Il timore di Dio nella tradizione ebraica

Voglio fare una premessa, parlare di Dio non è tra le cose “political correct” più facili. Un insegnante di una scuola di Milano una volta parlò di timore di Dio in una classe, provocando scandalo perché di Dio non bisogna avere paura e quindi il timore è uno di quei concetti che a volte provocano scandalo. Vogliamo provare a capire esattamente cosa significa timore di Dio nella tradizione ebraica, cosa non semplice, né facile, perché spesso, quando si parla di timore di Dio, in effetti si intendono cose diverse usando la stessa parola. Voglio partire da due citazioni prese da Maimonide. Il capitolo secondo del “Mishnè Torà”, “Regole sui fondamenti della Torah” comincia in questo modo: “è un precetto positivo amare e temere Dio”. Questo enunciato contiene due precetti: amare e temere Dio e lo prova con numerose citazioni bibliche. Questi sono i primi precetti di cui parla Maimonide nel “Mishnè Torah”, la sua opera più importante, in essa li mette sullo stesso piano, dice che l’amore e il timore sono ugualmente fondanti e ce li dà come precetti fondamentali. Maimonide scrive anche un’altra opera, un commento alla Mishnà e nel capitolo del trattato di Sanhedrin egli fa una lunga introduzione sul modo giusto di servire Dio, il modo giusto è quello di Torah, osservanza della Torah, studio della Torah e di Mishnà, osservanza dei precetti, per i precetti stessi, cioè senza secondi fini. Afferma che bisogna osservare la Torah non perché questa osservanza porterà dei vantaggi o perché la non osservanza ci porterà degli svantaggi, ma semplicemente perché Dio ci ha comandato di farlo, punto e basta, per nessun altro motivo. Questo è il modo di osservare la Torah. Bisogna anche studiare Torah non per diventare famosi, ma perché questa è un’altra mitzvà, è un altro precetto ed è fondamentale farlo. Però Maimonide dice che non bisogna studiare Torah od osservare i precetti per timore della punizione. Aggiunge che si può anche insegnare a qualcuno, per esempio ad un ignorante, che egli deve osservare i precetti e studiare Torah, altrimenti verrà punito. Ma questo è un modo di comportarsi verso gli ignoranti, in questo modo essi, piano piano, osserveranno la Torah per timore della punizione e forse un giorno arriveranno ad osservarla per il motivo giusto, insomma può essere un percorso che si inizia in maniera sbagliata per poi arrivare ad osservare la Torah nella maniera giusta.

Queste due citazioni di Maimonide sono fortemente contraddittorie, da una parte il timore di Dio è visto come precetto fondamentale, allo stesso livello dell’amore verso Dio, nella seconda citazione, il timore è una cosa per ignoranti, è una specie di servizio divino di seconda, terza, quarta categoria, per poi arrivare un giorno a compierlo meglio. Allora ci si domanda: il timore è importante o no, è un precetto importante o non lo è, oppure è esattamente il contrario, qualcosa da evitare. In realtà la cosa più probabile è che Maimonide parli di tipi di timori diversi, in un caso parla di una cosa, nell’altro di un’altra. Entrambi sono accomunati dallo stesso termine, ma in realtà lo stesso nome può indicare cose diverse. Tenterò di provare ad individuare i vari tipi di timore e tentare di capire perché sono importanti, ognuno al loro livello.

Ho trovato cinque tipi di timore. Il primo, che può forse corrispondere alla seconda citazione di Maimonide che abbiamo fatto, è quello che si chiama “Irat Haonesh”, “Timore della punizione”. Perché è importante il timore della punizione? Un passo del Pirke Avot, Massime dei Padri, dice: “pregate per il bene del Regno, per il bene dello Stato” tra l’altro questa è una regola applicata nella tradizione ebraica e la troverete nei libri di preghiere dell’Ottocento. Ancora oggi in Inghilterra viene recitata la preghiera per la Regina, e ci tengono molto, così essi non fanno altro che applicare questa norma del Pirke Avot. Perché bisogna pregare per lo Stato?

Lo Stato di cui parla Rabbi Chaninà Segan Cohanim (un importante rabbino che visse più o meno al tempo della distruzione del secondo Santuario) è lo Stato romano, quello che ha distrutto il Santuario, quindi non è molto comprensibile quello che ordina. Però aggiunge che se non fosse per il Regno, per lo Stato, “l’uomo inghiottirebbe il suo amico vivo”. Insomma quello che il Rabbi C. S. Cohanim dice è un’anticipazione di quello che affermerà alcuni secoli dopo Thomas Hobbes: “homo homini lupus“. Gli uomini lasciati a se stessi sono bestie, si sbranano a vicenda. Rabbi C. S. Cohanim lo sottolinea in maniera molto più forte di come lo dice Hobbes, perché quest’ultimo parla degli uomini in generale, mentre qualcuno ha notato che Rabbi C. S. Cohanim parla di una persona che inghiotte vivo il suo amico. Un passo del Talmud dice quale è la differenza di ferocia tra il lupo e il leone: il lupo uccide la preda e poi la mangia, il leone invece mangia la preda quando è ancora viva. L’uomo è feroce non come il lupo, ma come il leone, non è feroce, come una qualsiasi bestia feroce, è feroce come la più feroce delle bestie feroci. Chi conosce anche vagamente la storia di questo secolo non può non essere d’accordo. Per questo il Rabbi dice “pregate per il bene dello Stato, pregate affinché in uno Stato ci sia la polizia, ci sia una legge da rispettare, pregate perché anche il peggiore Stato e la peggiore legge da rispettare sono meglio di niente, sono comunque un freno alla ferocia dell’uomo. Questo è il “Timore della punizione”. Rabbi C.S. Cohanim dice che esso è una buona cosa perché comunque blocca la ferocia dell’uomo.

Questa è una visione molto pessimistica, non è un concetto di cui possiamo essere contenti e felici. In realtà è meno pessimistica di quanto sembri. Un principio fondamentale della tradizione ebraica dice che nell’uomo esistono due tendenze fondamentali: una tendenza al bene ed una tendenza al male. Il passo del Pirke Avot precedente starebbe a dire che esiste solo la tendenza al male e dà per scontato che l’uomo possa diventare una belva feroce, negando così la speranza che l’uomo, lasciato a se stesso, possa anche essere buono e possa fare del bene. In realtà la visione non è così pessimistica come può sembrare. Secondo i maestri del Talmud la tendenza al bene e la tendenza al male non sono pari, nell’uomo sono presenti tutti e due, ma non sono allo stesso livello, non perché una sia più forte dell’altra, ma perché una è più naturale e più immediata dell’altra. Uno dei grandi maestri dell’Ottocento Rabbi Haim di Volodzin, commentando un altro passo del trattato di Pirke Avot, ci raccomanda di inseguire le mitzvot, i precetti, chiamiamole buone azioni e di scappare, di rifuggire dal peccato. In realtà il peccato ci insegue, mentre le buone azioni non ci inseguono affatto e quindi dobbiamo impegnarci per raggiungerle. Nell’uomo esiste una tendenza al bene ed una tendenza al male. La tendenza al male è molto più naturale ed immediata, è qualcosa che ci viene facile seguire, la tendenza al bene deve essere coltivata, deve essere inseguita, bisogna rincorrerla. Una volta che sono riuscito in qualche modo a bloccare la mia tendenza al male posso liberare la mia tendenza al bene. Se riesco a porre un limite alla mia tendenza al male, a quel punto trovo il campo libero per trarre fuori da me stesso, non da altri, la mia tendenza la bene. Debbo bloccare la mia tendenza al male, per poi poter fare emergere quello che c’è di meglio in me. In effetti Rabbi C. S. Cohanim non vuole dire che l’uomo, lasciato a se stesso, sia soltanto una bestia feroce, l’uomo può essere una bestia feroce, ma anche una buonissima persona, però la cosa più probabile è che diventi una bestia feroce perché questo gli viene più naturale. Pensiamo a quello che succede durante una guerra, in un conflitto succedono cose pazzesche, succede che persone normali diventino bestie perché improvvisamente vengono lasciate a se stesse e così tirano fuori quanto hanno di peggio. Rabbi C. S. Cohanim suggerisce di bloccare quello che c’è di peggio nell’uomo, così egli potrà dare quello che ha di meglio. Il timore della punizione è uno strumento per bloccare la ferocia dell’uomo che così può fare emergere da sé quello che ha di buono. Il timore della punizione diventa pericoloso quando si fissa o si blocca in se stesso e diventa solo timore della punizione, a quel punto è soltanto un blocco della ferocia, che durerà finché permane il timore della punizione, quando cesserà o non ci sarà più lo Stato, o quando verranno a mancare i paletti sociali, nulla impedirà all’uomo di fare cose malvagie o di continuare a farle. Quindi il timore della punizione ha un senso a patto che ci sia un primo passo per arrivare a portare fuori quanto c’è di positivo dentro l’uomo. Se il timore della punizione è limitato a se stesso, quando questo venisse meno, diventerebbe pericolosissimo perché può diventare il primo passo per fare di peggio.

Questo timore può avere un difetto (nulla è mai assoluto) che è quello di passare la vita a pensare quanto sia importante la Torah e non ad occuparsi mai per applicarla. C’è un midrash che dà metaforicamente l’idea del rapporto fra la Torah e il timore. Il midrash dice che la Torah è come il raccolto del grano, il timore è la costruzione del granaio, se prima non costruisco il granaio, il grano che avrò raccolto andrà a male, questo è il timore che fa sì che il grano non vada a male, attenzione però a non passare la vita a costruire il granaio, per poi lasciarlo vuoto. Il midrash ci dà anche i numeri, ci suggerisce di dedicare 10 minuti al giorno al timore e poi ricominciare a studiare.

Il secondo tipo di timore è quello che nella tradizione ebraica si chiama “Irat Haromeut” “Timore dell’altezza”.

Un versetto dei proverbi dice che l’inizio della “sapienza” è il “timore di Dio”. Un passo del Pirke Avot dice che in qualunque persona nella quale il timore del peccato preceda la sapienza, la sapienza si mantiene per lui. Perché il timore e la sapienza sono messi insieme? Per timore intendiamo la paura di fare qualcosa di male, il timore di peccare, di fare cose negative. Questo timore viene collegato alla sapienza e allo studio. Per capirlo riflettiamo sull’episodio raccontato nella Torah nel capitolo della promulgazione dei dieci comandamenti. Dio dà le istruzioni al popolo ebraico su come deve prepararsi al dono della Torah. Una delle cose che Dio raccomanda loro è di tenersi distanti dal Monte Sinai. Uno dei grandi commentatori dell’ottocento Shem Mishmuel si interroga su quanto è raccontato nella Torah, quando racconta che dopo che gli ebrei udirono la voce di Dio, si tirarono indietro (secondo il midrash si ritirarono di alcune miglia) per timore della voce di Dio. Che bisogno c’era di ordinare allora di tenersi lontani dal Monte quando comunque si erano allontanati dal Monte, che bisogno c’era di ripetere una cosa che comunque facevano ugualmente? La risposta è che ciò viene detto a loro, ma vale per tutti, quello che ci viene suggerito non è ciò che gli ebrei dovranno fare in quel momento, ma ciò che dobbiamo fare sempre tutti noi davanti alla Torah, cioè tenerci a distanza. Che senso ha tenerci a distanza? Questo concetto è in netta contraddizione con altre idee fondamentali della Torah. Il popolo ebraico dovrebbe avere un rapporto strettissimo con la Torah, il rapporto con Dio deve essere strettissimo, deve essere un rapporto intimo, molto coinvolgente, tutt’altro che distante. C’è un famoso passo della Torah che riguarda la costruzione del Tabernacolo nel deserto che dice: “fatemi un Santuario ed Io vi risiederò”, ma intende “mi sederò dentro ognuno di loro”. Questa è l’idea di Shekinà (Presenza Divina) quindi essa è dentro ognuno di noi. Se dunque la Shekinà è dentro ognuno di noi, che senso ha parlare di distanza, cosa vuol dire distanza? Secondo i maestri vuol dire acquistare il senso della distanza. Ma cosa vuol dire di tenermi a distanza di qualcuno? Un significato è che non voglio avere a che fare con lui, questa è una distanza ed è anche un tipo di timore, mi tengo a distanza di chi mi può fare del male, perché non voglio che mi faccia del male. Ci può essere una distanza diversa: mi tengo a distanza da un personaggio famoso per rispetto, perché non oso avvicinarmi più di tanto, aspetto che egli mi dia il permesso di avvicinarmi. La mia distanza è allora un segno di rispetto verso questa persona. Lo stesso atteggiamento dobbiamo averlo verso la Torah, che per la tradizione ebraica, ma non solo, è parola di Dio. Noi abbiamo l’obbligo di studiare la Torah giorno e notte, dobbiamo avere un rapporto di grande confidenza con la Torah. Però questo rapporto di confidenza può essere pericoloso, può farmi perdere la sensibilità verso l’importanza di ciò che sto leggendo. Devo rendermi conto che mi trovo di davanti a qualcosa di grande, di importante, per questo motivo devo imparare a mantenere la distanza. Devo da una parte avvicinarmi, avere un rapporto molto intimo e allo stesso tempo riuscire a mantenere il senso dell’importanza di ciò che ho davanti. Questo è fondamentale sempre, non solo nei rapporti con la Torah. C’è un grande filosofo contemporaneo, Emanuele Levinas, il quale dice che ogni intellettuale sa che ogni giudizio è un pregiudizio. Ciò è provocatorio, però se ci pensate bene, è vero entro certi limiti. Pensate ad esempio all’atteggiamento che avete verso un libro, nella maggior parte dei casi decidete in anticipo se quel libro è importante o meno, prima di averlo letto, perché qualcuno lo ha letto, perché qualcuno lo ritiene importante, perché l’autore è importante. Il giudizio diventa un pregiudizio in quanto decidete prima ciò che è importante e poi incominciate a leggerlo. Molto difficilmente succederà che un libro che voi ritenete importante alla fine non vi dica niente e difficilmente un libro che ritenete poco importante, vi dirà qualcosa. La stessa cosa può succedere con una conferenza, con una lezione, in effetti è molto importante l’atteggiamento e l’aspettativa che noi abbiamo nei confronti di ciò che affrontiamo. Un giornalista italiano, Beniamino Placido, notava come, sia in ebraico che in italiano, ci siano due verbi con la stessa radice: raccontare e contare. Diceva che per raccontare bisogna anche contare, bisogna essere uno che conta, altrimenti il racconto non viene ascoltato. Questo è avere un pregiudizio positivo: se mi rendo conto di avere di fronte qualcosa di grande, mi terrò a distanza per capire meglio ciò che ho davanti. Senza questo rispetto non c’è rapporto con la Torah. Se per me la Torah è un libro qualsiasi sarà un libro qualsiasi. Ad un rabbino livornese Ben Hamozeg un giorno si presentò un ebreo che gli domandò come mai nella santa Torah ci fossero tante stupidaggini. Il rabbino rispose che nella Torah ci sono tante cose: gli scienziati ci trovano la scienza, gli storici ci trovano la storia, i filosofi ci trovano la filosofia, lui ci ha trovato le stupidaggini. In effetti ognuno trova quello che cerca. Ogni giudizio è un pregiudizio, perciò devo avere un atteggiamento iniziale, non posso pensare che non ci siano atteggiamenti. L’atteggiamento iniziale che devo avere di fronte alla Torah è quello di trovarmi davanti alla parola di Dio, davanti a qualcosa di grande, di importante, non sono davanti a un libro qualsiasi, ma davanti alla Torah: questo è il timore dell’altezza. L’inizio della sapienza è il timore di Dio, senza timore di Dio non c’è sapienza. Questo timore è ben diverso dal primo timore, questo non è un timore per ignoranti, ma per le persone colte, un timore fondamentale, assolutamente essenziale e questo è il modo di affrontare la Torah, non solo la Torah ma tutto ciò che è importante, ecco il senso dell’importanza.

Il timore di Dio ha anche un altro aspetto, il timore di Dio si trova anche nella trasmissione dei valori. All’inizio dell’Esodo è raccontato un episodio tremendo e bello allo stesso tempo, l’ordine del faraone dato alle levatrici di uccidere i bambini ebrei al momento della nascita, anticipazione di molte e varie persecuzioni. Questo progetto però fallisce per l’eroismo di due donne sconosciute, forse ebree, forse egiziane: esse hanno salvato il popolo ebraico con il loro coraggio. La Torah ci spiega perché lo hanno fatto: le levatrici ebbero “Timore di Dio” e ci viene anche detto il premio che Dio ha concesso a queste donne, Dio ha costruito per loro delle case e non si capisce il significato di questo favore. Un commentatore contemporaneo, Shlomo Volve, così commenta: non esistono i premi e le punizioni, il premio non è altro che la conseguenza delle azioni che faccio. Che senso ha il premio di costruire delle case? Il rabbino Volve dice che il timore è la forza che struttura una persona, le case rappresentano la costruzione, questo è il premio. Cosa vuol dire che il timore è la forza di costruire? Posso insegnare molte cose alle persone, una cosa è però insegnare e una cosa è inserire nel cuore e nella mente delle persone che questo valore è fondamentale. Posso imparare valori e molte altre belle cose, il problema sarà che cosa succederà quando sarò posto davanti alla situazione in cui la scelta mi costa. Finché non trovo difficoltà, sarò una persona eticamente a posto, la maggior parte delle persone quindi non ha dei problemi, riesce ad essere eticamente a posto. Il problema sorge quando i valori che mi sono stati insegnati si scontrano con le mie convenienze personali. Le levatrici che hanno salvato i bambini hanno rischiato la vita. Il problema si pone nell’applicazione di un principio, sui principi generali siamo tutti d’accordo, però, se per applicare un principio dovessi rischiare la vita, cosa farei? Accetterò di applicare quel principio anche a rischio della vita quando quel principio per me è veramente fondamentale e so che se non lo mettessi in pratica mi sentirei una persona indegna di vivere. Allora attesterò che credo veramente in un principio davanti al quale preferisco “morire piuttosto che trasgredire”. Questo lo posso fare quando ho veramente costruito intorno a questo principio il “Timore della Grandezza” e il “Timore dell’altezza”, allora esso per me diventa fondamentale e indistruttibile. I valori assoluti posso trasmetterli solo attraverso un timore di questo tipo, quando comunico un’idea dell’importanza, del valore e dell’assolutezza di questo valore. Quando costruisco una persona in questo modo, allora essa riuscirà a superare la prova di tenere fede al principio anche quando non gli conviene applicarlo, quando applicarlo significa mettere in discussione la sua vita, quella della sua famiglia e di chi gli sta intorno. Questo altro tipo di timore è la forza che costruisce e struttura una persona, quindi ci sono le case che vengono costruite e il premio diventa una costruzione.

Il quarto tipo di timore viene chiamato “Irat Haavà” “Timore d’amore”. Per capire cosa significhi faccio riferimento ad un altro episodio legato al dono dei dieci comandamenti. Quando essi vengono promulgati, si racconta che gli ebrei sentono i primi comandamenti direttamente dalla voce di Dio. Ad un certo punto però si rivolgono a Mosè e gli dicono che non ce la fanno più ad ascoltare, che lui dovrà sentire i comandamenti anche per loro, dovrà ascoltare quanto Dio ha da dire loro e poi lo potrà riferire, ma non vogliono andare oltre nell’ascolto. Mosè si arrabbia, li rimprovera, dicendo che hanno perso un’occasione irripetibile, in quanto potevano ascoltare direttamente da Dio i comandamenti, invece di sentirli da lui. Ma Dio si rivolge a Mosè e gli dice che ha sbagliato, anzi dice che magari il loro timore si conservasse per tutta la vita come è stato sentito oggi. Dio non è d’accordo con Mosè e apprezza l’atteggiamento del popolo ebraico. L’atteggiamento è quello di una persona, in questo caso di un popolo, che sa di aver ottenuto un certo livello ma, dopo averlo raggiunto, si pone il problema di poter tornare indietro, di poter cadere. Altro esempio di rapporto, più facile da capire, è quello fra le persone, un rapporto d’amore, di matrimonio, di amicizia. In ciascuno di essi ci sono varie fasi, in ognuno si può raggiungere un livello molto alto di legame. Però tutti sappiamo che in genere un rapporto così elevato non sempre dura. Una persona responsabile si pone il problema non solo di migliorare il rapporto, ma anche della eventuale perdita o della diminuzione del livello raggiunto. Non c’è solo il problema di migliorare, ma anche quello di fronteggiare il peggiorare di un rapporto e quando si pone questo problema si devono prendere delle precauzioni, in modo da mantenere quello che si è riusciti a raggiungere.

Voglio fare un esempio diverso: se nel costruire un palazzo sono riuscito a fare qualcosa di grande, e questo per mantenersi ha bisogno di manutenzione, se non avrò cura di farla, il palazzo, per quanto bello, si deteriorerà. Questo è il timore che deriva dall’amore: ho costruito con amore qualcosa di bello, devo mantenerlo, devo conservare quanto sono riuscito a costruire. L’atteggiamento di non timore in questo caso è il credere che si possa sempre andare avanti, senza fermarsi. Questa è un’ottima illusione romantica, ma non è la verità, non è umano. L’uomo ha salite e discese. Uno dei grandi commentatori medievali Rabbenu Tam, nipote del grande Rashi, ci dice una cosa bellissima ma tremenda “anche nei rapporti con la Torah ci sono momenti di amore e momenti di odio”, edulcorandolo un po’ diremo che ci sono momenti di entusiasmo e momenti in cui non si ha voglia di fare nulla. Una persona responsabile tenta di conservare i momenti di entusiasmo. Il timore dell’amore era il timore del popolo ebraico in quel momento, essi erano riusciti a raggiungere un certo livello, attenzione pensavano a non crollare, a non perdere tutto, se si crolla, si crolla vertiginosamente. Ora il rischio del crollo, dal grande amore raggiunto alla fase successiva, non è solo quello di fare un passo indietro, ma il rischio è di cadere da una montagna. Il popolo ebraico in quel momento si poneva il problema “siamo arrivati a qualche cosa di eccezionale, attenzione nel tornare indietro a non fare un tonfo, cerchiamo di conservare quello che siamo riusciti a raggiungere”. Il timore d’amore è fondamentale, è l’atteggiamento del popolo ebraico, ma è l’atteggiamento generale, un atteggiamento umano e fondamentale. Non è un atteggiamento entusiasmante, tutto quello che riguarda il timore non è entusiasmante, però è importantissimo, è fondamentale, è così che si costruisce un uomo. Pensare di costruire un uomo senza porsi nessun problema è il modo migliore per fallire.

Concludo con l’ultimo tipo di timore. La parola Irat, timore, è l’anagramma della parola Reaià che vuol dire visione, vedere. In ebraico le radici di temere e vedere sono molto simili. In ambiente chassidico si dice che temere e vedere sono la stessa cosa. Ciò può voler dire molte cose: la prima, è molto semplice se ricordiamo il timore nel senso di distanza che sottolinea l’importanza della distanza, che è anche un modo di vedere. Per riuscire a vedere, per ammirare un quadro, non posso stargli troppo vicino, devo assumere una certa distanza da esso per averne una corretta visione. L’Irat è il senso della distanza che permette anche di vedere meglio. L’assumere distanza da qualche cosa, perfino dalla Torah, mi permette di vederla meglio. Questa idea è importante: quando si parla di Irat non si parla soltanto di rapporto con Dio, del timore di Dio, si parla anche di rapporti umani. Qual è il rapporto richiesto ad esempio dall’amicizia perché essa si possa sviluppare? Secondo i maestri di un movimento del secolo XVIII, Tenuat Hamusar, il rapporto fondamentale fra uomini è un rapporto di amore e di timore. Il rapporto con un amico dev’essere un rapporto di amore, di coinvolgimento, per potermi considerare amico di una persona devo entrare nei suoi problemi, avvicinarmi a lui, entrare nella sua vita. Se voglio, però, essere di aiuto ad una persona devo anche assumere una certa distanza, altrimenti se sono completamente dentro di lui non gli sarò più di aiuto, in quanto divento una copia della persona stessa, non potrò essere l’amico che dirà anche cose antipatiche. Il rapporto di Irat e di Reaià è fondamentale in quanto il rapporto di Irat permette la Reaià cioè permette di assumere una visione dall’esterno, di capire quello che sta succedendo alla persona. Se non ho il rapporto di Irat, ma solo quello di Reaià, non vedo più niente, sono completamente coinvolto. Questo si prova nei rapporti umani, nei rapporti tra gruppi di persone, nei rapporti fra stati, in tutti i tipi di rapporti. Una conseguenza di tutto ciò è che questa stessa idea è valida nei rapporti con Dio. Una delle prime volte che nella Torah compare il timore di Dio è quando ad Abramo viene ordinato di sacrificare suo figlio. Dopo questa vicenda Dio gli dice “adesso io so che tu temi Dio”. Domanda “fino ad adesso non lo sapeva?”. Abramo ha passato una vita a temere Dio, ad avvicinarsi a Dio, è colui che è arrivato al monoteismo per conto proprio, è possibile che solo adesso tema Dio? In realtà Abramo dimostra una grande cosa, egli costruisce tutto il suo incontro con Dio e con gli uomini sul rapporto di amore, di benevolenza, di pietà. Questo è il suo rapporto con Dio e con gli uomini, questa è tutta la sua vita, in questo modo ha ordinato tutta la sua esistenza in un rapporto fondamentale: “il Timore di Dio”. Con il mancato sacrificio di Isacco, Abramo dimostra di riuscire a uscire fuori da quello che è stata tutta la sua vita. Abramo improvvisamente trova Dio che gli ordina di sacrificare suo figlio. Si tratta di una cosa tremenda, atroce, cosa poteva fare Abramo? Poteva dire che non era possibile che Dio gli ordinasse una cosa simile, che era assurdo ed aveva tutti i motivi per ritenerlo. Nei commenti rabbinici ci sono tutte le risposte che Abramo avrebbe potuto dare a Dio. Abramo è uno che le risposte le dà, non è uno che accetta le cose senza discuterle, però questa volta non discute, perché lo riguarda personalmente. Egli dimostra una cosa importante: nonostante abbia costruito la sua vita su un tipo di rapporto con Dio, egli riesce a staccarsi da questo rapporto. Egli poteva dire che non è possibile che questa cosa possa essere ordinata, o poteva dire che tutto è possibile ma non sa cosa sia impossibile, oppure non capiva, ma tutto è possibile. Il primo atteggiamento è quello di una persona che si rifiuta di vedere e dice che è così, che questo è il rapporto con Dio, questa è la Torah. La Torah dice che questo non può dire qualcosa d’altro, che deve dire questo e che se dice altro è sbagliato. Il secondo atteggiamento è di chi asserisce che questo è quello che penso io, può darsi che Dio mi dica qualcosa d’altro. Questo è l’atteggiamento di Irat, il timore in questo senso, mi suggerisce che quello che ho costruito non sia l’unico modo di avere un rapporto con Dio, può darsi che ce ne sia un altro, anche se non so quale sia quell’altro. L’atteggiamento di Abramo è di chi dice o.k., vediamo che cos’è, vediamo di capire, tento di vedere Reaià, cos’è? Per questo Abramo, solo dopo il mancato sacrificio di Isacco, è “temente di Dio”, perché esce da tutto quello che aveva costruito fino a quel momento, per vedere un altro aspetto della divinità. Abramo dimostra di essere capace di vedere, di andare oltre tutto quello che ha costruito in positivo. Questo è l’atteggiamento di timore e di visione, di Irat e Reaià.

Concludo per dire che questo tipo di atteggiamento è fondamentale. Noi in molti casi ci facciamo delle bellissime costruzioni nel nostro rapporto con la Torah, con Dio, con quello che ci pare e non siamo capaci di vedere nient’altro. Quella costruzione è tutto e tutto deve rientrare in questo schema, se qualcuno ci fa uscire da esso, rifiutiamo l’uscita dallo schema. L’atteggiamento di Irat è vedere anche l’uscita dallo schema, vedere anche un’altra possibilità di rapporto con Dio, di vedere che ci possa essere anche qualche cosa d’altro.

Questo è l’atteggiamento di Irat e di Reaià, non innamorarsi di se stessi, di ciò che si è costruito, essere capaci di vedere anche qualcosa d’altro e di oltre. Paradossalmente Irat significa essere capaci di vedere al di fuori di se stessi, in questo senso è distanza, è riuscire a raggiungere una distanza da se stessi, è riuscire a vedere al di là di se stessi, cosa difficilissima ma fondamentale.

NOTA: testo,  rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.1.2001 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.