Il recupero della pietà e della memoria in Varlam Salamov

Il geniale regista cinematografico russo Andrej Tarkovskij (1932-1986), già gravemente malato, nelle ultime settimane passate in ospedale, lesse proprio I racconti di Kolyma. Dalle sue impressioni affidate al diario traggo una frase significativa:

“Molti, dopo averli letti, si chiedono con stupore da dove venga, dopo tutti questi orrori, un tale senso di purificazione. Nel raccontare la sofferenza Šalamov, con la sua verità senza compromessi – l’unica arma di cui disponga – costringe il lettore a com-patire, a soffrire insieme a lui, e a inchinarsi a quell’uomo che è stato all’inferno”.

Ecco, Šalamov è l’uomo che ha sofferto l’inferno, il quale ha subito personalmente e visto infliggere a uomini e donne pene e umiliazioni indegne della persona umana e che però ne ha saputo mantenere la verità e il ricordo senza infingimenti e compromessi.

Varlam Šalamov (1907-1982), il quale ha trascorso – per reati d’opinione – quasi vent’anni complessivi (la prima condanna è del 1929) tra prigioni e lager, dei quali 15 nella regione siberiana di Kolyma (tra il 1938 e il 1953), si è poi dedicato per un numero quasi uguale di anni (dal 1954 al 1972) alla stesura dei racconti che compongono il ciclo.

Lui stesso narra di come riuscisse a trarre il materiale della sua narrazione dallo scorrere nella memoria delle fiumane di moltitudini di vite spezzate e perdute, trascegliendone i frammenti, “rallentandoli” in qualche modo nel loro fluire e lasciandoli decantare, fino all’ideale forma voluta, perché aderissero come un guanto o un’orma, alla realtà evocata.

Ciò però ha comportato un prezzo altissimo, rimetteva e ha di fatto rimesso in gioco la vita stessa di Šalamov, che ha potuto realizzare la sua opera solo “urlando e piangendo in una stanza vuota”, cioè di nuovo con-soffrendo, isolandosi, sacrificandosi, lui che era sopravvissuto, al dovere di perpetuare la memoria di quelli che non erano tornati. È ancora lui a dirlo, nel racconto Il guanto: “I documenti del nostro passato sono stati distrutti, le torrette di guardia segate, le baracche rase al suolo, il reticolato arrugginito riavvolto e portato altrove. Sulle macerie è fiorito l’epilobio, il fiore dell’incendio, dell’oblio, nemico degli archivi e della memoria dell’uomo. Siamo mai esistiti? Rispondo: ‘siamo esistiti’, con tutta la forza espressiva del verbale, con tutta l’autorevolezza, la precisione del documento”. E in un altro racconto, la punta di un ramo di larice della Kolyma spedito via aerea a Mosca torna a vivere coprendosi di nuovi germogli. E quello che doveva essere per la moglie del deportato morto nel lontano lager, il ricordo di un tragico passato si fa invece occasione di vita nuova.

È di questo recupero della pietà e della memoria che ha bisogno l’uomo del XX secolo, il secolo “di Auschwitz, Kolyma e Hiroshima” (l’enumerazione è di Šalamov) per salvarsi.

Eccola la catarsi umana e poetica, la purificazione, la quale è necessaria alla salvezza dell’uomo, di cui parlava Tarkovskij (e chi ha visto il suo ultimo film, il testamento spirituale intitolato in italiano Sacrificio, nel preciso senso di “immolazione”, capisce anche in quale intima consonanza il regista possa essersi trovato con lo scrittore).

Una immolazione, ideale ma anche reale, dunque dell’artista, dello scrittore, sull’altare della verità e della memoria. Che però non può non concernere anche il lettore. L’ha rilevato, pur con accenti diversi, un amico del CCDC e di Matteo Perrini, il compianto Andrej Sinjavskij:

“La situazione del lettore non è propriamente comoda. Nei Racconti di Kolyma, diversamente che in altre opere letterarie, il lettore non si identifica con l’autore, lo scrittore (il quale “sa tutto” e lo conduce per mano), ma col detenuto. Con un uomo rinchiuso nella condizione del racconto. Non si ha scelta. Bisogna leggere dunque questi brevi racconti uno dopo l’altro, senza un attimo di respiro, trascinare tronchi squadrati, carriole cariche di minerale. E’ una prova di resistenza, una verifica della buona qualità umana (inclusa quella del lettore). Certo, si può interrompere la lettura e ritornare alle proprie occupazioni. In fin dei conti, il lettore non è un detenuto! È vero, ma come vivere allora, senza aver letto fino in fondo? Come un traditore? Come un pavido, che non ha il coraggio di guardare in faccia la verità? Come un futuro aguzzino o una futura vittima delle situazioni qui raccontate?”.

Tra le opere apparse nel tempo sui lager comunisti sovietici due costituiscono altrettanti monumenti letterari: L’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn e, appunto, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. A suo tempo Solženicyn ha reso omaggio a Šalamov: “Nei suoi racconti il lettore avvertirà più esattamente lo spirito spietato dell’Arcipelago e il limite dell’umana disperazione”.

Dopo varie edizioni parziali, in Italia i 145 racconti, suddivisi in 6 grandi cicli, per complessive 1313 pagine sono usciti integralmente nel 1999; l’edizione einaudiana si basa sulla versione definitiva uscita l’anno prima a Mosca.

Traiamone alcuni spunti contenutistici, mentre lasciamo alla lettura di brani che seguirà, di evocarne la forma, sempre sorvegliata e laconica e segnata spesso da fulminanti accensioni poetiche (Šalamov riuscì anche a scrivere circa 800 poesie e alcune di queste sono le uniche cose che sia riuscito a pubblicare in patria durante la sua tormentata esistenza).

Tra il 1938 e il 1953 per Magadan, la città portuale creata per smistare alla Kolyma le tradotte di prigionieri, sono passati almeno 5 milioni di persone, in gran parte “politici” (la metà non è più tornata a casa).

Venti-trenta giorni è la normale “durata” media di un detenuto nei giacimenti a cielo aperto da cui si estrae l’oro alla Kolyma: turni massacranti, freddo che arriva a meno 50°, fame cronica da vitto insufficiente ulteriormente decurtato per non aver rispettato il piano di produzione, da cui conseguente debolezza e diminuzione ulteriore della resa: è il circolo vizioso della morte sicura.

Talvolta a interromperlo viene una sentenza dell’ “inquirente” interno del lager (membro della polizia politica, NKVD, ecc), che decreta: “sabotaggio della produzione” e l’infelice, magari un giovane studente universitario non abituato ai lavori fisici, viene abbattuto come un cavallo sfiancato (racconto Misurato a parte).

Per chi non riesce a “imboscarsi” nei servizi logistici e amministrativi (ma molti non esitano a diventare capisquadra, kapò e aguzzini dei propri compagni di sventura) c’è una risorsa: ridursi a un invalido con automutilazioni di mani e piedi, sporcando e infettando ferite lievi, mettendosi in bocca muco infetto di malati TBC per farsi ricoverare e contagiandosi poi realmente; il tempo passato all’ospedale del lager è tempo strappato alla morte ma consente solo di tornare con un po’ più di forza sul “fronte di scavo” (racconti Il businessman e Il guanto): molti ricorrono alla risorsa estrema, il suicidio (Il silenzio, tra altri).

Ma ci sono anche periodiche stagioni di “sfoltimento dei ranghi” dei detenuti esausti, per evitarsi il fastidio di doverli curare: nel solo 1938 alla “Serpantinnaja”, la prigione istruttoria a Ovest di Magadan vengono fucilati 25.000 “nemici del popolo”. Inoltre i prigionieri politici vengono lasciati in balia dei criminali comuni, ai quali vengono apposta mescolati nel lager, che li spogliano, li derubano sistematicamente per poi assoggettarli con lo stesso pane che hanno loro rubato, facendoli lavorare al posto loro, abusandone anche sessualmente (Il pacco da casa, Dolore, ecc.).

La continua moria della “forza-lavoro” comporta che siano richiesti sempre nuovi contingenti di detenuti dal “continente” (l’Unione Sovietica delle città e regioni più popolate). Le “aziende” che sfruttano la Kolyma dipendono direttamente dalla NKVD, che quindi esegue in tutto il Paese gli arresti programmati che le servono per rifornire di mano d’opera schiava le varie produzioni, minerarie, boschive, ecc.

I trasferimenti a tappe forzate degli schiavi sono spesso disastrosi: migliaia di infelici alla volta vengono avviati in condizioni proibitive (spesso a piedi!) verso i luoghi delle miniere e dei cantieri forestali; qualche volta, in caso di rivolta, l’eccidio è totale (racconto Il procuratore della Giudea). Tutto ciò fa della Kolyma una vera e propria Auschwitz (“non c’erano le camere a gas, preferivano farti morire per assideramento, per estenuazione: il risultato era più confortante per tutti”: così nel racconto Lezioni d’amore) e poiché Kolyma è solo l’emblema dei “campi di lavoro correzionale” che avvolgono a centinaia, per decenni, come una rete, l’intera Unione Sovietica, l’Autore parla altrove di “decine di Auschwitz” nel Paese. Il parallelismo tra campi di sterminio nazisti e comunisti viene dall’Autore fatto vedere nelle cose (la scritta staliniana esaltante il lavoro che è appesa sopra tutti i portoni del lager; l’uso di cavare i denti d’oro ai detenuti morti, ecc.) e nei risultati: lo sterminio dei prigionieri-schiavi.

Nel racconto In lend-lease, sul fianco di una montagna diboscata che comincia a franare si spalanca uno squarcio che mette a nudo una fossa comune. I cadaveri cominciano a scivolare giù per la china. Il trattore appena arrivato dagli Stati Uniti col piano bellico “affitti e prestiti” invece di aiutare il lavoro dei detenuti vivi viene impiegato per far sparire i detenuti morti: “Il bulldozer aveva ammucchiato tutti quei cadaveri irrigiditi dal gelo, migliaia di cadaveri, di corpi scheletriti…”.

Cerchiamo di aprirci alla verità e alla memoria , così sofferte da   Salamov, dell’esistenza e morte dei milioni di vittime di quel “crematorio bianco” che fu la Kolyma; così da non renderci complici neppure inconsapevoli della loro rimozione e del loro oblio; seguiremo così il cammino dell’Autore e condivideremo la sua certezza, malgrado e contro tutto e tutti, che il ricordo di un tragico passato può diventare occasione di vita nuova.

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NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 28.3.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

Riferimento bibliografico:

Varlam Salamov, I racconti di Kolyma, Tascabili Einaudi, 1999, Torino, 2 volumi per complessive 1.314 pagine.

(l’edizione rilegata, in un solo volume, è uscita nella collana “I millenni”).

La traduzione, condotta sul testo russo definitivo curato da Irina P. Sirotinskaja, è di Sergio Rapetti cui si deve anche il “Glossario” in appendice.

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