripercussione nella delineazione della narrazione, unito alla decisione, formulata dopo la presentazione del primo incontro con Beatrice, di registrare solo “quelle parole che sono scritte sotto maggiori paragrafi” (II, 10), parrebbe voler indirizzare l’attenzione del lettore sulle ragioni strutturali del “libello”, il quale si rivela subito, fin dall’avvio della nuova materialità della scrittura (I, 1), come uno scarto tra l’autentico punto di partenza del “libro de la memoria”, che è costituito dai fatti della vita infantile del poeta, e la rassegna degli eventi collocabili alla fine del suo nono anno, giusta l’indicazione della rubrica, Incipit vita nova.

La preterizione dei fatti anteriori della vita del poeta è stata in genere spiegata come il riflesso di una decisione analoga a quella di S. Agostino (Conf, I, VII, 12) o come l’assunzione di un discrimine di valore filosofico e psicologico, fondato sull’autorità precipua di Aristotele (De memoria et reminiscentia, I, 450 b 1-10; II, 453 b 1-8), secondo cui dei primi anni di vita non si può avere che una assai debole memoria.

Ma basta percorrere la vasta serie delle vite dei santi e dei martiri, in particolare di quelli fanciulli, per rendersi conto che le cose stanno altrimenti. E invero, se per la decisione dantesca di omettere nella narrazione alcuni fatti della propria vita e di riprodurre solo i maggiori capitoli, si può proporre il rinvio alla Vita Martini di Sulpicio Severo l’idea di celebrare la santità dell’infanzia, nonostante il pregiudizio con cui si era soliti guardare a questa età (ma soccorreva pur sempre l’esempio di Gesù fanciullo e di Maria fanciulla), era invece proposta autorevolmente da S. Ambrogio nel De virginibus. La data del secondo incontro con Beatrice, il diciottesimo dell’età del poeta, e la rilevanza data dal poeta alla coincidenza della morte della gentilissima con il proprio venticinquesimo anno, inteso come anno di svolta radicale nel corso della propria esistenza, si devono altresì considerare quali elementi topici entro il sistema redazionale delle vite dei santi e dei martiri. La decisione dantesca di far decorrere la narrazione dal nono anno, coinvolgendo in parallelo la vita di Beatrice, secondo un criterio di correlazione del tipo inizio/fine:

Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo nono anno apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua etade si convenia,

(II, 2-3)

rappresenta perciò un fatto capitale all’interno dell’opera, non solo perché serviva a porre in atto la catena fondamentale dei significanti numerici di ordine cronologico: nove, diciotto, venticinque anni; ma anche perché valeva a rendere esplicita la portata e il significato del “libello”, in quanto non era altro che una trasposizione del “libro”. La rubrica, Incipit vita nova, registra infatti l’intersezione della vita di Dante con quella di Beatrice, in virtù della quale le due scritture, del libro di Dante e del libro della gentilissima, si iscrivono congiuntamente nella trama del liber vitae, il quale contiene le similitudines de vita, grazie alle quali si può conoscere la vita di ciascuno; tale libro è detto “libro della vita” per il fatto che riguarda la predesignazione della “vita ad quam aliqui per electionem praeordinantur”, è a dire alla “vita della gloria”.

E invero Beatrice si rivela immediatamente, al suo apparire, come la donna della “gloria”:

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato il cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice,

(II, 1)

dove la parola “mente” sta decisamente anche per “libro” – “libro della vita”: “libro de la memoria – , alla maniera di molti autori tra i Padri della Chiesa e tra i medioevali.

Cominciando a trascrivere dal “libro de la memoria” a partire dal paragrafo che reca la rubrica, Incipit vita nova, il poeta intende dunque far subito rimarcare il significato profondo della scrittura che colloca Beatrice già nella luce della gloria divina. La vita di Beatrice quale donna “gloriosa” si rende subito evidente mediante il sigillo che l’accompagna, la presenza del numero nove, che viene individuato consecutivamente due volte nella serie dei primi due episodi narrati, l’incontro del poeta con lei dapprima a nove e poi a diciotto anni, entro un contesto ideativo e figurale che rinvia al tema della doppia stola del cristiano, la quale viene attribuita soprattutto ai santi e ai martiri:

Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel gran secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che a me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.

(III, 1)

Dopo il primo storico incontro, contrassegnato anche dal favore degli astri, il poeta si era mosso più volte per incontrare e vedere Beatrice (II, 8), ma agli occhi dell’autore, che trasceglie dal “libro de la memoria”, soltanto il riproporsi dell’evento nell’identico giorno di nove anni prima può apparire significativo, per il valore figurale che la scena finisce con l’assumere: accanto al colore della veste di Beatrice, il poeta non manca di registrare l’ora stessa dell’evento, in cui la gentilissima gli rivolge per la prima volta la parola, ora che viene fatta coincidere con la nona del giorno (III, 2). Al disvelarsi del mistero sacro di Beatrice durante l’occasione del primo incontro “non pare figliuola d’uomo mortale, ma di deo” II, 8), succede ora il mistero della prima rivelazione verbale, che già con il saluto gli aveva fatto “vedere tutti li termini de la beatitudine” (III, 2). L’inquadramento dell’evento è operato decisamente a posteriori, dopo che Beatrice è già stata “meritata nel grande secolo”, così come la “maravigliosa visione” notturna che la segue, con il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core in cui essa veniva riassunta, poteva divenire chiara, pure “a li più semplici”, soltanto dopo che il destino terreno di Beatrice si era definitivamente compiuto. Ma è poi unicamente all’interno della prosa, con cui il poeta torna a riarticolare ad anni di distanza la forma della “visione”, che viene fatto riemergere il significato dell’evento registrato durante il “sonno”: Amore, che tiene in braccio la “donna de la salute”, qui presentata come coperta da un drappo rosso, sembra “si ne gisse verso lo cielo”. La visione ci si rivela dunque come una visione profetica, in quanto registra l’evento chiave del “libro de la memoria”, è a dire la morte di Beatrice, che viene accompagnata in cielo da una schiera di angeli. La scena, con l’amarezza e l’angoscia che lasciano trasparire la reazione del poeta, costituisce una vera e propria anticipazione del destino di Beatrice, presentato attraverso un’analoga forma, una seconda visione – anche in questo caso oscura – nel capitolo XII, e quindi, attraverso un'”erronea fantasia”, nel capitolo XXIII del “libello”.

Mediante i primi due grandi eventi registrati nel “libello” siamo ormai in grado cercare di decifrare il significato profondo dell’articolarsi del “libro de la memoria” dantesca, che coinvolge i rapporti con la gentilissima. Il “libello” si apre dapprima con il grande paragrafo del “libro de la memoria”, il cui significato viene fatto consistere nell’attribuzione del nome, Beatrice, alla “gloriosa donna”, secondo una modalità che richiama la liturgia del rito battesimale, che rappresenta il vero atto terreno di nascita del cristiano; quindi viene fatta seguire, in figura, la morte della “donna de la salute”, il cui nome suona beatitudo (II, 5; beatitudine, V, 2), benedetta (XXIII, 13; XXXII, 2; XLII, 1, 3), alla maniera della Vergine Maria che è detta benedetta (XXVIII, 1), ma che è, secondo la tradizione medioevale, anche beatitudo e beatificatrix. Ora, la morte si configura per tutta la cultura cristiana come una nuova nascita e il giorno della morte diviene per ciascuno il vero dies natalis, che segna l’ingresso alla vita del “gran secolo”.

Il “libello”, trasponendo i maggiori paragrafi del “libro de la memoria”, intende annodare assieme i due grandi capitoli che illuminano la vita di Beatrice: la prima nascita, attraverso il battesimo; la seconda nascita, intesa come assunzione alla gloria sotto l'”insegna” della “benedetta virgo Maria” (XXVIII, 1). La seconda nascita costituisce il trascendimento della vicenda terrena, qui espresso attraverso l’immagine dell’anima che viene trasferita in cielo (III, 7; XXIII, 7; XXVIII, 1). Con l’immagine di un trascendimento, giusta l’invito di S. Agostino a trascendere la propria memoria individuale, si chiude anche la redazione del “libello”, con la presentazione dello «spirito peregrino» che sale “oltre la spera che più larga gira” a vedere una “donna, che riceve onore” (XLI, 10-11) e che mira “ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus” (XLII, 3). Se la faccia della Beatrice terrena all’atto della morte già sembra scrutare, nella sua manifesta umiltà, il “principio de la pace” (XXIII, 9), anche l’autore si augura alla fine della propria vicenda terrena di poter “gire” presso il “sire de la cortesia” a vedere la beatitudine di Beatrice che contempla faccialmente la divina essenza.

Il “libello”, che riflette i grandi capitoli del “libro de la memoria”, che altro non è che una parte del liber vitae, si articola dunque medioevalmente secondo un ordito di tipo anagogico, in cui gli eventi fondamentali sono la nascita, intesa come exitus, e la morte, concepita come reditus. E il destino di Beatrice segna in qualche modo anche il destino di Dante, che si augura così di poter fruire un giorno della stessa beatitudine di cui ora Beatrice già gode.

L’immagine della morte occupa un grande spazio sulla scena della Vita Nuova già con il capitolo VIII, dove viene presentata la morte di una “donna giovane e di gentile aspetto molto” (VIII, 1), consacrata dal rituale letterario del planctus: Piangete, amanti, poi che piange Amore (VIII, 4-6), e con il capitolo XXII, dove viene presentata la chiamata alla “gloria etternale” del “genitore di tanta maraviglia”. Il pianto di Beatrice per la morte del padre ed il pianto di Dante per la morte della gentilissima risultano perciò collocati in successione al centro del “libello” quali pagine aperte e affiancate del “libro de la memoria”, che ne garantisce insieme l’autenticità temporale e la veridicità metatemporale. La morte della gentilissima, quale ci viene proposta in figura in questo capitolo centrale, anticipa a sua volta il tema del precorrimento di Giovanna Primavera, con cui trova il suo definitivo suggello la vicenda della donna “gloriosa”, esemplarmente conformata al canone dell’imitatio Christi. In quanto incentrato sulla profezia della morte della Beatrice, il capitolo XXIII sembra a sua volta voler riproporre a chiare lettere il motivo delle profezie bibliche relative alla morte di Cristo. Entro questa prospettiva si evidenzia perciò anche il significato connesso alla serie costituita dai capitoli centrali del “libello”, legati al trapasso di Beatrice, è a dire i capitoli XXIII-XXIV e XXVIII-XXIX. Precede il tema figurale della morte di Beatrice modellato sul rituale della morte di Cristo; segue il tema della missione della gentilissima, missione che è preceduta dalla venuta di Giovanna-Primavera, al modo di come Giovanni Battista aveva preceduto Cristo; viene quindi consegnata alla storia la morte della “gloriosa donna”, la cui vicenda intende riproporre, nella sua misteriosa realtà di ipostasi numerica – il numero nove che l’accompagna e che la corona -, il significato della morte di Cristo, a cui qui si fa trasparente riferimento anche attraverso il richiamo al tema profetico della desolazione di Gerusalemme tratto dalla prima pericope delle Lamentationes di Geremia.

Così inteso, il “libello” rivela la sua facies di autentica reportatio del “libro de la memoria”, che costituisce a sua volta un tratto del liber vitae. Il “libello” mira infatti a riprodurre nei modi e nelle forme proprie della narrativa, che si distende nel tempo e che si configura secondo la specifica esperienza culturale e poetica dell’autore, il ritmo metastorico cui tutte le cose, e non solo i fatti umani, debbono conformarsi. La storicità del “libello” o, se si preferisce, la veridicità dei fatti storici narrati, trae la sua garanzia proprio dalla metastoricità del “libro de la memoria”, che è copia particolare, per quanto riguarda i fatti di Dante e di Beatrice, dell’unico liber vitae.

Nella scena centrale del libro il poeta vive e sperimenta, al culmine di una “dolorosa infermitade”, il “pensero” della morte della sua donna, che si manifesta come una “erronea” e “vana fantasia”, come un “fallace imaginare” provocato dal deliramento della mente, in preda al farnetico. Ma la terribile angoscia che il poeta prova nella nuova circostanza visionaria si manifesta però in tutta la sua tragicità e veridicità soltanto a posteriori, allorché l’evento della morte di Beatrice si sarà compiuto. In perfetta analogia con quanto si verifica per la visione dei capitolo III e del capitolo XII, il significato della nuova visione o “imaginazione” travalica la mera contingenza dell’episodio, poiché chiede di essere còlto e decifrato alla luce del fondamento che regola la costruzione stessa del “libello”. Ciò che nella trama del “libro de la memoria”, che riflette il liber vitae, appare chiaro fin dall’inizio, in quanto è stato vergato con penna indelebile, nella trama del “libello”, che riflette la cronologia degli accadimenti, deve venire invece chiarito successivamente e soltanto quindi la conclusione della vicenda può consentire di far emergere il significato profondo che pertiene ai primi avvenimenti. Anche se noi sappiamo bene fin dall’inizio che Beatrice è morta ed è già stata assunta alla gloria celeste, la materialità della scrittura del “libello”, nelle sue procedure letterarie, non può certificarci che riguardo al dettato esteriore della storia, ma non può illuminarci circa il suo significato, che può essere garantito solo dal riferimento ad un’altra scrittura, che ne confermi l’autenticità della traccia.

Nel capitolo XXIII Dante sviluppa appieno il tema della morte di Beatrice, mentre nel capitolo XXVIII si assiste all’interdizione del medesimo tema, che viene però esplicato secondo il suo significato profondo (la “sentenzia”) nel capitolo successivo. La trattazione della morte di Beatrice viene dunque delegata al capitolo centrale del “libello”, mediante il ricorso alla tecnica del presagio, assai topica in sede biografica e romanzesca medioevale. Questo artificio gli consente di esplicare il tema in tutta la sua complessità, nei suoi risvolti di ordine psicologico e personale e di ordine sociale e generale, entro uno scenario cosmico che sembra voler riproporre il dramma della morte di Cristo. Lo scenario che si apre è di natura apocalittica e il conseguente dramma della morte di Beatrice viene sperimentato dall’autore come un evento tragico, dolorosissimo e inquietante, pure se alla fine, nella situazione contingente, doveva rivelarsi un'”erronea fantasia”.

La scena del presagio risulta geneticamente connessa alla scena della morte del padre di Beatrice – avvenuta alla fine del 1289 -, mediante il rito del pianto: alla manifestazione del pianto di Beatrice viene fatta seguire la doppia sequenza del pianto del poeta, dapprima per il medesimo evento (XXII, 3-4), quindi per la morte della “mirabile donna” (XXIII, 3, 6, 10, 11, 12, 13 per la sola prosa). Il motivo del pianto, quale evento di una ritualità di valore sociale e penitenziale , diviene il leitmotìv e lo strutturatore dell’intera serie degli eventi che preludono al più alto dramma della morte della “gentilissima Beatrice”. La determinazione cronologica dell’evento è delegata ai primi paragrafi della prosa, che ci riporta al gennaio del 1290:

Appresso ciò [la morte del padre di Beatrice] per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove di amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendomi dolere quasi intolerabilmente, a me giunse uno pensero lo quale era de la mia donna. E quando ei pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde sospirando forte, dicea fra me medesimo: “Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si moia”. E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona.

                                                                                                                                             (XXIII, 1-3)

La scena funge da prologo dell’intera sequenza che troviamo riprodotta anche nella poesia, ma senza questo segmento della prosa l’antefatto ci sarebbe del tutto sfuggito. Al prologo viene fatta seguire la narrazione, distribuita in due sequenze: la prima esplica le fasi del manifestarsi della “fantasia” dantesca durante il delirio (§§ 4-10); la seconda ritrae la scena della donna pietosa e delle donne che sono attorno al letto di Dante (§§ 11-14); quindi si ha la conclusione o epilogo, in cui il poeta attua la decisione di narrare l’accaduto alle donne e di “dire” la canzone (§§ 15-16).

Il quadro iniziale è di tipo clinico, e reale o fittizio che sia – ma non abbiamo in verità alcun motivo per mettere in discussione le parole dell’autore -, la risoluzione della malattia, che aveva immobilizzato il poeta a letto per più giorni, viene fatta cadere al culmine del nono giorno, che nella trattatistica medica antica e medioevale figura tra i possibili dies critici. Nel momento parossistico del male, afflitto da un insopportabile dolore, il poeta è indotto a pensare alla propria donna e quindi anche al pericolo della propria vita, benché egli fosse ancora giovane e potesse dirsi di complessione forte (“sana”).

Sentendo però “debilitata” la vita, il suo pensiero corre all’idea della brevità dell’esistenza umana e il poeta viene preso da un moto repentino di pianto all’idea che anche Beatrice debba un giorno morire. Questo pensiero funereo, congiunto al parossismo della malattia, provoca uno stato di forte esagitazione della mente, proprio di chi si vede uscir di senno e farnetica.

Il quadro clinico del farnetico, che può trapassare anche nella letargia, costituisce l’elemento capitale di riferimento introdotto dalla prosa e ad esso si può connettere un profondo significato che sembra essere finora sfuggito in sede di verifica dei sedimenti culturali del testo. Il farnetico, oltre che ad un riferimento di tipo clinico, si può riportare anche ad un preciso modo di percezione extrasensoriale e profetica, come apprendiamo dal De anima di Gugliemo d’Alvernia. Dapprima, nel capitolo VI, Pars quarta, Guglielmo Alverniate affronta la questione, Quod aegritudines corporis non laedant animam; quindi, nella Pars quinta del medesimo capitolo, affronta la questione, Quod ex aegritudinibus corporalibus anima multoties sanatur.

Contro l’opinione contraria viene fatta valere l’experientia sensuum:

 Primum quia in gravioribus aegritudinibus manifestum est animas sanari a propriis aegritudinibus, juxta sermonem sapientis, quo dixit quia infirmitas gravis sobriam animam reddit (Eccli 32, 2). Quia igitur anima intelligens ignorat vitium omnem ebrietatem esse, sicut et aegritudinem, necesse est sobrietatem animarum sanitatem esse earumdem; quapropter sobriam facere animam indubitanter est facere eam sanam. Quapropter manifestum graves infirmitates corporum sanitates efficere animarum et a proportione, seu proportionale mortem corporum vitam bonam efficere animarum, non dicam vitam quantum. ad esse, sed quantum ad bene se habere. Innumerabilibus autem exemplis manifestum est innumerabiles homines per aegritudines corporum sanatos fuisse ab aegritudinibus animarum.

Amplius si ipsa memoria, vel recordatio mortis corporis animas liberat, et hoe naturaliter ab aegritudinibus vitiorum et peccatorum, quanto fortius ipsa veritas, et recogitatio ipsius, eas in hoc amplius adjuvabit, et hoc proculdubio sapiens insinuare voluit sermone suo quo dixit, fili memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis (Eccli 7, 40).

Amplius quot et quantas vidimus secundum vires suas praecipuas, invalescere et confortari, et ad ea posse in gravissimis aegritudinibus corporum suorum quae in sanitate minime poterant eorumdem, et de virtute quidem intellectiva, vel experientia scitum est quod quousque confortabitur aegritudiníbus corporum gravissimis ut animae multae, et mortes corporum suorum praedicerent, et prophetarent, et interdum etiam aliorum. Haec autem in sanitate, et fortitudine corporum suorum. non poterant.

L’argomentazione viene ripresa poco dopo, anche a proposito della phraenesis e della melancholia:

 Quod si etiam ad vires animae humanae respexeris quae forte dicitur corpus humanum vel homo, secundum illud invenies etiam illas augeri, et confortari supra modum aegritudinibus corporalibus ejusdem, sicut apparet in aegritudine quae vocatur phrenesis, et in ipsa furiositate furentem, sive insanientem (…) Manifestum enim plus posse viribus dum insanit quam sanus posset.

De melancholicis similiter manifestum est quod ambulando, et circumagendo vix fatigabiles sint, qui tamen tempore sanitatis medietate laborum circumvagationes suae fatigarentur.

A questo punto, sulla scorta delle indicazioni derivabili da Guglielmo d’Alvernia, sembra essere chiaro il rapporto tra la malattia di Dante, nella sua fase acuta, il pensiero della morte che lo pervade e il valore connesso alla dolorosa esperienza, come di una forma di profezia che si manifesta come sublimazione delle capacità percettive dell’autore. La conferma ci viene ancora data da un altro passo del De anima di Gugliemo Alverniate, che così recita:

Amplius quid respondebis de phereneticis, seu quolibet alio modo mente captis? cum manifestum sit in eis non esse possibilitatem, seu aptìtudinem ad recipiendas impressiones eruditionis, et doctrinae, seu alias quascunque intelligibiles. In eis enim videtur esse vel turbata contemperantia et indiscrepantia inversa: quapropter omnino nulla anima. Quia igitur contingit plerumque homines hujusmodi philosophare, et visiones mirabiles videre quae a sanissimis atque scientissimis hominibus videri non possunt, manifestum est neque animam esse ex hujusmodi contemperantia corporis, neque aptitudinem recipiendi irradiationes hujusmodi esse ex illa; alioquin tam nobiles illuminationes, tamque sublimes visiones non esse possibile fieri in illis: quemadmodum in aqua turbida, seu exagitata non est possibile clare videre (…) Quomodo igitur non multo fortius in corpore modis hujusmodi turbato et exagitato possibile erit fieri propheticas irradiationes, tamque sublimium visionum splendores? cum tanta facilitate turbatur corpus humanum turbationibus infinitis, sicut turbatione irae, turbatione doloris et gaudij, similiter timoris et audaciae ad quas quam proni quamque faciles sunt homines quis nisi insanus ignoret?.

Debilitato dalla durata della malattia (XXIII, 3), al momento parossistico di essa, nel nono giorno, il poeta piange a causa della “tanta miseria” in cui si vede precipitato, e si sente maggiormente affranto per il pensiero che anche Beatrice possa presto morire. Preso allora da un “forte smarrimento”, chiude gli occhi e comincia a “travagliare sì come farnetica persona e ad imaginare”: nella prosa viene fatta seguire a questo punto l’ordinata successione degli avvenimenti, così come il poeta ricorda si sono svolti. E il pianto costituisce il motivo che concorre ad annodare e a strutturare la narrazione, secondo uno studiato gioco di riprese e di corrispondenze.

La scena iniziale (§§ 3-6) della prima sequenza si organizza in forma chiastica, come corrispondenza tra la morte di Beatrice e la necessità della morte di Dante: al culmine della sofferenza, sospirando forte, il poeta è preso da un grave presentimento e pensa che la gentilissima possa improvvisamente morire; quindi, cominciando ad errare la sua «fantasia», gli appaiono visi di donne che gli dicono: “Tu pur morrai”; subito dopo gli appaiono diversi e orribili visi che gli ribadiscono: “Tu se’morto”; continuando ad errare la sua fantasia vede altre donne andare scapigliate per via, mentre il sole si oscura, le stelle paiono piangere; vede poi cadere morti anche gli uccelli e avverte che la terra è scossa da violenti terremoti. Si tratta di segni rituali che rivelano il carattere numinoso del personaggio del quale si annuncia la morte, il cui archetipo di riferimento per tutta la cultura cristiana medioevale rimane il sacrificio di Gesù in croce. Preso da sbigottimento, Dante immagina di vedere un amico che così lo apostrofa: “Or non sai? la tua mirabile donna è partita da questo secolo”.

Con una nuova scena di pianto si apre il secondo segmento (§§ 6-8) della prima sequenza, che ha come oggetto l’assunzione dell’anima di Beatrice al cielo e la dolorosa contemplazione della sua spoglia terrena che Dante sperimenta. Guardando verso il cielo il poeta scorge una moltitudine di angeli che ascendono, preceduti dall’anima di Beatrice che appare, come nel Transitus Virginis e in alcune vite dei santi e dei martiri, sotto forma di una “nebuletta bianchissima”. Gli angeli intonano, Osanna in excelsis. Il cuore, sede del sentimento di amore, sembra volerlo allora certificare riguardo alla morte della donna. Alla scena del transitus, inteso come ascensus, viene fatta succedere ora una nuova scena di transitus o translatio, intesa come exitus: Dante immagina di andare a vedere il corpo di Beatrice morta, secondo una forma di visione extracorporea, del tutto ricorrente entro il registro delle visiones medioevali.

Nella terza scena di questa sequenza (§ 9), che ha luogo in terra, e non in cielo, il poeta immagina dunque di andare a vedere il corpo di Beatrice, che viene pietosamente coperto dalle donne con un velo bianco; dal suo volto traspare una grande “umilitade”, come se dicesse: “Io sono a vedere il principio de la pace”. Il poeta si sente ispirato da “tanta umilitade” di Beatrice e desidera poterla vedere quale ora è, gloriosa; invoca perciò la morte, in un rituale che sembra richiamare la Legenda di S. Francesco (e più tardi anche il Libro della beata Angela da Foligno).

La sequenza si chiude, circolarmente, con il ripristino del rito del pianto, che conduce il poeta ad invocare Beatrice e ad esclamare: “Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!”.

Ma il rito del pianto funge anche da avvio della seconda sequenza. Preso da un forte singulto di pianto, il poeta-riprende ad invocare la morte e una donna “giovane e gentile” che era accanto al letto, ritenendo che le lacrime del poeta fossero dovute al dolore causato dall’infermità, piange a sua volta. Il pianto della donna, che era congiunta al poeta da “propinquissima sanguinitade”, richiama l’attenzione delle altre donne che sono nella stanza, le quali, credendo che egli sognasse, cercano di parlargli e di confortarlo. La “forte fantasia” si dissolve allorché il poeta sta per pronunciare il nome di Beatrice, e riscuotendosi tosto dal sonno, aperti gli occhi, giunge però ad intuire di essersi “ingannato”. Con la voce ancora rotta dai singulti di pianto, il poeta tenta dapprima inutilmente di parlare, e alle donne che cercano di riconfortarlo, in quanto era parso loro che il poeta si fosse ridestato da un sonno letargico, quasi di morte (“Questi pare morto”, § 14), egli decide di narrare tutta quanta la visione o immaginazione originata dal suo “fallace imaginare”, tacendo tuttavia il nome della gentilissima. Quindi, sanato definitivamente dalla grave malattia, poiché gli pareva che fosse “amorosa cosa da udire”, il poeta si diede a comporre la canzone, Donna pietosa e di novella etate.

La costruzione della canzone, la più grave della Vita Nuova e una delle più organiche e compatte dell’intera produzione dantesca, si pone in un rapporto di specularità invertita rispetto alla prosa che ne illustra e anticipa i contenuti, come appare subito evidente se si considera la “divisione” proposta dall’autore:

Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando ad indiffinita persona, come io fui levato d’una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla; ne la seconda dico come io dissi loro. La seconda comincia quivi: Mentr’io pensava.

(§§ 29-30)

Tra la prosa e la canzone si determina in tal modo una correlazione di tipo chiastico, riflessa anche dal passaggio dell’ordo naturalis della prima all’ordo artificialis della seconda. Questa particolare architettura compositiva ha fatto pensare ad una possibile contemporaneità delle due sezioni del capitolo XXIII, secondo l’espediente della profezia post eventum applicata alla morte di Beatrice. La presenza della “donna pietosa” accanto al letto di Dante, riconducibile ad un generico archetipo boeziano, può far realmente pensare che anche la canzone sia stata composta al tempo dell’elaborazione del “libello”, allorché la Consolatio philosophiae di Boezio gli era divenuta familiare. In verità l’espediente di tipo boeziano appare assai generico e poco significativo e, del resto, la presenza della domina phìlosophia in un contesto di narrazione funeraria non si trova mai segnalata nel Medio Evo. L’episodio della donna e delle donne si deve in realtà ricondurre ad altri ascendenti letterari, e perciò non si vede la necessità di riportare la redazione dei due grandi registri narrativi ad un medesimo e più tardo arco di tempo.

La prosa, come sappiamo, contiene alcuni particolari che valgono a meglio determinare la circostanza della malattia di Dante; pure il particolare del letto figura utilmente aggiunto, come precisazione, solo nella prosa, anche se questa indicazione poteva benissimo essere determinata per via indiziaria. E però certo che la precisazione indotta dalla prosa è tutt’altro che inessenziale, poiché contribuisce ad orientare circa la ricognizione del “modello” implicato dal testo.

La canzone apre con l’ipostasi della donna pietosa, ma fa tosto emergere in primo piano l’azione delle altre donne, secondo un rituale di tipo etnografico e culturale, che trova la sua ulteriore specificazione in una delle scene successive in cui il poeta, immaginando di andare con lo spirito a vedere Beatrice morta, assiste all’episodio della copertura della salma con un velo (§ 26).

Donna pietosa e di novella etate,

adorna assai di gentilezze umane,

ch’era là ‘v’io chiamava spesso Morte,

veggendo li occhi miei pien di pietate,

e ascoltando le parole vane,

si mosse con paura a pianger forte.

E altre donne, che si fuoro accorte

di me per quella che meco piangia,

fecer lei partir via,

e appressarsi per farmi sentire.

Qual dicea: “Non dormire”,

e qual dicea: “Perché sì ti sconforte?”.

Allor lassai la nova fantasia,

chiamando il nome della donna mia.

(§§ 17-18)

Non bisogna poi trascurare che l’anima che viene traslata al cielo, accompagnata da un corteo di angeli, è quella di una donna, cosicché la scena può essere ricondotta al grande tema dell’assunzione di Maria al cielo. La prima scena, quella delle donne circostanti al letto di Dante, è stata modellata in conformità alla seconda, ma tenendo conto delle particolari consuetudini del contesto sociale in cui la vicenda si veniva a collocare, come si verifica al capitolo XIV, dove ci viene presentata una scena di matrimonio e le donne fanno compagnia alla sposa “nel primo sedere alla mensa che facea ne la magione del suo novello sposo”. La scena delle donne intorno al letto, variatis variandis, ripropone il tema della morte di Maria, circondata dagli apostoli e da alcuni fedeli. Nel Transitus Virginis, un testo anonimo che ebbe larga diffusione nel Medio Evo, ci vengono proposte le scene finali che riguardano la morte e l’assunzione di Maria al cielo. Maria ci viene presentata dapprima a letto, circondata dagli apostoli e da tre donne:

Sedebat autem ad caput eius beatus Petrus et circa lectum alii discipuli. Circa autem horam diei sextam subito factum est tonitrum magnum et odor suavitatis, ita ut prae nimia suavitate omnes obdormirent qui ibidem erant, exceptis apostolis et tribus virginibus quibus mandaverat ut sine intermissione vigilarent et testificarent de illa gloria adsumptionis eius in qua adsumpta est beata Maria. Et dormientibus omnibus istis subito advenit Dominus lesus per nubem cum multitudine angelorum, et ingressus est domum. in qua Maria iacebat. Et Michael princeps angelorum hymnum dicebat cum angelis omnibus. Et cum ingressus fuit Salvator, invenit apostolos circa lectum beatae Mariae, et dixit eis: “Pax vobis”.

L’anima candidissima della Vergine viene quindi affidata all’arcangelo Michele perché la custodisca. Per il timore dei sommi sacerdoti il letto su cui giaceva Maria viene intanto fatto trasportare in altro luogo, perché il suo corpo possa essere collocato in un sepolcro nuovo, e, avvolti in una nube, Pietro e gli altri discepoli possono così sottrarsi ad ogni possibile intercettazione. Giunta alfine l’ora, Cristo ordina che il corpo della propria madre venga portato in cielo dagli angeli:

Mariam autem portantes apostoli pervenerunt ad monumentum, ubi eam sepelierunt; ipsi vero resederunt ante ostium monumenti, sicut mandaverat illis Dominus lesus Christus. Et sedentibus illis subito advenit Dominus cum multitudine angelorum et ait ad eos: “Pax vobis, fratres”. Et sic iussit Michaeli archangelo ut susciperet corpus beatae Maria in nubibus. Et cum suscepisset, dixit Dominus ad apostolos ut accederent prope se; et cum adpropinquassent apostoli ad Dominum lesum, et ipsi suscepti sunt in nubibus. Etpraecepit Dominus nubibus ut irent in paradisum sub arbore vitae. Et sic deposuerunt nubes corpus beatae Maria in paradiso; et est ibi glorificans Deum cum omnibus electis eius. Et adtulerunt angeli animam Sanctae Maria et posuerunt eam in corpore ipsius, iubente Domino nostro Iesu Christo; et habebit gloriam ibi in sempiterna saecula saeculorum.

Alla luce degli elementi connessi al Transitus Virginis si deve dunque postulare una connessione tra la scena iniziale, in cui le donne assistono Dante a letto, e la scena della traslazione dell’anima di Beatrice, accompagnata da un corteo di angeli. I medesimi motivi ci vengono illustrati anche da Amedeo di Losanna, nella VII delle sue omelie mariane, che tratta della morte di Maria e della sua assunzione. Leggiamo infatti:

Iam vero quis digne laudibus efferat sacratissimam eius assumptionem? Quis fatu explicet quam laeta migravit a corpore, quam laeta vidit filium, quam gaudens properavit ad Dominum, angelorum vallata choris, apostolicis fulta obsequiis, dum regem cerneret in decore, et natum cum gloria prestolandi se videret, sicut expers totius corruptelae, sic immunis ab omni molestia? De carnis habitaculo educta est perenniter habitura cum Christo. Transiit autem in visione Dei, et beatissimam illam animam sole clariorem, coelo celsiorem, angelis digniorem, Domino exhalavit (…) Ibi explevit munus vitae, dans plenam atque perfectam virtutum omnium consummationem. Ibi orienti magis quam morienti, et abiturae plus quam obiturae occurrunt castra Dei, et ruunt obviam ei exercitus militiae coelestis.

 “O quam pretiosa in conspectu Domini mors genitricis suae!”, esclama ancora Amedeo di Losanna. Nella sua morte c’era la vita, e nessuna morte può eguagliare la gioia in essa contenuta. Sul suo volto non c’era traccia di dolore, di sofferenza, di timore. Maria appariva sicura, proprio come chi “firmat in littore fidem stationis”. Uscendo da questa vita, essa si è così posta a contemplare la fonte stessa della vita.

Egrediens itaque vidit vitam, ne mortem videret. Vidit filium, ne carnis abscessu doleret. Evadens ergo libera in tam felicissima visione, etPotita optato vultu Dei, venerandos cives caeli in sui obsequio et deductione paratos invenit.

Mirantur illi animam meriti singularis, exutam aeterna labe, nullam carnis aut saeculi maculam habere. Mirantur exutam artubus gratia totius puritatis candere. Quid enim primo laudent in ea, integritatem an humilitatem, prudentiam an caritatem, robur mentis an longanimitatem, honorem matris an partus novitatem? Sed virtus integra et plena gratia magis in illa laudatur.

Nella canzone, e quindi nella prosa, Dante sembra aver voluto in maniera trasparente ispirarsi a due diversi rituali, della morte di Cristo, con tutti gli eventi cosmici e terrestri che l’hanno accompagnata secondo le narrazioni evangeliche, e della morte di Maria, quasi a voler simboleggiare la nuova pienezza dei tempi che si veniva a compiere con il disvelarsi del mistero di Beatrice. In conformità al secondo di questi rituali, la morte di Beatrice non ha nulla di orroroso, ma nella sua umiltà, come troviamo in Amedeo di Losanna, il suo volto lascia trasparire l’idea della pace di cui ormai già gode. Il passaggio dalla poesia alla prosa rende più evidente questo contesto, quasi Dante abbia avvertito la necessità di chiarificarlo ulteriormente:

Lo imaginar fallace

mi condusse a veder madonna morta;

e quand’io l’avea scorta,

vedea che donne la covrian d’un velo;

ed avea seco umiltà verace,

che parea che dicesse: – Io sono in pace.

(§ 26)

E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con un bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade, che parea che dicesse: “Io sono a vedere lo principio de la pace”.

(§ 8)

Nella prosa il poeta introduce la precisazione del velamento del capo, un particolare rituale nient’affatto trascurabile, ma la precisazione maggiore riguarda l’attitudine che viene significata dalla manifestazione del volto di Beatrice. Dal rilievo del personaggio, che con l’idea della pace (“Io sono in pace”) sembra voler dapprima rimarcare il superamento della vita terrena, si passa più decisamente a far emergere l’idea della realtà celeste e la natura della vita che le è connessa, che consiste nella contemplazione di Dio, principio della pace. E con la liturgia della divina contemplazione emblematicamente si chiude la canzone, rievocando anche il corteo degli astanti che fruiscono della divina immagine.

Poi mi partia, consumato ogne duolo;

e quand’io, era solo,

dicea, guardando verso l’alto regno:

– Beato, anima bella, chi te vede! –

(§ 28)

Nella prosa Dante ripropone nuovamente la scena, non senza però qualche ulteriore elemento:

E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: “Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!”.

(§ 10)

Questo frammento di scena si organizza secondo un modulo di natura contemplativa: lo sguardo risulta diretto verso l’alto e, nella prosa, il luogo si precisa più propriamente come la residenza dei beati (il regno di Dio). Mentre nella poesia l’evento si manifesta come superamento dell’esperienza del dolore, conseguente alla morte di Beatrice, nella prosa viene fatto risaltare il mutamento della direzione dello sguardo che, dopo la visione del corpo senza vita, viene rivolto verso l’alto, a voler significare la conquista delle cose superiori, secondo una tipica attitudine rimarcata da tutte le scuole ascetiche e contemplative medioevali. Beatrice nella prosa ci appare sempre più immersa nella gloria divina, e le si addice definitivamente l’epiteto reso al superlativo “anima bellissima”). Nella prosa viene inoltre fatto riaffiorare il motivo del pianto, che però non ha ora più nulla di luttuoso, di doloroso, di tragico, in quanto non registra tanto un’assenza – la perdita di Beatrice -, quanto il bisogno di trascendenza, che Dante si sente temporaneamente inabilitato a compiere. E la voce del poeta, mossa dal desiderio, enuncia ora cose veritiere “incominciai a dire con verace voce”), è a dire manifesta la nuova e autentica realtà di Beatrice, che è ultraterrena e appartiene al regno della Verità, in quanto, propriamente parlando, “veritas a veritate dicitur”, secondo aveva sentenziato S. Agostino.

L’evento che Dante è portato a vedere con l’immaginazione è “di caunoscenza e di verità fora” (§ 22), in quanto esso è il prodotto dell’errare della mente, in preda ad uno stravolgimento conseguente al parossismo del male: è errore, è inganno; l’immaginazione è falsa, la fantasia è erronea, ma i segni che l’accompagnano si rivelano di un valore allusivo e profetico, nemmeno troppo facilmente dissimulabile. Gli angeli che salgono verso il cielo, accompagnando Beatrice che è in forma di «nebuletta bianchissima”, intonano Osanna in excelsis.

 Levava li occhi miei bagnati in pianti,

e vedea , che parean pioggia di manna,

li angeli che tornavan suso in cielo,

e una nuvoletta avean davanti,

dopo la qual gridavan tutti: Osanna;

e s’altro avesser detto, a voi dire’io.

Allor diceva Amor: – Più nol ti celo;

vieni a veder la nostra donna che giace.

(§ 25)

La scena è quella dell’ascensus dell’anima di un beato, cui si accompagna il reditus del coro degli angeli, che intonano Osanna in excelsis. L’evento si annuncia come un rito di consacrazione delle vicende di un personaggio, apoteosi che prelude alla sua maggiore gloria celeste. Al culmine di questa scena la canzone accentua la rivelazione di Amore: l’anima della donna, il cui corpo giace in terra e che il poeta è invitato ad andare a vedere, è già stata traslata trionfalmente in cielo.

La prosa sembra però voler attenuare l’originaria forma della comunicazione, conservataci dal testo della poesia, e interpreta il comando di Amore come una pulsione del cuore:

Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; e altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: “Vero è che morta giace la nostra donna”.

(§§ 7-8)

La scena conserva in entrambi i testi il valore di un evento sacro, secondo un modello di tipo rituale: gli angeli che tornano verso il cielo, l’anima accompagnata sotto forma di nube bianca, il canto di glorificazione e di accoglimento paradisiaco; ma nella prosa si attenua il valore proprio della comunicazione di Amore, poiché la figura di Amore che qui è delegata ad intervenire non si presenta con i tratti precipui dell’ipostasi divina. La comunicazione di Amore, come voce del cuore, come sentimento puramente immanente, deve ormai cedere il passo, all’atto della redazione della prosa, al manifestarsi della vera immagine dell’Amore, che è trascendenza, secondo appare chiaro dalla visione che conclude il “libello”.

La poesia e la prosa mostrano a chiare lettere di appartenere ad una differente fase genetica del testo, in cui le cose risultano essere state diversamente esplicate ed inverate. Anche il quadro degli eventi cosmici che accompagna la morte di Beatrice viene concluso da una comunicazione indirizzata al poeta.

Poi mi parve vedere a poco a poco

turbar lo sole e apparir la stella,

e pianger elli ed ella;

cader li augelli volando per l’aere,

e la terra tremare;

ed omo apparve scolorito e fioco,

dicendomi: – Che fai? non sai novella?

Morta è la donna tua, ch’era sì bella. –

(§ 24)

Pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: “Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo”.

(§§ 5-6)

Gli elementi e il valore della scena permangono immutati e pure il registro della comunicazione non viene alterato, ma la precisazione relativa alla persona del comunicante – “alcun amico” – sembra voler togliere suggestione alla comunicazione stessa, depotenziando il senso di mistero che poteva esserle connesso (si pensi alla corrispondenza iniziale tra il sole che si “turba” e l’apparizione di una figura d’uomo “scolorito e fioco”). Ma la prosa porta poi a sua volta a riorganizzare il contesto della visione, che à rebours non può non apparire definitivamente chiaro:

 

E parlandomi così [le donne], sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch’io voleva dicere: “O Beatrice, benedetta sie tu”.

(§ 13)

Il nome di Beatrice rimaneva allora, al tempo dell’immaginazione erronea, come interdetto, in ossequio ai canoni del rituale della poesia cortese:

E già detto avea “O Beatrice”, quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato.

(§ 13)

Compiutosi tuttavia l’evento della morte della gentilissima, il suo significato doveva farsi trasparente per Dante, e riconciliatosi totalmente con la memoria di Beatrice, dopo l’episodio che lo aveva portato a divergere seguendo le tracce della “donna gentile”, incalzandolo il pensiero della “donna gloriosa”, egli tornerà a proporsi l’impegno di andare “a vedere la gloria de la sua donna» che aveva già anticipato, in figura, nel contesto della canzone Donna pietosa e che ora la prosa del capitolo XXIII rendeva esplicito proprio attraverso il richiamo a “Beatrice benedetta” con cui si chiude la scrittura del libello.

Componendo la canzone Dante sembra chiaramente aver voluto pagare il tributo ad una lunga tradizione narrativa di natura agiografica, romanzesca e poetica, mediante il modulo della visione-rivelazione, interpretabile come una forma di presagio riguardo all’imminente destino che avrebbe coinvolto il personaggio centrale dell’evento: egli procede invero a rimodellare una serie di materiali, di varia estrazione, nella forma di una complessa ritualità, tra il sacro e il profano, che doveva però lasciare trasparire l’idea della numinosità del personaggio di Beatrice, che da mortale si faceva definitivamente immortale. Nella prosa, stesa a pochi anni di distanza, componendo la trama del “libello”, egli non riprende semplicemente la materia della canzone, per ripercorrerla e talora anche meglio esplicarla, ma la colloca all’interno di uno schema narrativo la cui traccia doveva servire a metter in luce il progressivo disvelarsi di un evento eccezionale, di valore esemplare e salvifico, costituito dalla vita di Beatrice. Il “libello”, mentre riannoda le fila del “libro de la memoria”, mira altresì a proiettare l’esperienza sottesa alla canzone in una dimensione più vasta, senza la quale la scena del presagio non poteva avere veramente senso né compimento.

1 Testo rivisto dall’Autore.