Il ritorno al Padre

Autori: Bianchi Enzo

Voglio proporvi la lettura di un solo brano del Vangelo, che significativamente i Padri della Chiesa chiamavano il «Vangelo nel Vangelo», perché coglievano in esso la sintesi del messaggio dell’annuncio fatto da Cristo su Dio. Dio è il padre di Gesù e il padre di tutti noi uomini, ma il Vangelo delinea il volto di questo padre in mille parole e atteggiamenti di Gesù, che trovano una sintesi nella parabola dei due figli o, come dovrebbe essere chiamata, del «Padre misericordioso» (capitolo 15 di Luca), che ora leggo.

Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e faccia­mo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò il servo e domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici, ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

Gesù, come ogni ebreo, aveva imparato a chiamare Dio «avinu», «Padre nostro», e, quando predicava la buona notizia, ne parlava confermando l’annuncio già contenuto nell’Antico Testamento. Dio è un padre per ogni credente, per ogni uomo, un padre che chiama alla vita, che educa e guida i suoi figli con amore fedele, viscerale. Però Gesù non si è limitato a parlare della paternità di Dio come i profeti e i rabbini. Gesù, in realtà, aveva una missione unica: quella di rivelare, spiegare, narrare quel Dio invisibile, che nessuno aveva mai visto e che lui chiamava con audacia non solo Padre Nostro, ma anche «Abbà», ossia papà caro, babbo amato. Un termine che apparteneva al linguaggio dell’intimità familiare e che mai nessuno aveva mai osato applicare a Dio.

Ricordate quel che dice Giovanni alla fine del prologo del Vangelo: Dio, nessuno l’ha mai visto, nessuno può vederlo senza morire, ma il figlio, Gesù, ce ne ha fatto la spiegazione, la narrazione, ha mostrato il volto di quel Dio che non si può vedere senza morire. E questa narrazione ci è stata data attraverso la sua vita, il suo modo di vivere quotidiano, la sua parola.

Ebbene, nel capitolo 15 del Vangelo di Luca, dove è rivelata la qualità paterna di Dio, c’è proprio un’azione, un comportamento di Gesù e insieme un suo insegnamento: una parabola – potremmo dire anche tre parabole – che mostrano il volto di Dio. È una pagina in cui noi possiamo sperimentare come vera quella parola detta da Gesù a Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». In questa parabola è molto importante l’inizio, il contesto, perché sono parole che inquadrano l’atteggiamento di Gesù e il suo insegnamento. «Gli si avvicinarono tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo».

Gesù frequenta dunque i peccatori, non lascia che la gente maledetta da Dio e dagli uomini resti là dov’è, esclusa da ogni contatto. Lui sapeva che c’erano uomini e donne esclusi dagli uomini religiosi, dagli uomini giusti; ed ecco, invece, che Gesù accoglie con premura, con simpatia, fino a stare con loro e a mettersi in comunione con loro, condivide qualcosa di serio, di determinante: la tavola.

Tutti i Vangeli ci testimoniano che Gesù non è mai stato imbarazzato dall’incontro con i peccatori, mentre ha sempre sentito fastidio quando gli si avvicinavano i religiosi. Questo era il suo atteggiamento usuale, come quando si era messo in fila per ricevere il Battesimo da Giovanni: mostrandosi in pubblico per la prima volta, si era mescolato a un gruppo di peccatori, solidale con loro, dalla parte di quelli che erano lontani da Dio.

Di conseguen­za gli uomini religiosi lo disprezzavano e il Vangelo ci dice che lo chiamavano mangione, beone, amico dei pubblicani, cioè di quelli che facevano un mestiere disonorevole, amico dei peccatori e delle prostitute.

Gesù più volte ha preso l’iniziativa di andare a cercare questa umanità. Addirittura gli evangelisti ci informano che era andato ad alloggiare presso di loro, destando scandalo. Potremmo dire che Gesù distrugge la religione più di Giobbe e, mescolandosi con i peccatori e le prostitute, rivela innanzitutto la sua capacità di simpatia con chi è lontano, con chi è perduto. Mostra di sentirsi colui che è venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori, colui che sa che sono i malati ad avere bisogno del medico, come dice il Vangelo.

Con il suo atteggiamento, Gesù narra anche il Padre. Come dimenticare infatti che, quando il Pa­dre lo ha visto in mezzo a quella fila di peccatori che andavano da Giovanni a chiedere il Battesimo, gli dice: «Tu sei il mio Figlio ama­to», cioè mi compiaccio di te, di questo tuo amore che ti spinge tra i perduti.

Tornando al capitolo di Lu­ca, l’evangeli­sta nota che vi erano mormorazioni: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». Gesù ri­sponde al processo intentatogli da alcuni scribi e farisei, dunque dall’in­telligentia religiosa, con una parabola in tre similitudini: la parabola dalla pecora perduta, della dracma perdu­ta e, infine, quella dei due figli.

Ve le ricordo: la prima narra di un pastore, che abbandona tutto il greg­ge per andare dietro ad una pecora sola, fino a quando non la trova, quindi si rallegra e fa festa; la secon­da parla di una donna che si dà da fare per trovare una dracma smarrita e, quando la trova, fa festa con le a­miche. Gesù conclude che in Dio c’è un uguale atteggiamento verso chi è perduto, l’atteggiamento di quel pa­store che ha trovato la pecora e di quella donna che ha trovato la drac­ma: quindi Dio si rallegra quando c’è conversione, c’è il ritorno di chi era smarrito.

Poi c’è la terza similitudine, la no­stra, che però è incompiuta, non c’è un finale gioioso come nelle altre due, perché, a differenza delle prime due, dove l’attenzione era richiama­ta sul pastore e sulla donna, qui in­vece c’è un padre che ha a che fare con due figli e la conclusione non di­pende solo dal padre, ma anche dai due figli, due uomini che vivono in libertà. Questo padre, pur avendo il cuore di quel pastore e la gioia di quella donna, tuttavia non può far tutto.

Ci troviamo di fronte ad una parabo­la aperta, in atto, un racconto che ci immette in un conflitto fra tre punti di vista: quello del figlio andato via e ritornato, quello del figlio restato a casa e quello del padre.

Luca con questa terza parabola vuo­le intrigare il lettore, vuole comuni­carci come la conclusione dipenda anche da noi stessi. Devi deciderti, suggerisce Luca, con la struttura e la retorica del testo: con chi stai? Qual è la tua posizione? Che cosa stai facendo perché questa parabola in at­to, non ancora conclusa, possa final­mente compiersi? Ognuno di noi si deve interrogare dove collocarsi: stiamo andando ancora lontano da Dio, stiamo tornando a lui poco con­vinti e, soprattutto, conosciamo dav­vero il volto di Dio, che è un volto paterno? Quando diciamo che Dio è Padre, cosa mettiamo in questa paro­la, in questo attributo? Che tipo di padre è Dio? Luca ci chiede se ci sentiamo forse di dar ragione al figlio che è restato sempre a casa e quale atteggiamento abbiamo di fronte al fratello perduto. Ci sono domande infinite che la parabola solleva, a cui è impossibile sottrarvisi.

Ascoltiamo bene questa simili­tudine: «Un uomo aveva due fi­gli», ed è proprio questo uomo il protagonista, che dà unità alle due scene, la prima legata al figlio che se ne va, la seconda al figlio che è sem­pre rimasto a casa. Forse qualcuno si sarà chiesto perché non è menziona­ta la madre. Molto sbrigativamente alcuni commentatori affermano che la madre non appare perché, a quel tempo, la donna non contava nulla; altri, invece, dicono che era impor­tante che centrale fosse la figura del padre. Può darsi, ma io credo che anche il non detto abbia il suo significato, ci ponga degli interrogativi. L’assenza della madre suggerisce che l’esistenza in quella famiglia era ferita, non idilliaca, ed è in questa realtà che si situa, ad un certo punto, la rottura del figlio minore. Solo chi ha provato l’assenza di una madre nella crescita sa cosa sia questa ferita che brucia e che comunque continuerà a sanguinare, una ferita che tocca an­che la stessa relazione con il padre. La prima scena, dunque, mette in e­videnza la vicenda tra padre e figlio minore, ma non vuole dirci che pri­ma le cose andavano bene e poi han­no cominciato ad andare male. La parabola afferma semplicemente che il figlio minore, ad un certo punto della crescita, vuole ritagliarsi la sua parte di vita e dunque reclama la sua parte di eredità per disporne comple­tamente: «Dammi la parte del patri­monio che mi spetta».

Certo, il comportamento del figlio è ingiurioso, agisce come se il padre fosse morto, perché la legge prevede­va che l’eredità andasse divisa alla scomparsa del padre. Il figlio non a­veva dunque la facoltà di disporne prima della morte. Di fatto, ciò che il figlio fa, equivale a desiderare la morte del padre, perché è come a­vergli detto: «Padre, non posso aspet­tare che tu muoia».

Permettetemi di essere preciso su questo punto in quanto certe cose non si percepiscono se non si cono­sce il testo originale. Il figlio chiede il patrimonio, «usìa» in greco, ma poi il testo originale dice che il padre divi­se tra i due figli «ton bìon», letteral­mente «la vita».

È l’unica volta che nel Vangelo que­sto termine allude ai mezzi di sussi­stenza, alle ricchezze che scaturisco­no dall’eredità. Il dono della vita del padre è preteso dal figlio che, proprio con questa pretesa, rifiuta la pater­nità, sentendo il suo legame come u­na schiavitù, un limite alla propria li­bertà. La casa in cui è vissuto è per­cepita come prigione, dalla quale oc­corre andare via presto e conoscere l’indipendenza.

Chi non ha provato in sé, ad un cer­to punto della sua crescita, il bisogno di evadere? Chi non ha sognato nel­la sua adolescenza questa libertà, quando non riusciva più a vedere il dono che gli veniva dalla famiglia? Comunque, che noi lo sappiamo o no, si tratta del nostro vissuto con Dio. Gesù parla del rapporto tra fi­glio minore e padre per dire: «Letto­re, questo è il rapporto tra te e Dio». Ripeto di nuovo: la parabola non ci dice che prima della partenza tutto andava bene tra padre e figlio; la sto­ria di quella famiglia era presumibil­mente già dolorosa, segnata dalla sofferenza che la fuga del figlio svela e rende manifesta.

Così è la nostra storia con Dio. Da sempre sentiamo in noi la difficoltà a riconoscere Dio come Padre, colui che il salmo dice: «Ci ha formato nel segreto, ci ha tessuto nell’utero di nostra madre». Prima o poi, Dio è sentito come una volontà che urta con la nostra, una presenza che pone da­vanti a noi un limite, perché ci ricor­da che nessuno di noi è solo, che altri sono accanto a me, che io non posso avere tutto e subito. Ci chiede di tenere conto della nostra condi­zione di creatura, di uomo tra uomi­ni e nessuno di noi, purtroppo, sa quando si è introdotta in noi questa sofferenza con Dio Padre. Possiamo cercare indietro nella nostra vita, ma non ricordiamo il giorno in cui per la prima volta abbiamo detto di no a Dio.

Nei confronti di Dio abbiamo avuto una rivolta, siamo stati capaci di una contraddizione, la sua presenza ci è diventata oppressiva, magari addirit­tura ossessionante. Più tardi abbia­mo capito che eravamo tentati dal male, più tardi lo abbiamo chiamato peccato. Di fatto, però, abbiamo co­minciato a tradire la sua volontà, a sentire il legame con lui come un vincolo insopportabile, l’ascoltarlo come un’oppressione.

Si può dire che noi abbiamo voluto uccidere Dio nella misura in cui ab­biamo voluto dimenticarlo, fare a meno di lui e, come il figlio, cammi­niamo senza un traguardo, ci basta andare lontano. Siamo assaliti da tanti dubbi, come Adamo, come Eva, pensiamo che il limite posto da Dio sia ingiusto, sia dovuto alla sua gelosia nei nostri confronti. Ci po­niamo la stessa domanda dei nostri progenitori: perché non possiamo es­sere come lui?

Già dentro di noi siamo poco dispo­sti a chiamare Dio con il nome di pa­dre, ma a questa scarsa propensione si aggiunge sovente una cattiva tra­smissione dell’immagine paterna di Dio da parte dei genitori e di molti e­ducatori, anche ecclesiali. Pensate quante volte, a fin di bene, abbiamo sentito dire o abbiamo detto: «Dio ti ama se tu sei buono, se sei cattivo Dio non ti ama più».

Crediamo in questo modo di dare un principio di etica ai figli, ma in realtà esprimiamo la nostra difficoltà a pensare a Dio come Padre, in quan­to crediamo che il suo amore sia condizionato. Ci ama se siamo buo­ni, altrimenti – si diceva ai miei tem­pi – ci castiga. Oggi, per fortuna, non si ha più il coraggio di affermarlo, ma in qualche misura Dio non ci ama più se siamo cattivi. Così, questo meccanismo trasmesso da istituzioni religiose, crea in noi l’immagine di un Dio padre — padrone, che ci ama al condizionale, ci ama se.

Ma questo è un Dio da poco, rispet­to al quale siamo come il figlio che fugge e imbocca un cammino morti­fero. Le nostre sostanza, i doni che Dio ci ha fatto, vengono sperperati, appare la sofferenza, la degradazione, la perdita di quel che noi siamo. La fuga intrapresa si mostra non solo sterile, ma illusoria e menzognera e, siccome siamo noi stessi ad aver scel­to quella strada, non vogliamo subi­to riconoscere la nostra responsabi­lità.

Perché Dio non ha fermato la no­stra fuga? Perché ci ha lasciati cadere nel peccato? Sì, il padre della parabola non ha costretto il fi­glio a restare a casa, non gli ha im­posto nulla, lo ha lasciato andare li­bero, anche se sapeva che la sua sof­ferenza sarebbe stata grande e avreb­be toccato anche lui come padre.

Non so se ci avete mai pensato, ma solo il Dio degli ebrei e dei cristiani ha creato un uomo che può negano, contraddirlo, desiderare la sua morte ed essere ateo.

Questa è la grandezza del nostro Dio. Guai affermare che Dio ci casti­ga: è una bestemmia, che ha creato più atei di certe filosofie dell’800 su cui abbiamo scaricato la colpa dell’a­teismo militante e dell’indifferenza attuale. I cristiani, con l’immagine di un Dio che va in collera, di un Padre che era peggiore e più esigente dei padri umani, hanno creato il rifiuto di Dio in molti. Dio ci ha amato e ci ama a tal punto che ci lascia andar via da lui e, se prendiamo una strada che ci porta alla morte, la morte la scegliamo noi, non è Dio che viene a castigarci.

Nel libro Vita e destino di David Grossman, un autore ebreo che ri­corda sovente il messaggio rabbini­co, un personaggio dice: «Chissà se Dio può fare una montagna così alta che nemmeno lui può scalare». Non è una domanda paradossale. La rispo­sta è: questa montagna è l’uomo. Dio, creando il mondo, ha voluto di­nanzi a sé una presenza libera, capa­ce di dirgli no, una presenza che lui non può costringere, cioè l’uomo è la montagna che Dio non può più sca­lare.

Ecco perché non può esserci rivalità tra il nostro Dio vivente e l’uomo, ecco perché il nostro Dio, nella sua onnipotenza, ha voluto l’uomo come partner nella sua alleanza. Ha voluto un vero figlio che crescendo può ac­coglierlo o rifiutano.

Il figlio andato via da casa è la nostra storia di peccato. Se non siamo ca­paci di vederci dentro questa storia, è solo perché abbiamo una tale pre­sunzione di sentirci giusti, che siamo esattamente uguali a quei giusti per i quali Gesù non è venuto.

Il Vangelo continua dicendo che quel figlio partito di casa cominciò a sentirsi nel bisogno: fame, penuria, persino la comunione con i porci, che erano considerati animali impu­ri dagli ebrei.

La descrizione che fa Gesù è finissi­ma: «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci», ma il testo dice, con finezza psicologica, che nessuno gliene dava. Il testo fa intendere che non si può vivere solo sfamandosi allo stesso modo dei por­ci. A noi, per vivere, non basta in­goiare cibo. Abbiamo bisogno di mangiare con gli altri, perché la maniera più elementare di dire a qual­cuno «io ti amo», senza parlare, è far­gli da mangiare. Il figlio minore ha necessità del gesto che indica la co­municazione, la comunione, i rap­porti­. Io amo parafrasare la parola di Gesù: «L’uomo non vive di solo pane, ma an­che di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Per noi uomini questa frase va accompagnata ad un’altra: «Il bambino non vive di solo latte, ma an­che di ogni parola che esce dalla bocca della madre». Per far crescere un bambino non ci vuole solo un bibe­ron con del latte, ma, ad un certo punto, la mamma deve accompagna­re il mangiare con la parola.

Il bisogno e la sofferenza non sono sempre buoni maestri, possono esse­re anche cattivi maestri e, nella sof­ferenza e nel bisogno, la persona può diventare più cattiva. L’esito non è assicurato. Tuttavia è vero che, quando uno è nelle difficoltà, per lo ­meno è invitato a pensare e quel fi­glio inizia a riflettere.

Il testo dice «rientrò in se stesso» e, se la vulgata, con il suo «reversum in se ipsum», interpreta già questo come un cammino di conversione, nel gre­co significa solamente che cominciò a parlare con se stesso.

Stare male produce interrogativi e quel figlio comincia a farsi domande, inizia un processo in cui legge ciò che ha fatto come un fallimento. Si trat­ta di un itinerario psicologico lungo, di un processo faticoso, carico di sof­ferenza, perché uno deve arrivare po­co a poco a riconoscere la caduta, l’errore fatto. Noi riusciamo a capire che ciò che abbiamo fatto è male, so­lo a partire dal male che ci siamo fat­ti, e voi tutti sapete che ci vuole mol­to tempo per comprenderlo.

Sovente i nostri peccati, proprio per­ché sono frutto di seduzione, appaio­no piacevoli. Gide parla della terribi­le perseveranza del vizio e, se volete capire cos’è la perseveranza, guarda­te i viziosi. È difficile perseverare nel bene, ma nel male e nei vizi siamo portati ad essere perseveranti e solo alla lunga scopriamo che siamo stati preda dell’illusione.

Il figlio perduto comincia significa­tivamente a pensare al risultato delle sue scelte e quindi, vedendone il fallimento, pensa al contrario della sua situazione, lo star bene. Al­lora il suo pensiero va ai servi, ai sa­lariati di casa sua, che «hanno pane in abbondanza», mentre lui ha fame e deperisce. Come ciascuno di noi, dopo il peccato e dopo aver raccolto il frutto del peccato che è sofferenza, male, sente un sordo senso di colpa che lo abita, un male oscuro. Non è però il riconoscimento del male fatto agli altri e all’Altro.

Nella parabola il figlio sente un disa­gio psicologico, perché il peccato commesso non lo ha soddisfatto, lo ha lasciato deluso, ed è a questo punto che il processo dello rientrare in sé può continuare o può arrestar­si. Molti, infatti, continuano ad erra­re in queste zone di deserto e di pe­nombra e non hanno il coraggio di fare il cammino di conversione. Nel­la nostra parabola, invece, questo processo continua e il figlio arriva addirittura a capire che ha rotto una relazione con il padre, si affaccia alla lettura di ciò che è avvenuto come allontanamento dal padre. Però non si converte ancora, come secondo l’interpretazione tradizionale. Già i Padri della Chiesa leggevano la para­bola come ora io la leggo e come di­ce il testo.

Il figlio non vuole tornare a casa per ritornare nel rapporto padre–figlio autentico, ma semplicemente perché ha fame ed ha fatto un calcolo astu­to, furbo. Ecco il suo vero pensiero, il meccanismo che lo mette in movi­mento con il quale rivela il suo spirito: per tornare a casa a star meglio, intende offrire al padre un baratto: «Io ti chiedo perdono, ma tu mi rendi un salariato». Vuole ancora dare or­dini e suggerire al padre lo scambio. Non è convertito, però il movimento in avanti acconsente comunque il ri­conoscimento del suo fallimento, della contraddizione vissuta verso suo padre e verso la legge di Dio («Padre, ho peccato contro di te e con­tro il Cielo»).

Ma il Vangelo prosegue dicendo che «era ancora lontano», che in greco si­gnifica sempre lontano da Dio, nel passato, nella non–fede. Ebbene, pur essendo lontano, il padre lo vide, si commosse fino alle viscere, gli cor­se incontro, si gettò al collo e conti­nuava a baciarlo. Ma il figlio non è in grado di capire ed è pronto ad agi­re secondo una logica da schiavo, dettando le condizioni al padre. In lui c’è la logica della giustizia retri­butiva.

Questo è lo scandalo, che coglie so­prattutto gli uomini che si sentono più giusti e religiosi, perché sono proprio loro che vogliono che in Dio vi sia una giustizia retributiva, esat­tamente come il figlio. Ma di fronte al figlio sta il padre, che lo attendeva da quando era partito e che mostra di amarlo anche quando era cattivo. Questo è difficile. S. Basilio dice: «Chi non capisce che Dio ci ama men­tre noi siamo cattivi, costui non ha an­cora conosciuto il Dio dei cristiani». Dio non ci ama solo quando siamo buoni, ma sempre.

Di conseguenza il padre pensa il fi­glio anche quando è lontano, lo aspetta e appena ne percepisce la sa­goma all’orizzonte è colpito da commozione, da tenerezza, addirittura – dice la traduzione greca – in un sus­sulto uterino. Quindi si mette a cor­rere, gli si getta al collo, lo bacia a lungo.

Ecco la rivelazione dell’amore di Dio, amore preveniente, che previene il fi­glio prima che questo si metta ad amare il padre, amore sempre fedele, che non viene meno quando manca l’amore di contraccambio, amore non reciproco, non simmetrico.

Questo è lo sconvolgente messaggio riguardo all’amore di Dio Padre, co­me ce lo ha spiegato Gesù, come ce lo ha spiegato san Paolo. Giovanni Crisostomo afferma che il miglior commento alla parabola lo effettua san Paolo nel capitolo 5 della Lette­ra ai Romani. Dice san Paolo che «mentre noi eravamo peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito» (Rom. 5, 6).

La simultaneità è questa: peccato, empietà, inimicizia da parte nostra; amore, riconciliazione, perdono da parte di Dio. Qui c’è quel Dio che si manifesta in Gesù sulla croce quan­do, ricevendo la morte dai carnefici, dice «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno»; mentre i car­nefici lo ammazzano, Cristo contem­poraneamente li ama.

Il padre bacia a lungo quel figlio che era perduto e in quell’abbraccio il fi­glio rinasce. Agostino dice: «Se non era convertito, quando il padre lo ha abbracciato, l’amore del padre lo ha convertito». La conversione è frutto della misericordia, dell’amore visce­rale di Dio, non di una giustizia re­tributiva che lui non conosce.

Il figlio, quando sente l’abbraccio pa­terno, si converte perché ha capito che il padre lo ha amato mentre lui e­ra cattivo. Infatti l’abbraccio è avve­nuto prima che il figlio parlasse, prima che cercasse di spiegargli qualcosa.

Ogni volta che abbiamo attribuito a Dio un tipo di giustizia retributiva, abbiamo bestemmiato il Dio dei cri­stiani. È un eccesso di amore che converte il figlio: in quel momento il padre come fantasma è morto nel fi­glio e lui ha conosciuto e abbraccia­to la verità del padre.

Il padre lo accoglie dopo la confes­sione sincera: «Ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio», ma non lo rimprovera, non recrimina sul pas­sato, non pone al figlio delle condi­zioni, non gli lascia dire nemmeno quelle parole che si era preparato: «Trattami come uno dei tuoi garzoni».

Le parole di scambio non sono più dette perché il padre, con il suo amo­re preveniente, ha attirato a sé il fi­glio. Il suo ritorno era un andare ver­so chi lo chiamava, chi gli aveva continuato a dire come al primo uomo caduto in peccato: «Dove sei?». Il pa­dre allora vuole che si faccia festa perché chi «era perduto è stato ritrova­to», chi era morto, ora è resuscitato. È più importante capire che Dio ci ama che noi dobbiamo amare Dio. Se noi dicessimo più spesso che Dio ci ama, con ogni probabilità, avremmo più gente che conosce Dio. Può amare Dio colui che ha conosciuto di essere stato amato da Dio prima, co­me amore preveniente. Diventano così comprensibili quelle parole di Gesù: «Non voi avete amato me, io ho amato voi e vi ho amato per primo».

La casa era sempre rimasta aperta in attesa del ritorno del figlio, ora di­venta il luogo del perdono e della fe­sta: il vestito più bello è dato al figlio, l’anello gli è messo al dito, gli sono portate le calzature perché non sia a piedi nudi come i servi, viene ucciso il vitello più bello.

Il padre dice: «presto», c’è una conciliazione, l’urgenza della festa, la gioia deve esplodere perché il peccato è cancellato, il padre non lo ricorda più e i servi lo aiutano nella celebrazione. Secondo me i servi che prepa­rano la festa sono la Chiesa, che de­ve preparare la festa tra chi è perdu­to e si è ritrovato. Che compito ha la Chiesa, se non fare in modo che la casa sia il luogo del perdono e della festa?

La parabola sarebbe finita qui se Gesù avesse voluto terminarla come le altre due similitudini, che si chiudono con la festa del pastore e della donna. In­vece si riapre un altro quadro.

Appare il figlio maggiore, colui che e­ra restato sempre a casa, colui che a­veva servito il padre per tanti anni, quel figlio che dei padri ebeti deside­rerebbero avere con loro in famiglia. Questo figlio, di fronte al tornare in vita del fratello, prova una reazione di gelosia, non può tollerare in nome del­la giustizia retributiva che quel suo fratello sia causa di gioia e di festa.

Mentre lui è restato a casa, ha ubbi­dito al padre, ha lavorato, ha tirato avanti con fatica l’azienda, il fratello ha sperperato il denaro vivendo in maniera indegna. Non vuole entrare a far festa.

Il padre interviene ancora, chiede dov’è questo figlio e che gli ubbidi­sca. La parabola dice che il padre u­scì fuori di casa e cominciò ad im­plorarlo insistentemente perché en­trasse. Ma il figlio, restato a casa, co­mincia a recriminare, vanta una fe­deltà, gli rinfaccia senza chiamarlo come padre: «Da tanti anni ti servo», gli mette davanti la sua giustizia: «non ho mai disubbidito a un tuo co­mando». Sceglie le stesse parole che userà in seguito il fariseo, il quale ringrazia Dio per non averlo fatto come gli altri.

Il Vangelo ci testimonia che que­st’uomo era, sì, vissuto a casa, ma semplicemente come un mercenario, la sua ubbidienza era semplicemente schiavitù. Era vissuto nei confronti del padre come un salariato, e finisce di affermare che il padre ha mancato verso di lui: «Non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso».

C’è del risentimento, c’è una prote­sta, un’accusa precisa verso il padre. In quel momento sta ammazzando il padre, come aveva fatto il primo con la sua fuga.

Nel Vangelo di Giovanni (8, 35) si trova il commento adatto: «Lo schia­vo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre». Si può vivere a lungo nella Chiesa, come cristiani, come suore, frati, monaci, preti, ma vivere da schiavi. Giunge prima o poi il giorno in cui uno se ne va.

Chi si sente schiavo, chi non agisce per amore, si sente in prigione; ma­gari esegue tutti gli obblighi puntual­mente, ubbidisce alla legge, ma forse perché ha solo una grande angoscia di essere costretto a farlo. Vedete, questo figlio era rimasto sempre a ca­sa, ma non era mai stato nella casa del padre, nella conoscenza del pa­dre. Non è dunque diverso da chi se ne era andato.

Tutti e due i figli non hanno vissuto la relazione paterna, non hanno co­nosciuto l’amore del padre; allora il padre gli dice: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Si tratta delle stessa preghiera di Gesù nell’ultima cena: «Padre, tutto ciò che è mio è tuo e tutto ciò che è tuo è mio». Se avesse vissuto da figlio, il capret­to se lo sarebbe preso, ma ha vissuto da mercenario, ha visto in lui il pa­dre–padrone, si è costruito questa immagine perversa.

Il padre, anche in questo caso, non lo rimprovera, ma chiede, prega, di accogliere la risurrezione del fratello tornato. Addirittura il figlio gli dice: «Ora che questo tuo figlio»; notate, è il linguaggio usato da noi quando sia­mo in collera e non vogliamo ricono­scere un rapporto che abbiamo con un altro.

Chi non riconosce più suo fratello? Andandosene era l’altro, il minore, che non l’aveva riconosciuto, adesso è lui che non lo riconosce.

 

La parabola si chiude così, noi non sappiamo, pensateci bene, se il figlio è entrato o no a far fe­sta per l’altro ritrovato, non sappia­mo neanche se il padre è entrato a far festa o se continua a star fuori e a chiedere al figlio di rientrare. Co­munque sia, quella festa è ferita, perché la festa è per uno che è ritorna­to, mentre l’altro non si rallegra del ritorno e sta fuori.

È una parabola non conclusa, che troverà termine alla fine dei tempi. Gesù la lascia aperta e ci interpella direttamente: tu cristiano, tu disce­polo, prima di tutto ti riconosci nel figlio perduto che ha bisogno di con­versione?

Questa è la vera domanda che Gesù ci ripete: sei disposto a riconoscere che devi convertirci ancora? Inoltre ci chiede anche – una volta che sei tornato a casa, ti sei convertito e la Chiesa ha fatto la festa – se sei ca­pace ad aspettare gli altri che devo­no ancora tornare? Sei disposto a sperare che tutti gli uomini entrino nel banchetto, o la tua immagine di giustizia retributiva rifiuta la possibi­lità per i peccatori di arrivare nel re­gno?

Gesù ci interpella e domanda che idea abbiamo di Dio quando lo chia­miamo Padre. È il Dio della parabola o è il Dio dei benpensanti, di quelli che si sentono giusti? Che immagine abbiamo di Dio Padre quando dicia­mo il Padre nostro?

Gesù pone il quesito a ciascuno di noi ed a ciascuno di noi spetta la ri­sposta nel suo cuore, lucida, vera, au­tentica, non menzognera. In ogni ca­so, non dev’essere la risposta di quell’uomo religioso che, salito al tempio, pregava tra sé: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, in­giusti, adulteri», ma piuttosto quella del pubblicano che, battendosi il pet­to in fondo al tempio, diceva: «Dio abbi pietà di me peccatore».

Gesù conclude che quest’ultimo «tornò a casa sua giustificato, a differen­za dell’altro» (Lc. 18, 9–14). Ripeto, a ciascuno di noi la domanda, ma o­gnuno deve trovare una risposta non ipocrita nel segreto del suo cuore.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’11.3.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.