Immanuel Kant

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (I. Kant)

ASPETTI DELLA PERSONALITÁ

Kant nacque il 22 aprile 1724 a Könisberg nella Prussia orientale e morì nella stessa città il 12 febbraio 1804. Da Könisberg, centro universitario e porto commerciale, Kant non fece mai lunghi viaggi, sebbene fosse lettore appassionato di libri di viaggi.

I suoi genitori erano di modesta condizione. Il padre, sellaio, era figlio di oriundi scozzesi; la madre, Anna Regina Reuter, era profondamente religiosa e frequentava i collegia pietatis promossi dal pastore Franz Schultz, che era anche rettore del ginnasio Fridericianum e professore di teologia all’università. Kant ebbe a scrivere di loro: «I miei genitori sono stati per me un modello di probità, di onestà, di ordine; senza lasciare un patrimonio (ma nemmeno debiti tuttavia), mi hanno dato una educazione che, dal punto di vista morale, non avrebbe potuto essere migliore, e per la quale ogni volta che penso a loro, mi sento preso dai sentimenti della più viva gratitudine». La biografia scritta da uno dei primi studenti di Kant, Ludwig Ernst Borowski reca il seguente giudizio: «Il padre desiderava un figlio laborioso e pienamente leale, la madre voleva anche un figlio pio. Il padre esigeva laboriosità e onestà, e aveva soprattutto orrore della menzogna, la madre santità». La madre seppe ispirargli la devozione al dovere, la schietta fede morale, il saldo convincimento della sovranità del bene. (Borowski fu invitato a tracciare nel 1792 uno Schizzo per una futura biografia di Kant. Kant corresse il manoscritto, ma pregò l’autore di non pubblicarlo. Allo testo iniziale Borowski aggiunse altre notizie, dopo la morte del maestro, e la pubblicò nel 1804.)

Dagli otto ai sedici anni Kant frequentò il Fridericianum, il collegio pietista diretto da Schultz, caratterizzato da una disciplina severa e da un pesante programma di studi, anche se carente da un punto di vista estetico e storico (non erano studiati Omero, Platone, i lirici, i tragici e gli storici). La pratica di pesanti esercizi di pietà probabilmente contribuì ad allontanare Kant dalla religione positiva.

Iscrittosi alla modesta Università di Könisberg, Kant venne a contatto con il pensiero illuministico, con la filosofia naturale di Newton e con il razionalismo leibniziano nella versione wolfiana. Kant si fece da sé un piano di studi e volle conoscere quante più scienze poté: «Io sono per natura un ricercatore – sono sue parole – un esploratore. Ho sete di sapere e provo l’avida irrequietezza di spingermi sempre più oltre».

Dal 1747 al 1754 Kant fece il precettore in casa di famiglie nobili della Prussia orientale. Come per Vico, gli anni di precettorato furono anni di intenso raccoglimento e di seri studi delle teorie scientifiche e delle correnti filosofiche presenti nella cultura del tempo.

Tornato a Könisberg, Kant iniziò la carriera accademica nel 1755, ottenendo la libera docenza con lo scritto Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio. La posizione economica del magister era precaria: non aveva stipendio fisso, ma solo le quote di iscrizione dei suoi uditori e si sa che, quando gli capitava un giovane capace ma povero, Kant rinunciava al suo onorario. Egli dovette tenere molte ore di lezione e non solo di logica e metafisica, ma anche di meccanica, aritmetica, geometria, trigonometria, geografia, fino a 26 ore la settimana. Dal primo novembre 1755 al 18 febbraio 1756, in una serie concatenata di scosse, il terremoto distrusse Lisbona, creando grande impressione nelle menti più pensose dell’illuminismo. L’enorme tragedia ispirò la penna di Voltaire, Buffon, Cesare Beccaria. Kant vi dedicò tre scritti sulle Cause dei terremoti. Come professore di geografia, Kant scrisse nel 1756 e nel 1757 due saggi di meteorologia dei venti.

Nel 1758, malgrado l’appoggio non richiesto ma convinto del suo maestro e precettore, a Kant non fu assegnata la cattedra vacante di logica e metafisica: un episodio questo che ricorda quello di cui fu vittima il Vico quando tentò di salire sulla cattedra di filosofia del diritto. Il commento di Borowski: «Kant lasciava andare le cose per la loro strada, non dedicava i suoi scritti ad eventuali protettori, giudicava indegna ogni via obliqua». Nel 1766 accettò, probabilmente per necessità economiche, il posto di vice bibliotecario nella Schloss Bibliothek di Könisberg. La biblioteca non era riscaldata, il pavimento era di pietra e d’inverno il freddo era tale da far gelare l’inchiostro. Kant fu lì, a disposizione degli studiosi, due pomeriggi la settimana per parecchi anni.

Nel periodo che va dal 1755 al 1770 (periodo pre-critico) Kant scrive presente? numerose opere che non ha mai rinnegato negli anni successivi, le quali sono dominate dal problema centrale della Critica della Ragion pura: che valore ha la metafisica? È una scienza come la matematica e come la fisica?

Nel 1770 fu di nuovo vacante la cattedra di logica e metafisica all’università, e Kant poté finalmente diventare ordinario con la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, che segnò l’orientamento ormai chiaramente critico del suo pensiero. Infatti proprio in quell’anno Kant scriveva all’amico Lambert: «Mi lusingo di esser giunto ad una concezione che credo non dovrò cambiare mai e che permetterà di esaminare tutte le questioni metafisiche con criterio facile e sicuro».

Con raro esempio di probità scientifica, Kant attese per oltre un decennio alla elaborazione del suo pensiero prima di pubblicare la Critica della Ragion pura. Tra il 1781 e il 1793 Kant pubblicò le grandi opere del periodo critico, mentre cresceva sempre più l’interesse suscitato dai problemi da lui trattati.

La religione nei limiti della pura ragione, pubblicata nel 1793 con l’approvazione della facoltà filosofica di Jena, procurò al suo ormai celebre autore l’unico incidente che abbia turbato la sua carriera. Il 2 ottobre 1794 un ordine del re Federico Guglielmo II, antilluminista e conservatore, redatta dal ministro Wollner, disapprovava il libro e vietava a Kant d’insegnare le tesi esposte in esso. Tra i manoscritti di Kant si trova un appunto scritto in questo periodo che dice: «Rinnegare le proprie convinzioni è cosa spregevole, ma tacere, in un caso come il presente, è dovere di suddito; se tutto ciò che si dice deve essere vero, non è però un dovere dire sempre pubblicamente tutto ciò che è vero». Nel 1797 muore il re e Kant racconta l’incidente nella prefazione a La lotta delle facoltà. Un altro elemento perturbatore fu la tendenza di Fichte, che Kant aveva molto aiutato agli inizi della carriera, a interpretare e sviluppare il criticismo trascendentale nel senso di un idealismo spiritualistico. Nel 1796 Kant si ritirò dall’insegnamento e, fino alla sua morte nel 1804, trascorre anni penosi: divenne quasi cieco, perse la memoria e la lucidità intellettuale.

Kant era un lavoratore instancabile, interiormente libero, mosso non dall’ambizione o dalla ricchezza, ma dalla passione della verità. Dava largamente ai poveri ed ebbe un vivo senso della bellezza della natura. Stava volentieri in compagnia di amici, preferibilmente non appartenenti al mondo accademico (Giacomo Leopardi diceva: «Nessun più sicuro segno di cattiva filosofia che voler filosoficare tutta la vita»). Non era preoccupato di costruire un sistema, ma di cercare la verità. Kant diceva spesso di non voler insegnare la filosofia, ma a filosofare. «Pensare da sé, cercare da sé, stare in piedi sulle proprie gambe», erano espressioni che ricorrevano di continuo sulla sua bocca. Non si può lasciare ad altri il compito di esaminare, cioè criticare nel vero senso, i fondamenti di una dottrina e la verità a cui essa dà voce.

Diverse correnti di pensiero influenzarono la formazione intellettuale di Kant. Innanzitutto vi fu il pietismo, corrente religiosa sviluppatasi in seno al protestantesimo, che pone fra parentesi le questioni dogmatiche per dare maggior rilievo all’intimità religiosa (pietas), la quale si traduce in fede moralmente operosa, in vigile austerità. Il razionalismo leibniziano giunse a Kant soprattutto attraverso la rielaborazione di Wolff, che aveva avuto una larga diffusione nella cultura ufficiale del tempo. In particolare fu una grande fonte di ispirazione per Kant la critica di Leibniz al meccanicismo radicale di Cartesio e la duplice assunzione congiunta della finalità e del meccanicismo. Lo scetticismo humiano scuoterà in seguito la fiducia di Kant in alcune posizioni del razionalismo, e contribuirà pertanto al cosiddetto «risveglio dal sonno dogmatico».

Negli studi universitari Kant viene a contatto con l’illuminismo e di esso accolse lo spirito di ricerca, la critica del costume politico e sociale, la revisione delle strutture anche intellettuali su cui si fondava l’ancièn régime. L’illuminismo apparve a Kant un impetuoso appello ad uscire da uno stato di minorità (sapere aude!); ma dell’illuminismo egli rifiuterà energicamente il mito scientista, la dottrina del progresso in linea retta, l’edonismo e l’utilitarismo.

Kant si entusiasmerà per l’Emilio di Rousseau. Del ginevrino, da cui pure era tanto dissimile, egli condivise: a) la critica dello scientismo e la critica dell’intellettualismo illuministico, che attribuiva alla diffusione della conoscenza un accrescimento corrispondente di virtù e felicità: «ci fu un tempo in cui credevo che la cultura costituisse l’onore dell’umanità e disprezzavo il popolo che ignora tante cose. È stato Rousseau ad aprirmi gli occhi. È sparita l’illusoria superiorità ed ho imparato ad onorare gli uomini»; b) lo sganciamento dell’etica dalla metafisica e la celebrazione dell’interiorità, dell’universalità della legge morale.

Il pensiero kantiano esercitò nel posteriore sviluppo storico della filosofia un’influenza pari a quella dei grandi maestri del passato. Già in vita e più ancora dopo la morte, egli era considerato in Germania il più grande filosofo contemporaneo, mentre fervevano le polemiche e le discussioni suscitate dal suo pensiero. Crebbe ben presto una folta schiera di seguaci, d’interpreti, di critici, che suggerì a Friedrich Schiller lo sferzante epigramma: «Quanti poveri un sol ricco nutrisce: quando il re costruisce, i carrettieri hanno da fare». Si può ripetere di Kant ciò che fu detto di Socrate: alii aliud sumpserunt. Il pensiero di Kant si disperse lungo rivoli diversi e talora contrastanti.

«Il proposito di Kant, di voler insegnare non la filosofia ma il filosofare, si attuò forse oltre i suoi desideri; in questo senso se grandissimo fu l’influsso da lui esercitato nella storia del pensiero, non ci fu però una scuola kantiana […] e anche coloro che si proposero di rimanere sulla strada battuta da Kant non possono dirsi precisamente kantiani» (Sofia Vanni Rovighi, Gnoseologia, ed. cit., p. 206).

LA CRITICA DELLA RAGION PURA

Che cos’è il criticismo

Criticismo vuol dire metodo di costruzione di una filosofia essenzialmente critica, ricognizione dei limiti della ragione e verifica dei suoi poteri. Nel criticismo la ragione è portata davanti al tribunale di se stessa per delimitarne in modo autonomo i confini, le sue possibilità effettive, i poteri conoscitivi di cui dispone.

Il criticismo continua la questione del metodo con cui si apre la filosofia moderna e vuol piegare all’epilogo il secolare dibattito tra empirismo e razionalismo. È un metodo, un trattato sul metodo; ma il modo con cui Kant ha delimitato i poteri della ragione costituisce la filosofia kantiana e in tal senso il criticismo è il sistema filosofico kantiano o idealismo trascendentale.

Il metodo critico vuole andare oltre il dommatismo e lo scetticismo. Il primo passo della ragione, che rappresenta come la fanciullezza di questa, è dogmatico. «Il dommatismo della metafisica (razionalistica) consiste nel fidarsi universalmente dei suoi principi senza far precedere una critica delle facoltà razionali». Il secondo passo è scettico, e attesta la prudenza del giudizio scaltrito dall’esperienza. Ma è ancora necessario un terzo passo, quello critico, possibile solo a un giudizio maturo e virile, che abbia a fondamento massime salde, di provata universalità, e che sottoponga ad esame la ragione in tutta la sua potenza e capacità.

Dobbiamo conquistare questo punto di vista e così superare «il dommatismo che non c’insegna nulla e lo scetticismo che non ci promette nulla, nemmeno la pace d’una legittima ignoranza» (Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza, par. 4). «Occorrerà grande fermezza per non lasciarsi distrarre, né per difficoltà intrinseche né per ostacoli esteriori, da un’opera che si propone […] di dare finalmente un giorno sviluppo rigoglioso e fecondo a una scienza che è indispensabile all’umana ragione; e della quale si possono certo tagliare i rami, cresciuti finora, ma non mai svellere le radici» (Critica della Ragion pura). «È vano voler ostentare indifferenza per ricerche, il cui oggetto non può mai essere indifferente per la natura umana» (ibidem). «Che lo spirito umano – incalza Kant nella conclusione dei Prolegomeni – rinunci un giorno del tutto alla ricerca metafisica è così poco da attendersi come se, per non respirare aria impura, noi preferissimo un giorno non respirare affatto. La metafisica vivrà quindi sempre nel mondo, anzi ciò che è più, vivrà sempre in ogni uomo capace di riflessione».

Kant aveva anticipato in campo pedagogico il nucleo germinale del criticismo nella Notizia sull’indirizzo delle lezioni per il semestre invernale 1765-1766, affermando che si deve insegnare non la filosofia, ma a filosofare; si deve essere preoccupati di cercare la verità, non di costruire un sistema; l’insegnamento non può consistere nell’insegnare una filosofia, ma nel suggerire i modi della ricerca.

«Secondo un’opinione che ha anche illustri sostenitori, come Hegel, Kant si sarebbe posto il problema se la ragione umana abbia valore, e si sarebbe messo a studiare la ragione, come facoltà conoscitiva, per vedere se essa possa conoscere la verità. Coloro che danno una tale interpretazione del problema kantiano, hanno poi buon gioco nel mostrare l’assurdità di una tale ricerca. Con che cosa, infatti, si può fare una ricerca se non con la ragione? E può mai in un processo essere l’imputato quello che giudica? Se mi fido della ragione giudicante, perché non dovrei fidarmi della ragione giudicata? Se adopero la ragione per fare la critica, perché non dovrei adoperarla in altre conoscenze? Ma Kant non si è mai posto un tale pseudo-problema. Non si è mai domandato se la ragione abbia valore, ma si è domandato se certe conoscenze, e precisamente se la metafisica abbia valore» (Sofia Vanni Rovighi, Gnoseologia, ed. cit., pp. 175 – 176).

Il conoscere come giudizio sintetico a priori

Le insufficienze dell’empirismo e del razionalismo costituiscono il movente storico della filosofia kantiana.

Kant muove al razionalismo l’accusa di dogmatismo, ossia di essere un sistema di pensiero che regge su presupposti non dimostrati. Un esempio: la tesi del parallelismo psicofisico spinoziano (ordo et connexio rerum idem est ordo et connexio idearum), l’armonia prestabilita, eccetera. Attribuire valore oggettivo alle idee innate è un «sofisma pigro» che dà solo l’illusione di risolvere ogni problema. Anche ammesso che vi siano idee innate universali e necessarie, resta sempre da dimostrare se esse valgono per la realtà esterna.

Il razionalismo ha come suo ragionamento tipico il giudizio analitico, nel quale il predicato rende esplicito ciò che nel soggetto è contenuto (ad esempio: i corpi sono estesi). I giudizi analitici sono necessari e perciò universali ed oggettivi, perché il pensiero deve riconoscere vero nel predicato («sono estesi») quello che ha riconosciuto vero nel contenuto del soggetto («i corpi»), cioè indipendentemente dall’esperienza. Ma i giudizi analitici sono sterili, in quanto non accrescono il sapere già posseduto, ma soltanto lo esplicano. Sono dunque esplicativi, ma vuoti. Macinano sempre lo stesso grano.

L’empirismo giustamente rileva l’impossibilità di dedurre il reale concreto da idee innate e da principi astratti, ma, a sua volta, è incapace di giustificare l’universalità della scienza come necessaria legalità dei fenomeni. Per l’empirista conoscere è aggiungere una rappresentazione empirica a un’altra in sintesi soggettive, in cui le connessioni sono casuali.

Il procedimento tipico dell’empirismo è il giudizio sintetico, in cui il predicato non è pensato nel contenuto del soggetto, ma per sintesi viene aggiunto a questo come qualcosa di nuovo. Ma la connessione tra i fenomeni è affidata ad un istinto di credenza, a un’abitudine, ad una constatazione empirica per cui tutt’al più si può dire: «finora è stato constatato che». Il giudizio sintetico a posteriori è estensivo, espande cioè la nostra conoscenza, e ha carattere di concretezza, ma l’empirismo è incapace di costituire una scienza (è la conclusione di Hume), se la scienza è conoscenza di rapporti necessari e universali tra i fenomeni. Ha ragione l’empirismo, però, nel ricordarci che «ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza», ma la validità del nostro conoscere – ed è qui la verità del razionalismo – non deriva tutta dall’esperienza: l’oggettività del sapere è opera della ragione.

Malgrado le differenze, empirismo e razionalismo hanno in comune un presupposto dogmatico: l’essere come naturalisticamente eterogeneo al pensiero, come realtà per sé stante. Con questo presupposto – argomenta Kant – non è più possibile sfuggire allo scetticismo, perché non è possibile stabilire la corrispondenza tra la realtà come noi la conosciamo e la realtà come è in sé. Il criticismo vuole superare dogmatismo e scetticismo e con essi le unilateralità del razionalismo e dell’empirismo, alle cui istanze fondamentali cerca peraltro di soddisfare.

Il problema della conoscenza si presenta dunque a Kant in questi termini: è possibile scoprire, approfondendo l’esperienza, delle condizioni indipendenti da essa che conferiscono un carattere universale e necessario all’esperienza stessa?

Nella conoscenza debbono esservi elementi universali e necessari a priori – ovvero non dipendenti dall’esperienza – perché siano possibili la matematica e la fisica come scienze; d’altro canto, come vuole l’empirismo, è necessario che la conoscenza derivi dall’esperienza, abbia un contenuto di cui la sensibilità fornisce i dati.

L’attività della mente è dunque sintetica (ossia di connessione dei dati sensibili), ma a priori (in quanto i modi della connessione sono propri della ragione e ad essa immanenti): ogni conoscenza è la sintesi di una forma a priori e di un contenuto a posteriori, è sempre un giudizio sintetico a priori.

La forma senza il contenuto è vuota, il contenuto senza la forma è cieco: «ciò che rappresenta il contenuto di esperienza non è mai senza il come». Il molteplice viene dal di fuori, l’unità è messa dal di dentro, dalle varie specificazioni della funzione unificatrice propria di colui che conosce. I dati sensibili per se stessi non sono esperienza, bensì materiale caotico, che è trasformato in esperienza dall’attività della coscienza: le forme a priori, che non sono verità o conoscenze ma pure strutture del conoscere, trasformano il mondo dei dati (natura materialiter spectata) in mondo della natura (natura formaliter spectata).

Ogni conoscenza è un formare, un plasmare secondo forme unificatrici insite nello spirito. La conoscenza è attività unificatrice secondo forme necessarie dello spirito, le quali nel caos dei dati sensoriali, creano un ordine, il mondo obiettivo dell’esperienza e della scienza. L’uomo è legislatore di un ordine al quale il suo pensiero dà vita: «il contenuto essenziale della dottrina kantiana è rappresentato dalla normatività e dalla struttura logica dell’esperienza» (Ernst Cassirer).

Kant ebbe tal coscienza della novità del suo punto di vista che paragonò la propria opera filosofica a quella compiuta da Copernico in campo astronomico.

La rivoluzione copernicana

La filosofia critica segna in gnoseologia la «rivoluzione copernicana». Vi è un capovolgimento radicale del rapporto tra soggetto e oggetto rispetto alla posizione tradizionale.

«Gli atti di conoscenza non sono veri in quanto si conformano ad una realtà oggettiva preesistente, ma è il nostro spirito che dà alle cose la sua impronta, ne fa un mondo nostro. Il centro di gravitazione non è nelle cose, è nella nostra mente. La concezione astronomica tolemaica, fondandosi sulle attestazioni dei sensi, poneva la terra immobile al centro e il sole gravante con gli altri pianeti attorno ad essa. La concezione copernicana dichiara apparenza ingannatrice questo rapporto, e, capovolgendolo, sposta dalla terra al sole il centro del sistema. Analogamente, non è già che il pensiero umano contempli e rispecchi un universo che si svolge attorno a lui, ma esso, col suo moto ordinatore, costituisce il mondo dell’esperienza. La denominazione di rivoluzione copernicana, data da Kant alla sua scoperta, può a tutta prima lasciare dubbiosi sul suo significato: una teoria che pone l’uomo – la sua mente – come centro attorno a cui gira tutto il mondo (del pensiero e dell’esperienza) non potrebbe dirsi più propriamente tolemaica? Ma non è tanto la posizione rispettiva dell’uomo e del mondo che Kant considera determinata – in modo analogo – in astronomia da Copernico e in filosofia da lui, quanto il carattere paradossale che copernicanesimo e criticismo presentano egualmente di fronte all’immediata apparenza sensoriale, il capovolgimento completo della posizione del senso comune» (Eustachio Paolo Lamanna).

Ernst Cassirer osserva: «La rivoluzione copernicana non viene rettamente intesa e apprezzata se la si considera soltanto come una semplice inversione del rapporto di dipendenza che prima veniva ammesso fra soggetto e oggetto, fra la conoscenza e il suo oggetto. In tale inversione i termini del rapporto che si considera rimarrebbero semplicemente nel loro stato primitivo, mentre il senso della problematica trascendentale consiste proprio nel fatto che il mutato ordine fra quelli determina e implica al tempo stesso un cambiamento del loro significato. Il concetto di oggetto viene sostituito dal problema relativo a quella forma di conoscenza che permette di raggiungere e fondare l’obiettività» (Storia della filosofia moderna, III, Einaudi, Torino 1952, p. 20).

Riserve critiche sulla «rivoluzione copernicana» sono state sollevate in campo tomistico da Étienne Gilson e Claude Tresmontant. Ecco la famosa pagina con cui Étienne Gilson motiva il suo rifiuto del kantismo. «Il sole che Kant stabilisce al centro del mondo è l’uomo: tanto che la sua rivoluzione è esattamente il rovescio di quella di Copernico, e ci conduce a un antropocentrismo ben più radicale di quello di cui si accusa il Medioevo. L’uomo medioevale non si credeva che localmente il centro del mondo; questa creazione, di cui egli era il fine e che si ricapitolava in lui, rimaneva una realtà esterna alla quale doveva sottomettersi per conoscere la natura. Nutrito di idealismo kantiano, l’uomo moderno crede invece che la natura è ciò che ne fanno le leggi dello spirito. Perdendo la loro indipendenza di opere divine, le cose gravitano ormai attorno al pensiero umano, da cui prendono in prestito le loro leggi. Come meravigliarsi dopo ciò che la critica abbia gradatamente eliminato ogni metafisica? Per trascendere la fisica bisogna che ci sia una fisica; per elevarsi al di sopra dell’ordine della natura bisogna che ci sia una natura. Se l’universo si riduce alle leggi dello spirito, questo novello creatore non ha più nulla a sua disposizione, che gli permetta di superarsi. Legislatore di un mondo al quale il suo pensiero dà vita, l’uomo è ormai prigioniero della sua opera, e non riuscirà più ad evaderne… Se il mio pensiero è la condizione dell’essere, io non supererò mai con esso i miei limiti, e la mia capacità di infinito non sarà mai soddisfatta. Se pure il mio pensiero non fa che porre le condizioni a priori dell’esperienza, ci sarà sempre tra Dio e me lo schermo interposto dalle categorie dell’intelletto che mi interdirà la conoscenza della sua esistenza» (Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 1947 -1963, pp. 306 – 308).

A sua volta Claude Tresmontant nel volume L’esistenza di Dio, oggi (Edizioni Paoline, Modena 1970, pp. 160 – 161) afferma: «Se la ragione è come un organo, costituito a priori, ci si può chiedere per quale colpo di fortuna la nostra ragione si accordi con il reale. Ma se la ragione non è strutturata a priori, se i principi propri della ragione sono tratti dal reale stesso per mezzo della nostra conoscenza del reale, in tal caso non ci si deve sbalordire se vi sia accordo tra la ragione e il reale. La razionalità non si definisce a priori, e in modo puramente formale, ma per rapporto al reale, in funzione del reale. La razionalità è funzione del reale».

Le forme a priori del conoscere: spazio e tempo

Il primo grado dell’attività sintetica a priori è l’intuizione. L’intuizione è l’esperienza immediata. Quali sono le forme dell’intuizione? Nella prima parte della Critica della Ragion pura, l’Estetica trascendentale, si studiano le forme della sensibilità (estetica da sintèsis, cioè sensazione), le quali sono il tempo e lo spazio.

Qualunque sensazione non può essere intuita che accanto a un’altra (spazio) o collocata prima – dopo – insieme ad un’altra (tempo). Dunque ci sono le due forme del tempo e dello spazio con cui noi ordiniamo la massa caotica dei dati sensibili. La forma dello spazio riguarda solo l’esperienza esterna; la forma del tempo si estende a tutta la nostra esperienza, esterna e interna. Tempo e spazio sono forme trascendentali, cioè funzioni, strutture conoscitive del soggetto anteriori ad ogni esperienza e costitutive dell’esperienza stessa.

Contro la sostanzializzazione newtoniana dello spazio, Kant, approfondendo già nella Dissertazione del 1770 alcune intuizioni di origine leibniziana, afferma la idealità o soggettività dello spazio e del tempo, dove soggettività significa vedere nelle forme della sensibilità le condizioni soggettive della rappresentabilità delle cose per noi. Kant dimostra la soggettività di spazio e tempo con tre argomentazioni.

  1. Spazio e tempo non sono derivati dall’esperienza per mezzo dell’astrazione perché noi non possiamo rappresentarci uno spazio per ogni oggetto di sensazione, ma un unico spazio in cui tutti gli oggetti sensibili siano contenuti. In tal modo è provato che il «fuori di noi spaziale» è in noi come nostro costitutivo modo di intuire a priori.
  2. Spazio e tempo sono ineliminabili dalla nostra coscienza: possiamo persino rappresentarci un tempo vuoto e uno spazio vuoto, ma è impensabile per noi che il tempo e lo spazio non siano.
  3. Se si considerasse tempo e spazio come entità in sé reali, una volta che fossero rimossi tutti i corpi, bisognerebbe assurdamente concepire spazio e tempo come recipienti vuoti, come «non-cose esistenti».

Se spazio e tempo sono le condizioni universali della nostra intuizione sensibile, tutti gli oggetti che ci sono dati in essa assumono necessariamente la forma temporale e spaziale; dunque, conclude Kant, è dimostrata la possibilità della matematica.

Ma in che modo? La matematica è possibile perché le condizioni universali e necessarie delle intuizioni su cui si basano la geometria (spazio) e la l’aritmetica (tempo) appartengono originariamente al soggetto, come forme della sua intuizione sensibile; e quindi, per mezzo della matematica, si può conoscere a priori lo spazio e il tempo in cui avvengono i fenomeni.

Conclusione: le leggi della matematica sono valide per tutta intera l’estensione delle nostre forme della sensibilità. Sono possibili giudizi sintetici a priori matematici (ad esempio: 7 + 5 = 12, dove il concetto di 12 contiene qualcosa di nuovo rispetto a quelli singoli di 7 e 5; la retta è la linea più breve tra due punti). La validità della matematica giustifica quella della fisica, in quanto questa, fondandosi sul movimento, presuppone ancora le forme del tempo e dello spazio.

La disputa sullo spazio e sul tempo prima di Kant

Per Cartesio (1596-1650) lo spazio è uguale ad estensione (res extensa). C’è spazio finché c’è sostanza corporea. Ergo, non può esservi spazio vuoto. Lo spazio non è né finito né finito, ma indefinito.

John Locke (1632-1704): lo spazio è un’idea semplice, dataci dalla percezione della distanza tra due oggetti o tra le parti solide di uno stesso corpo. Lo spazio non ci è dato come realtà in sé, ma come una relazione tra due oggetti o tra le parti di un oggetto.

Isaac Newton (1642-1727): il tempo e lo spazio, come il moto e il luogo sono a tutti notissimi; non hanno pertanto bisogno di essere definiti. Di queste nozioni però si fa un uso volgare, relativo agli oggetti sensibili, e un uso matematico, vero, assoluto. Il tempo assoluto e lo spazio assoluto sono distinte realtà per sé stanti: il primo scorre uniformemente, il secondo è per sé stante e immobile. Dello spazio assoluto e del tempo assoluto noi non abbiamo alcuna esperienza e tuttavia dobbiamo ammettere l’esistenza per poter «immaginare» il moto locale come variazione di distanza tra due corpi. Sorge però una domanda: quando si scorge una tale variazione, come si fa a sapere quale dei due corpi si muove? In realtà Newton risponde, com’è giusto, non ricorrendo al tempo assoluto e allo spazio assoluto – invocati come gli assi di riferimento, che permettono di «immaginare» il moto locale – ma con un criterio dinamico, in relazione cioè alle forze agenti nel corpo. Il fatto è che, presentati come presupposti necessari di concezioni metafisiche, tempo assoluto e spazio assoluto non erano affatto concetti scientifici, perché mai si faceva ricorso ad essi per misurare o controllare l’esistenza di un movimento. Inoltre, così facendo, si confonde la fisica con la metafisica. Per Samuel Clarke, newtoniano, il tempo assoluto e lo spazio assoluto sono proprietà dell’Assoluto, attributi della Sostanza divina. Vivace fu la polemica fra Clarke e Leibniz, per il quale ultimo «non sembra ragionevole dire che lo spazio vuoto sia una proprietà di Dio».

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) oppone alla teoria newtoniana del tempo e spazio assoluti la sua teoria dello «spazio come relazione». Lo spazio è l’ordine dei coesistenti e il tempo l’ordine delle successioni. Uno spazio-ricettacolo dei corpi, che fosse indipendente dai corpi, è un ente immaginario. Tempo e spazio sono non res, sed modi considerandi res. Ed ecco l’obiezione di Clarke a Leibniz: se il moto locale è solo variazione di un rapporto fra una parte e le altre parti del mondo, come si fa a distinguere fra moto reale e moto apparente? Come posso dire che è la nave che si muove verso la riva e non la riva verso la nave? Leibniz risponde: la distinzione tra moto reale e moto apparente è fatta nel medesimo modo da un newtoniano e da me. Ambedue guardiamo su quale dei due corpi agisce una forza, perché quando la causa immediata del mutamento è nel corpo, esso è indubitabilmente in movimento. Il criterio è puramente dinamico.

Per Kant spazio e tempo non sono realtà per se stanti, come sostenevano Newton e Clarke, ma non sono nemmeno relazioni tra esistenti coesistenti o in successione, come pensava Leibniz. Se la concezione newtoniana dello spazio e del tempo porta a un mondo fabulosum, quella leibniziana comporta conseguenze anche peggiori. Perché i leibniziani cadono in un errore assai peggiore dei newtoniani? Perché, risponde Kant, se il concetto di spazio è indotto dall’esperienza, se è un concetto empirico, tutta la geometria, che si fonda su una certa rappresentazione dello spazio, diventa scienza empirica e i suoi assiomi decadono dalla loro rigorosa necessità e universalità a mere generalizzazioni dell’esperienza.

Per Kant tempo e spazio sono non res, sed modi considerandi res come aveva detto Leibniz; ma contro Leibniz, Kant insiste nel sostenere che noi ci rappresentiamo uno spazio unico, come voleva Newton; che la rappresentazione dello spazio non è un concetto, ma un’intuizione (perché l’intuizione è del singolare, il concetto dell’universale); però intuizione a priori o pura, non empirica, cioè prima di ogni percezione.

Osservazioni critiche:

  1. La nozione di spazio si forma attraverso una lunga esperienza ed è posteriore alle prime percezioni che l’uomo ha dei corpi. L’estensione dei corpi è un dato originario dell’esperienza, mentre noi impariamo progressivamente a collocare i corpi nello spazio.
  2. Kant ritiene unica la rappresentazione dello spazio, singolare. In realtà unico è lo spazio immaginario, cioè la nozione elaborata e complessa di spazio in cui entrano elementi reali ed elementi ideali.
  3. È un’affermazione dogmatica, ereditata dall’empirismo e dal razionalismo, quella per cui la sensibilità ci fa conoscere solo le nostre modificazioni soggettive e noi non possiamo attingere le cose in sé partendo dai dati sensibili (per Hume noi rompiamo le barriere della sensibilità solo con un atto di fede).

Le forme a priori: le categorie dell’intelletto

L’intuizione è l’apprensione immediata delle sensazioni ordinate nelle forme a priori del tempo e dello spazio. Ma il nostro spirito, oltre che intuire sensibilmente un oggetto, può anche pensarlo mediante l’attività dell’intelletto, che è il secondo grado dell’attività sintetica.

Le sintesi spaziali e temporali della sensazione, le intuizioni, senza il pensiero sono ancora cieche, perché manca ad esse quel qualche cosa che è oltre i particolari intuiti e che è costituito appunto dalla loro intima connessione. Le intuizioni senza concetti sono cieche e i concetti senza intuizione sono vuoti. Spetta all’intelletto collegare le particolari sintesi spazio-temporali in un vincolo necessario e universale: i modi di connessione necessaria e universale sono le categorie o funzioni proprie dell’intelletto, attraverso le quali gli oggetti di esperienza possono essere pensati.

La teoria del pensiero categoriale è svolta nell’Analitica trascendentale, parte prima della Logica trascendentale. Le categorie non sono più, come per Aristotele, dei supremi predicati degli esseri, ma funzioni, forme, principi di unificazione dell’intelletto. L’attività dell’intelletto è unificazione categoriale del molteplice. Ma quali sono le categorie dell’intelletto? Pensare significa giudicare: le forme a priori del pensiero o categorie saranno tante quante sono le specie del giudizio.

Tavola dei giudizi

Quantità          Qualità                        Relazione        Modalità

universale        affermativo     categorico       problematico

particolare       negativo          ipotetico          assertorio

singolare         infinito             disgiuntivo      apodittico

Tavola delle categorie

unità                realtà               inerenza          possibilità

pluralità           negazione        causalità          esistenza

totalità             limitazione      comunanza      necessità

Nonostante la molteplicità delle categorie, il carattere costitutivo dell’intelletto è l’unità. La tabella delle categorie è il vero caput mortuum del sistema kantiano, una fallita contaminazione tra una classificazione che si rifà alla logica tradizionale e l’attribuzione alle categorie di un significato trascendentale.

Così, per esempio, la categoria di causa serve unicamente a stabilire i rapporti di successione degli avvenimenti. Il legame causale è modo di connessione necessaria, è categoria affermata dalla nostra mente sotto determinate condizioni: ma il legame non si trova nell’esperienza, la quale di per sé offre solo una molteplicità di elementi. Qualità sensoriali che costantemente coesistono nello spazio si trasformano in proprietà di una sostanza, e se costantemente seguono nel tempo ad altre qualità, si trasformano in effetti di una causa.

Gli oggetti d’esperienza o concetti delle cose sono costitutivi dunque del legame, affermato come necessario, delle impressioni sensibili per mezzo delle categorie. Il nostro conoscere categoriale non va oltre la legalità dei fenomeni, conforme alla coscienza comune e all’ideale perseguito dalla scienza. Il noumeno, o realtà pensabile al di là dell’esperienza sensibile, è inaccessibile alla nostra conoscenza.

Kant avverte nei Prolegomeni (II, 17) che sarebbe grave errore pensare che la filosofia trascendentale pretenda di sostituire alla scienza induttiva, che si basa sull’osservazione empirica dei fenomeni, una scienza deduttiva della natura. È grave errore confondere, in ogni caso, le leggi universali della natura procedenti dall’intelletto (forme e categorie) e le leggi scientifiche che provengono dall’esperienza.

La ricerca di Kant è gnoseologica, anche se i suoi risultati mirano a giustificare quel tipo di conoscenza universale e oggettivo attestato dalle scienza naturali e matematiche. Kant vuole solo mostrare come le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza sono anche le fonti e le forme che rendono possibile il sapere scientifico.

L’analitica dei principi

L’Analitica dei principi (o Dottrina trascendentale del giudizio) è quella parte della Critica della Ragion pura in cui Kant vuol determinare le regole secondo cui le categorie si devono applicare ai singoli casi. Essa affronta due problemi: a) trovare un termine medio tra le categorie e le impressioni sensibili (dottrina dello schematismo); b) esaminare le regole fondamentali di questa connessione costitutiva dell’esperienza per eliminare il carattere soggettivo della percezione dei fenomeni e giustificare, in ultima analisi, i presupposti della scienza newtoniana (sistema dei principi dell’intelletto puro).

Lo schema trascendentale è la condizione di applicabilità di ogni categoria all’intuizione sensibile: è il termine intermedio tra le categorie a priori (l’universale) e le intuizioni empiriche (il particolare). Lo schema è da Kant attribuito alla «facoltà del giudizio» di cui si discorre nella terza critica. Esso è un’immagine conforme al concetto, sebbene mai perfettamente coincidente con esso. Così, per esempio, lo schema mentale del triangolo tenta di adeguare l’universalità del concetto di triangolo, pur senza raggiungerla mai.

Kant enumera gli schemi in rapporto alle singole categorie. Così lo schema delle categorie di quantità è il numero; quello delle categorie di qualità è la cosa come esteso qualificato; quello delle categorie di relazione è la permanenza o la successione o la simultaneità; quello delle categorie di modalità è l’esistenza nel tempo: in un tempo qualsiasi (possibilità), in un tempo determinato (realtà), e in ogni tempo (necessità).

«Lo schema è unità di concetto e di intuizione, è la funzione comune in cui essi si incontrano e in cui superano la loro reciproca estraneità e eterogeneità», afferma Kant. Tuttavia, nota Ernst Cassirer, la teoria dello schematismo rende comprensibile un’attività concomitante della sensibilità e del pensiero, ma non concilia l’eterogeneità dei due termini.

La concezione a cui tende la dottrina dello schematismo ha trovato il suo decisivo compimento nella Critica del Giudizio, poiché alla «facoltà» del giudizio Kant aveva attribuito lo schema trascendentale e solo nella terza critica si addita il motivo, il principio che fissa e formula il problema delle leggi particolari di natura nell’idea regolativa universale di finalità. L’unità di universale e particolare, mediante l’idea di finalità, non è l’unità di un principio logicamente dimostrabile, ma l’unità di un’idea regolativa universale, esigita a spiegazione delle forme organiche e quale principio concreto della stessa ricerca particolare.

L’unità sintetica originaria dell’appercezione

Si è detto che tutte le categorie kantiane si potrebbero ridurre a quella dell’unità sulla base dell’attività sintetica del soggetto. Tale riduzione è implicita nell’atto stesso in cui Kant tenta la «deduzione trascendentale delle categorie». Kant supera di colpo l’empirismo con questa illuminante affermazione: «Nessuna conoscenza può aver luogo in noi, nessun collegamento e unità senza quell’unità della coscienza che antecede tutti i dati dell’intuizione e in rapporto alla quale soltanto è possibile ogni rappresentazione di oggetti» (Critica della Ragion pura, Anal. trasc., libro I, cap. II). Da un mucchio di sensazioni slegate non verrebbe mai fuori un’unità, se questa non fosse presupposta alle singole sensazioni. «Le molteplici rappresentazioni non sarebbero mie se non appartenessero tutte ad un’autocoscienza; altrimenti avrei un io tanto vario e multicolore quante sono le rappresentazioni che ho; sarei come la statua di Condillac, prima tutta odor rosa e così via».

L’unità del molteplice è, invece, un atto della spontaneità intellettiva, non appartenente al senso: il fondamento di questa unità d’esperienza è l’appercezione originaria o unità trascendentale della coscienza, a cui risale la possibilità della coscienza a priori. L’appercezione originaria è, dunque, la possibilità dell’esperienza come unità: originaria possibilità dell’unificazione sensibile (tempo e spazio) e categoriale dell’esperienza.

L’appercezione originaria genera la rappresentazione «io penso» (ich denke). L’io penso significa «io esisto come intelligenza che è consapevole soltanto della sua capacità di unificazione». Esso è, dunque, l’atto con cui l’uomo determina la sua esistenza come possibilità di trasformare il mondo dei dati (natura materialiter spectata) in mondo della natura (natura formaliter spectata). In tal senso esso è «il principio supremo di tutta la conoscenza umana».

L’io penso accompagna tutte le mie rappresentazioni perché altrimenti esisterebbe in me qualcosa senza che io lo pensassi: il che è impossibile, perché una rappresentazione siffatta, non essendo una mia rappresentazione, non esisterebbe per me. L’io penso connette in un’unità originaria le rappresentazioni non solo dell’esperienza esterna, cioè dei fenomeni naturali, ma anche dell’esperienza interna, cioè di quel fenomeno che è l’io a se stesso nella coscienza. L’io penso è percepito da me come attività sintetizzatrice dei dati d’esperienza, ma i dati da sintetizzare sono sensibili e fenomenici; dunque non ho conoscenza alcuna di me come sono, ma solo come appaio a me stesso nei miei modi di funzionamento. L’io penso è la possibilità trascendentale dell’esperienza, ed è cadere in un paralogismo determinare l’io penso oggettivamente per mezzo delle categorie che da esso dipendono. Dire che l’io penso è soggetto-sostanza non è corretto, in quanto la categoria della sostanza vale solo per collegare un fenomeno di esperienza sensibile con un altro, e non per conoscere una realtà che sorpassa l’esperienza.

«L’io penso è detto da Kant appercezione: appercezione è l’atto con cui l’io apprende immediatamente se stesso come identico nel suo pensare qualcosa, e si distingue dalla percezione in quanto questa è propriamente apprensione immediata dell’oggetto da parte dell’io pensante. L’appercezione è poi detta da Kant trascendentale o originaria perché, mentre la rappresentazione io penso accompagna tutte le altre, essa non può venire accompagnata e condizionata che da se stessa: è l’a priori per eccellenza. Ma si badi: l’io che si afferma in quest’atto di sintesi, è ragione, ossia è esigenza di universalità; implica dunque coerenza, cioè ordine intrinseco, non solo tra quello che io penso adesso e quello che io stesso ho pensato fino ad ora, ma anche tra quel che penso io e quello che pensano gli altri individui. È come un più largo io, è una coscienza generale, un io puro, liberato cioè da tutte le determinazioni psichiche individuali ed empiriche, ciò in cui tutti gli esseri pensanti si accomunano, che organizza secondo regole universali tutte le rappresentazioni possibili le quali attraversino tutte le possibili coscienze empiriche. La natura non è che esperienza possibile; e unico criterio di verità della conoscenza d’un fatto è che la rappresentazione di esso si presti ad essere inserita armonicamente in quella trama di rapporti che la coscienza generale costituisce secondo le sue leggi. L’io che è legislatore della natura non è una realtà trascendente l’esperienza, non sussiste cioè fuori dall’esperienza, come la res cogitans cartesiana, quasi che sia una sostanza, un’anima sostanziale» (Eustachio Paolo Lamanna).

Osservazioni critiche sulla dottrina dell’io penso come «io più ampio» o «coscienza in generale»

  1. L’affermazione kantiana, secondo cui l’io penso è il soggetto logico dei suoi pensieri, «pura funzione unificatrice di soggetto e predicato», è falsa. Il soggetto logico del giudizio «il triangolo ha tre angoli» è il triangolo e non l’io. L’io diventa soggetto logico solo nei giudizi di riflessione che assumono l’io stesso come oggetto di analisi. Kant non distingue fra l’identità intenzionale, che esiste tra soggetto pensante e le cose pensate, e l’identità reale tra il soggetto pensante e i suoi atti di pensiero.
  2. Il concetto di «io più largo», di «coscienza in generale» – questo io in terza persona che avrà tanta fortuna nell’idealismo – non ha plausibilità. La mente può ben compiere funzioni necessarie e universali senza che si debba fantasticare un io impersonale che ne sia il soggetto.
  3. Kant afferma la validità dell’autocoscienza per confutare l’empirismo, ma rifiuta di affermarne la realtà ontologica nel timore di cadere nelle posizioni della metafisica dogmatica del razionalismo. In tal modo l’autocoscienza rimane, nel criticismo, indefinibile, a mezz’aria. Non è intuizione, perché non è sensibile. Non è concetto, perché non è il risultato, ma il presupposto di ogni unificazione concettuale. È, dice Kant, «la coscienza non empirica dell’empirico»: ma questa frase è oscura e priva di un effettivo significato. L’incertezza nei termini tradisce l’imbarazzo del filosofo. L’io penso è nulla fuori delle sue produzioni. Come il Dio di Spinoza è nulla fuori dei modi ed è tutto nei modi, così l’io penso non è una realtà fuori dei giudizi.

Il noumeno

Dal greco noumenon, «ciò che è pensato». In Platone (Timeo, 51 D), è il mondo degli intelligibili in sé, o idee, in opposizione al mondo che è oggetto dei sensi.

Insieme alla dottrina della deduzione trascendentale, la dottrina del noumeno costituisce il caposaldo della filosofia kantiana e uno dei punti più tormentati per il filosofo di Könisberg e per i suoi interpreti.

Nella Dissertazione del 1770 la distinzione tra fenomeno e noumeno equivale a quella fra mondo sensibile e mondo intelligibile. Nella prima edizione della Critica e nei Prolegomeni sovrappone due diversi concetti di noumeno. Il noumeno è ciò che è pensabile come un correlato dell’unità di appercezione: esso ha valore di possibilità logica (cioè pensabilità), ma è anche inteso come una x, realtà ignota, oggetto trascendentale, oggetto-sostanza dei corpi materiali da noi percepiti in quanto fenomeni. In tal senso il noumeno costituisce la possibilità stessa del fenomeno, è «ciò che nel fenomeno si fenomenizza».

Nella seconda edizione della Critica, Kant sviluppa sino in fondo il concetto di noumeno come Grenzbegriff o concetto-limite che circoscrive la sfera di validità della conoscenza sensibile.

Il noumeno ha dunque una funzione negativa, in quanto «concetto-limite che circoscrive le pretese della sensibilità», ed una positiva, ma solo in modo problematico (ovvero non contraddittorio per la ragione teorica), in quanto afferma la possibilità di una realtà superiore a quella sensibile empirica, propria del mondo dei fenomeni. Così l’anima, Dio, la libertà sono noumeni pensabili, ma non conoscibili. Il mondo noumenico o dell’incondizionato, inaccessibile alla ragion pura, si manifesta positivamente nell’assolutezza della legge morale (positività assertoria, ma razionalmente indimostrabile): così nella Critica della Ragion pratica. Nella Critica del Giudizio ci si chiede se tra il mondo fenomenico della natura e quello noumenico posto a fondamento del mondo morale non ci sia un qualche rapporto che autorizzi un’interpretazione finalistica del mondo e del posto dell’uomo in esso.

«L’antitesi fra la cosa in sé e il fenomeno si risolve nella delimitazione fra conoscenza delle idee e conoscenza delle categorie, tra ragione e intelletto. Sotto questo punto di vista la cosa in sé cessa di significare soltanto la rigida barriera di conoscenza e viene invece a indicare un sistema di problemi che nascono al limite del sapere non a caso o ad arbitrio, ma con rigorosa ed evidente necessità» (Ernst Cassirer).

La dialettica trascendentale

È la parte negativa della Logica trascendentale che tratta dell’abuso dei nostri poteri conoscitivi e critica le illusioni della ragione pura, che pretenda cioè di oltrepassare il mondo fenomenico estendendo al sovrasensibile l’uso di quelle categorie necessarie a unificare le sole intuizioni sensibili e a darci la visione di un mondo come serie ben concatenata di fenomeni.

Dialettica per Kant non ha il significato di logica del retto ragionare, della conoscenza vera (Platone), di scienza delle relazioni strutturali, di logica della conoscenza probabile (Aristotele), ma di logica della conoscenza illusoria. La dialettica trascendentale è la critica dell’uso illegittimo o dialettico dei nostri poteri conoscitivi.

La ragione (Vernunft) aspira a sintesi più ampie e complete di quelle che possono esserci date dall’intelletto (Verstand) e dalle singole scienze. La ragione aspira a raccogliere nell’unità dell’idea di mondo la totalità dei fenomeni naturali; a unificare in una sostanza pensante, a cui si dà il nome di anima, tutto il nostro mondo interiore; infine ad assurgere ad una sintesi suprema, a un principio unificante di tutti i fenomeni, fisici e psichici, come loro causa trascendente, che chiamiamo Dio.

Questi tre problemi, che di fatto preoccupano l’uomo in cerca delle ragioni ultime delle cose e del fine della propria vita, costituiscono i tre capitoli della metafisica tradizionale: la cosmologia, la psicologia, la teologia. Kant si propone di dimostrare che la cosmologia porta ad antinomie insolubili, la psicologia razionale è fondata su paralogismi, le prove dell’esistenza di Dio sono prive di valore.

In conclusione, per Kant è impossibile trascendere l’esperienza sensibile; dunque è impossibile costruire una teoria della realtà sovrasensibile o metafisica. L’illusione trascendentale consiste nella pretesa di estendere al noumeno la validità di categorie il cui uso è limitato ai soli fenomeni. «La mente umana è come una colomba che, librandosi oltre l’atmosfera, cade nel vuoto: tale è la sua sorte quando tenta le vie della metafisica». Il criticismo è appunto critica della ragion pura, della ragione come attività conoscitiva pura, che oltrepassi cioè la conoscenza sensibile.

A questo errore siamo sospinti dal desiderio di farci un’idea della totalità delle cose, di dedurre conclusioni assolutamente certe e la facoltà che crea tali idee è la ragione, o facoltà dell’incondizionato. Ma la ragione può dare solo una soddisfazione illusoria al bisogno reale di una conoscenza metafisica, in quanto l’uomo manca dell’intuizione intellettuale; per influsso delle sensibilità sull’intelletto accade che la necessità soggettiva di una certa connessione di nostri concetti sia ritenuta necessità oggettiva delle cose in sé; l’illusione nasce da una certa fede nella razionalità del reale, ma la fede non è scienza.

Il criticismo riconosce l’insopprimibilità dell’esigenza metafisica, ma dichiara impossibile il soddisfarla. «Che lo spirito umano rinunci un giorno del tutto alla ricerca metafisica – afferma Kant – è così poco da attendersi come che, per non respirare più aria impura, noi preferiamo un giorno non respirare affatto. La metafisica vivrà sempre in ogni uomo, specialmente in ogni uomo capace di riflessione. Occorrerà una grande fermezza per non lasciarsi distogliere né per difficoltà intrinseche né per ostacoli esteriori, da un’opera che si propone di dare finalmente un giorno sviluppo rigoglioso e fecondo ad una scienza che è indispensabile all’umana ragione; e della quale si possono certo tagliare i rami cresciuti finora, ma non mai svellere le radici».

1- Le antinomie cosmologiche

Quando la ragione umana vuole risalire alla causa incondizionata dei fenomeni, quando vuol formarsi un concetto non soltanto di una serie più o meno vasta di fenomeni, ma del mondo come totalità, si smarrisce nel labirinto delle antinomie. Le antinomie sono costituite da coppie di proposizioni antitetiche (tesi – antitesi), per ognuna delle quali si possono trovare argomentazioni sufficienti senza che sia possibile giungere ad una conclusione definitiva. La radice delle antinomie è posta da Kant nell’illegittima estensione al mondo noumenico, alle cose in sé, di quelle condizioni del pensare che valgono solo per il mondo fenomenico.

Le antinomie cosmologiche sono quattro: le prime due riguardano problemi puramente cosmologici, le ultime due interessano anche il problema dell’uomo e di Dio; le prime due son dette «matematiche», le ultime due son dette «dinamiche».

  1. Prima antinomia. Tesi: il mondo ha inizio nel tempo ed è limitato nello spazio. Antitesi: il mondo non ha né inizio né limiti temporali, ma è infinito sia nel tempo che nello spazio.
  2. Seconda antinomia. Tesi: ogni sostanza composta consta di parti semplici, e nell’universo non esiste altro che il semplice e ciò che è composto di semplici (è la tesi della monodologia leibniziana). Antitesi: il semplice non esiste e tutto ciò che è esteso implica una molteplicità e quindi una composizione di parti (David Hume).
  3. Terza antinomia. Tesi: la causalità secondo le leggi di natura non è l’unico tipo di causalità dal quale possano essere spiegati i fenomeni del mondo: per spiegarli è necessario ammettere una causa libera (e Kant osserva che dimostrare l’esistenza di una sola causa libera, la Causa prima, significa risolvere il problema della possibilità delle cause libere finite operanti nell’universo). Antitesi: tutto il mondo accade secondo una causalità necessaria.
  4. Quarta antinomia. Tesi: il mondo implica come sua causa un ente assolutamente necessario. Antitesi: il mondo non implica a sua spiegazione un essere assolutamente necessario, non potendosi passare dal condizionato all’Incondizionato.

Le tesi riflettono le posizioni del razionalismo, le antitesi quelle dell’empirismo. Le tesi hanno un vantaggio pratico, perché teorizzano convinzioni comuni e offrono una base alla morale e alla religione. Le antitesi presentano un vantaggio teoretico, perché non escono dal campo dell’esperienza.

Le prime due antinomie, così come sono formulate, sono insolubili. Sfugge ad esse la filosofia trascendentale, che contesta la necessità di ammettere sia la tesi che l’antitesi: infatti, secondo Kant, non si può considerare il mondo come cosa in sé e come totalità, e nel contempo attribuirgli il tempo e lo spazio, che valgono solo per i dati sensoriali; infine la ragione di quelle opposizioni non sussiste, se si riconduce il concetto di mondo a quello di una serie ben concatenata di fenomeni, e un fenomeno che si costruisce progressivamente non è né finito né infinito, ma indefinitamente aperto. Le altre due antinomie si può sperare di risolverle sulla base della dottrina cardine del fenomeno – noumeno, riferendo le tesi al mondo noumenico e le antitesi al mondo fenomenico.

2- I paralogismi della psicologia razionale

Paralogismo significa argomentazione sofistica, errore di forma nel ragionamento non accidentale, ma dovuto alla tendenza naturale della ragione umana a dar valore reale a concetti che hanno soltanto valore logico. Quattro sono i paralogismi della ragione, che pretende di dimostrare che l’anima è sostanza, è semplice, è individualità personale, ed è in rapporto con gli oggetti nello spazio.

I primi tre paralogismi consistono nel fatto che si parte dall’Io penso, ossia dall’unità sintetica dell’appercezione, e la si trasforma in unità ontologica sostanziale. L’autocoscienza è un caso imbarazzante nella filosofia kantiana: non è intuizione, perché non è sensibile; non è concetto, perché non è un risultato, ma il presupposto di ogni sintesi; la definizione di «coscienza non empirica dell’empirico» non significa niente. Il rimprovero rivolto alla psicologia tradizionale di confondere il soggetto logico del pensiero con il soggetto reale (anima-sostanza) bisogna infatti muoverlo a Kant stesso.

Il quarto paralogismo parte, per Kant, dall’errato presupposto realistico per cui gli oggetti esterni sono uguali alla cosa in sé. La confutazione kantiana del paralogismo così argomenta: l’esistenza di me non è più evidente di quella degli oggetti esterni: io non potrei aver coscienza di me senza aver coscienza del tempo, forma a priori della sensibilità e schema che rende possibile l’applicabilità di ogni concetto all’intuizione.

3- La critica delle prove dell’esistenza di Dio

La teologia razionale pretende di dimostrare l’esistenza di Dio. Kant si domanda come arriviamo a formarci l’idea di Dio. La somma di singoli predicati positivi delle cose ce la configuriamo come una omnitudo realitatis; concepiamo poi questa come un ente individuo e così vien fuori il concetto di essere perfettissimo (ens realissimum), cioè l’idea di Dio. Ma così rimaniamo nel mondo delle idee, non proviamo l’esistenza di Dio. L’idea di Dio è perciò una creazione fantastica, non avendo il mondo dei fenomeni condizioni che valgano per il mondo della realtà noumenica. È possibile individuare alcune affinità con la tesi di Feuerbach, per cui l’uomo proietta in Dio i suoi sogni di perfezione.

La parte più nota della Dialettica trascendentale è la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio. Kant non vuole mettere in dubbio che Dio esista, bensì mostrare che gli argomenti portati dalla ragione teoretica per dimostrare l’esistenza non sono probativi.

  1. Kant critica la prova ontologica dell’esistenza di Dio già nella Nova delucidatio del 1755, così argomentando: formandoci la nozione di un ente che chiamiamo Dio, la determiniamo in tal modo che vi includiamo l’esistenza; se la nozione così concepita è vera, è pure vero che Dio esiste; ma come si può sapere se quella nozione è vera? O pensando Dio lo pensiamo già esistente, e allora la prova è inconsistente essendo una tautologia bella e buona; oppure dobbiamo dimostrarne l’esistenza. Ma da dove si può dedurre quell’esistenza dal momento che sfugge alla possibilità dell’esperienza concreta? Se, ad esempio, penso 100 talleri possibili, non li penso per questo meno perfetti di 100 talleri reali: li penso con la stessa figura, le stesse dimensioni, lo stesso contenuto aureo di 100 talleri reali; quindi altrettanto perfetti. Ciò che l’esistenza aggiunge in più è una particolare relazione con la mia percezione o esperienza, per cui 100 talleri entrano nel mondo della mia esperienza come un fatto, mentre 100 talleri possibili sono un puro oggetto del mio pensiero.
  2. La prova cosmologica è così riformulata da Kant: a) se qualcosa esiste – e io almeno esisto – deve esistere un ente assolutamente necessario; b) ma l’unico concetto che si adatti all’esistenza necessaria è quello di un ens realissimum, ossia perfettissimo; c) dunque esiste necessariamente un ente perfettissimo. Per il filosofo di Könisberg non è valida la prima parte della prova cosmologica, non potendosi risalire dal condizionato all’incondizionato, poiché l’incondizionato dovrebbe essere colto oltre il mondo dell’esperienza e noi non abbiamo concetti che possano afferrare ciò che non è sperimentabile. Non è valida la seconda parte, perché implica un ricorso alla prova ontologica, già dimostrata priva di valore. La prova cosmologica è dunque la prova ontologica vista di rovescio ed in essa si adunano così tanti principi sofistici che la ragione speculativa sembra aver adoperato tutta la sua forza dialettica per produrre la più grande illusione trascendentale possibile.
  3. Infine Kant critica la prova fisico-teleologica, secondo la quale: a) nel mondo vi sono dappertutto segni evidenti di un ordinamento secondo uno scopo determinato; b) tale ordine è affatto estrinseco alla natura delle cose ordinate, poiché queste non avrebbero potuto coordinarsi da sole tra loro con mezzi così vari; c) esiste dunque un’intelligenza ordinatrice del creato, e l’unità di questa causa si può dedurre dall’unità dei rapporti reciproci tra le parti del mondo come elementi di un’opera d’arte. Si tratta, a detta di Kant, della prova più adatta alla comune ragione umana, buona per far nascere la fede in un Dio, ma non per costringere all’assenso; potrebbe tutt’al più dimostrare un architetto del mondo, non un creatore. L’ordine delle cose noi lo affermiamo solo per analogia, considerando il mondo come i prodotti dell’arte (ad esempio un orologio), la connessione delle cui parti non dipende dalla loro natura, ma dalla disposizione voluta dall’orologiaio.

Se la teologia trascendentale convince la ragione dell’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, la convince pure dell’impossibilità di negarla. Tuttavia le idee della ragione non sono pura illusione: se non hanno valore costitutivo e gnoseologico, ne hanno uno regolativo o normativo in quanto: unificano l’esperienza; permettono di abbracciarne l’insufficienza; ci rinviano, pur senza farcela conoscere oggettivamente, ad una realtà trascendente, che come un sole invisibile orienta a sé il nostro conoscere e agire, realtà trascendente con la quale sono intimamente connessi la nostra natura e il nostro destino. Le idee della ragione valgono come schemi per ordinare l’esperienza e sistemare i fenomeni in maniera organica «come se» tutti i fenomeni concernenti l’uomo dipendessero da un principio unico (anima), «come se» tutti i fenomeni della natura dipendessero unitariamente da principi intelligibili, e «come se» la totalità delle cose dipendesse da una suprema intelligenza.

La Critica della Ragion pura si conclude, dunque, ribadendo il principio che i limiti dell’esperienza sensibile sono invalicabili da un punto di vista scientifico. Ma, nello stesso tempo, pone in evidenza la non contraddittorietà del noumeno e, quindi, la sua pensabilità e possibilità, anche se non la sua conoscibilità. Ci sarà un’altra via di accesso al noumeno che non sia quella propria della scienza? Secondo Kant questa via c’è: è quella della vita morale e dell’estetica.

Kant pone al termine della Critica della Ragion pura le tre famose domande: che cosa posso conoscere?; che cosa debbo fare?; che cosa mi è concesso sperare?

La prima domanda investe il problema della conoscenza: entro quali limiti posso conoscere in modo rigoroso, universale e necessario? La riflessione su questi limiti è per la filosofia un discorso sulla condizione umana colta in un atteggiamento fondamentale, in quello dell’uomo che misura le sue possibilità di conoscere il vero.

La seconda interrogazione si riferisce all’attività pratica, all’azione: che cosa debbo fare? In questa domanda il verbo usato da Kant ha un suo rilievo particolare: non müssen ma sollen, non ciò che costringe deterministicamente, ma il dovere liberamente voluto, che ha nella libertà il suo presupposto. Noi abbiamo i criteri su cui misurare, qualunque esse siano, le nostre azioni e per riconoscerne o meno l’intrinseca bontà: la possibilità di universalizzare il criterio a cui ci ispiriamo nei nostri atti, il rispetto dell’umanità che è in noi e negli altri.

La terza domanda «Che cosa sono autorizzato a sperare?» si pone lungo l’ardua frontiera tra conoscenza e moralità, da un lato, e fede dall’altro. Il verbo usato da Kant è dürfen. Il presente di tale verbo ich darf significa posso nel senso di mi è concesso, mi è permesso. Unito a hoffen, «sperare», «aprire un orizzonte», evidenzia un’altra nota d’intensa esistenzialità: la speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e la stessa vita morale. Lanciato verso dove? Verso la fede. Ma la domanda che cosa sono autorizzato a sperare? rimane autenticamente filosofica, emblematica della nostra condizione e rivelativa di qualcosa di più profondo.

10- Leibniz e Kant

«Kant nella Critica del Giudizio richiama in vita il senso più profondo del concetto leibniziano di armonia che era stato quasi del tutto oscurato dalla filosofia popolare del periodo illuministico. Per Leibniz l’armonia indica non l’accordo fra le parti dell’essere, ma fra i diversi ordini in virtù dei quali noi possiamo cogliere l’essere. Matematica e metafisica, l’ordine dell’esperienza e l’ordine della ragione, la legge empirica di causalità e la legge intelligibile di finalità devono essere pensati in essa come momenti di un’unità universale, di un fondamentale e ideale piano che abbraccia l’essere e il pensiero. Il principio kantiano di finalità formale presenta questa caratteristica: cerca di mantenere il tema fondamentale di questo modo di pensare, ma ne rifiuta come dogmatica la base. Il nesso ideale, che il principio dell’armonia afferma, non è, dal punto di vista del nostro conoscere un dato, ma un’esigenza. L’idea dell’unità razionale della natura non può venir ricondotta ad un fatto trascendente che stia alla base di essa. Non è l’interesse per la trascendenza, ma l’interesse per l’elaborazione formale e sistematica dell’esperienza stessa che richiede venga ampliato il campo di competenze della ragione e venga approfondita l’elaborazione formale dei rapporti tra l’universale e il particolare. Una linea sottile qui separa Kant da Leibniz […] Entro i limiti del criticismo si giunge, pur con le consuete riserve, ad affermare la conoscenza mediante l’idea di finalità come il modo di conoscenza in cui soltanto si determinerebbe il reale secondo il suo concetto concreto. È chiaro come qui i diversi campi si convertano insensibilmente l’un nell’altro. Infatti il principio di finalità non rimane nello stesso Kant limitato al concetto di finalità formale, ma si allarga giungendo all’idea di un fine ultimo assoluto in cui i due campi della natura e della libertà debbono trovare la loro connessione formale» (Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1978, vol. III, pp. 34 – 35).

Le convergenze tra i due pensatori possono così essere sintetizzati:

– Leibniz prelude all’impostazione criticista del problema gnoseologico, accantonando il Locke nella posizione che storicamente sarà riproposta da Kant e Hume: senza a priori è impossibile giustificare quanto di universale e necessario si trova nel nostro conoscere.

– Leibniz avvia la concezione dell’idealità delle categorie del tempo e dello spazio.

– Leibniz prelude al tentativo kantiano di conciliare il determinismo dei fenomeni e il finalismo noumenico.

– Per Leibniz la sorte dell’universo e quella delle anime sono unite naturalmente l’una all’altra per il bene e per il male, in un’armonia che in seno al pensiero creatore regola ciò che Kant chiamerà il regno dei fini.

– Leibniz è un fenomenista e vuol giustificare una conoscenza universalmente valida: l’innatismo virtuale delle leggi del pensiero vuol essere un superamento delle aporie dell’empirismo, ed è da considerarsi abbozzo dell’apriori kantiano e delle categorie. «La vigorosa affermazione leibniziana di una luce tutta interiore, fonte di universalità e necessità nella nostra conoscenza e delle potenzialità latenti che si sviluppano in occasione dell’esperienza, prelude chiaramente alle forme trascendentali e all’apriorismo kantiano» (Rodolfo Mondolfo, Filosofia tedesca, ed. cit., p. 59).

– Comune sottinteso realistico al fenomenismo e ripudio dell’idealismo soggettivo di Berkeley.

Pure importanti sono le divergenze:

Mentre l’armonia prestabilita (presupposto a priori di tutte le connessioni scientifiche dei fenomeni) sposta fuori dei fenomeni le leggi costitutive dei fenomeni stessi, Kant renderà queste intrinseche ed immanenti col principio di appercezione.

– In Leibniz c’è solo una differenza di grado – sia pure infinita se si tien conto del principio degli indiscernibili – tra sensibilità ed intelletto; in Kant c’è opposizione e distinzione di natura.

– La concezione dell’armonia prestabilita è dogmatica dal duplice punto di vista gnoseologico e metafisico, e sarà il costante bersaglio polemico per Kant che vedrà in essa l’archetipo di ogni filosofia dogmatica.

– Kant respinge la pretesa di trarre dal proprio fondo il contenuto di esperienza della percezione. In realtà Leibniz si allontana decisamente dalle più suggestive implicanze della teoria della virtualità conoscitiva dello spirito umano quando passa a rispondere alla domanda: che cosa vi è di innato nell’uomo?

 

LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

Il problema del fine della vita e il Sommo Bene

Kant era un pensatore troppo profondo per non aver sentore delle difficoltà e delle lacune del proprio sistema, a causa della svalutazione eccessiva di alcune esigenze proprie del pensiero e della natura stessa dell’uomo. Nella Critica della Ragion pratica Kant si chiede come sia possibile l’imperativo categorico e come la ragion pura diventi di per sé anche pratica, in quanto per spiegare il problema morale bisogna salvare il principio della libertà. La formula «devi dunque puoi» significa infatti che l’uomo può agire per il dovere e che dunque la libertà è reale. La libertà non è un fatto che si possa constatare empiricamente, bensì il fondamento necessario di quel «fatto della ragione» che è la legge morale. Mentre la constatazione empirica riguarda «ciò che è», la percezione immediata della coscienza in campo morale riguarda «ciò che deve essere». La certezza del «tu devi» postula la certezza della libertà (primo postulato). La libertà morale è l’autodeterminazione secondo la legge morale. Nella coscienza della nostra subordinazione alla legge morale, noi facciamo appello alla libertà e la sperimentiamo come condizione necessaria alla moralità. Come esseri fenomenici siamo immersi nella concatenazione causale, essendo la causalità un principio a priori dell’intelletto costitutivo di ogni esperienza sensibile; come agenti morali apparteniamo al mondo noumenico, che non cade sotto la legge causale. Anche l’atto morale – dice Kant – è sotto l’aspetto psicologico perfettamente determinato; però mentre l’atto impulsivo ed egoistico esaurisce la volontà nel meccanismo psicologico, nell’atto morale la volontà buona opera secondo fini puramente intelligibili, ponendo a suo servizio il meccanismo psicologico.

Nell’azione morale bisogna escludere la considerazione di ogni fine utilitario e contingente; ma una giustificazione filosofica della vita morale non può eludere il fine della vita umana e dell’attività etica che la mette in valore. Indipendentemente da ogni considerazione utilitaria l’attività etica deve avere dunque un fine supremo, e questo non può essere che il sommo bene. Il bene al quale la coscienza razionale aspira è sommo in quanto incondizionato, cioè non subordinato ad altro, e totale. Il sommo bene è sintesi di virtù e felicità. Il rapporto tra virtù e felicità non è un rapporto analitico ma sintetico, non è una connessione logica, ma esige una fusione reale. Gli epicurei e gli stoici concepivano tale rapporto come analitico: infatti gli uni ritenevano che la virtù implica necessariamente in sé la felicità, per gli altri la ricerca della felicità implica la virtù. L’esperienza smentisce gli uni e gli altri. In realtà la felicità non è la virtù, e la virtù non è la felicità. Vi è un’antitesi, non necessaria, ma sempre ricorrente e drammatica. Essere degni della felicità mediante la virtù non significa essere felici. Un uomo giusto può essere nella più grande sventura, anche se sorretto dalla coscienza di aver agito in modo da onorare l’umanità nella propria persona. Questo conforto non è felicità, neanche la minima parte, tanto è vero che nessuno desidererà di provarlo. Tuttavia rimane per noi il dovere di tendere al sommo bene per ragioni non derivanti da motivi utilitari; difatti l’impossibilità del sommo bene implicherebbe la falsità della legge morale. La virtù è il bene supremo, ma nel mondo sensibile l’uomo non perviene né alla santità (perfetta adesione alla volontà della legge), né per conseguenza al sommo bene, cioè alla sintesi piena di virtù e felicità, tale da soddisfare armoniosamente tutte le esigenze dell’uomo: dal bisogno di realizzare la perfezione e di conseguire il sommo bene e dall’impossibilità di realizzarlo su questa vita nasce la fede nell’immortalità dell’anima (secondo postulato). La sintesi di virtù e felicità non ha nell’uomo una garanzia sufficiente; bisogna dunque cercarla in una Causa della natura distinta dalla natura stessa, che realizzi in sé quella sintesi di virtù e felicità che l’uomo persegue come un compito infinito. Sommo bene originario è dunque Dio, fondamento del sommo bene derivato al quale l’uomo può e deve aspirare. Dobbiamo allora ammettere come postulati della ragion pratica la libertà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, condizioni che rendono possibile la concezione e il conseguimento del sommo bene. I postulati metafisici della ragion pratica non sono oggetto di conoscenza teoretica, ma presupposti secondo i quali dobbiamo orientare e determinare la nostra volontà. L’uomo deve agire come se la volontà fosse libera, l’anima immortale, Dio sorgente e garante della legge morale e del sommo bene, non per fini arbitrari e soggettivi, ma per esigenze schiettamente morali. Se la ragione non riesce in quanto teoretica a stabilire affermativamente certe proposizioni, che intanto non la contraddicono affatto, la ragione in quanto pratica deve ammettere quelle proposizioni come sufficientemente attestate e confrontarle e unificarle con tutto ciò che ha in suo potere. In ciò consiste il primato della ragion pratica. Il primato è una prerogativa, un privilegio che spetta dunque alla ragion pratica rispetto alla ragion teoretica.

L’autonomia morale

Il principio fondamentale dell’etica kantiana è l’autonomia. Il contrario dell’autonomia è l’eteronomia: è eteronoma la volontà determinata dagli oggetti della facoltà di desiderare, da pressione passionale, ecc.

L’eteronomia può derivare da motivi pratici soggettivi oppure oggettivi.

  1. Sistemi morali derivanti da motivi pratici materiali soggettivi sono l’edonismo e l’eudemonismo. L’edonismo pone il principio della morale nella soddisfazione di un impulso o di un sentimento che ci attira verso un oggetto piacevole (la felicità, il piacere, l’utile sono soltanto nomi generici di uno stato sentimentale che nei diversi individui è prodotto da cause diversissime). L’adattamento alle inclinazioni particolari non potrà mai condurre a formulare la legge morale nella sua assolutezza. L’eudemonismo non fa dipendere il piacere dai beni esterni, ma fa consistere la felicità nella dedizione del soggetto ai piaceri superiori dell’arte, della conoscenza, della simpatia morale. L’eudemonismo è un edonismo raffinato, ma la moralità non si trova sublimando il piacere, come non si troverà mai lo spirito assottigliando la materia: tra piacere e moralità vi è una differenza qualitativa incolmabile. Una virtù praticata non per sé, ma per la soddisfazione che dà, non è più virtù; in realtà non è altro che una forma di soddisfazione. Mentre l’uomo morale segue in primo luogo la legge e solo in via secondaria gode della serenità dell’uomo giusto, l’epicureo ricerca questa serenità in primo luogo e segue la legge morale proprio come mezzo per conseguire quel fine primario.
  2. L’eteronomia può derivare anche da motivi pratici oggettivi. A questi appartiene la morale autoritaria teologica, per cui la legge morale è accettata non perché è comando razionale, ma solo perché è comando. Il problema era già stato dibattuto nell’Eutifrone di Platone. Piero Martinetti nota: «L’antitesi non è così recisa come a prima vista appare. Certo, se per Dio intendiamo un essere mitologico per il quale il sic volo, sic iubeo stat pro ratione voluntas, l’opposizione sussiste nel suo pieno. Colui che opera per ubbidienza verso un essere altro da sé in realtà ubbidisce alla propria legge morale oppure puramente per autorità e allora opera per spirito servile, per paura o per speranza, cioè non opera moralmente. L’aspirazione a realizzare un ordine, una legge morale è l’aspirazione a realizzare un ordine che ha il suo fondamento in Dio e che perciò si rivela a noi come ragione».

La morale autonoma si oppone al razionalismo dogmatico wolfiano che deriva la moralità dal concetto di perfezione, concetto vuoto e indeterminato che presuppone quel che deve spiegare. Kant mostra una strana incomprensione del cristianesimo dicendo che «l’amore non può essere comandato» né verso Dio, «perché Dio non è oggetto dei sensi», né verso il prossimo «perché amare il prossimo vorrebbe dire mettere in pratica volentieri tutti i doveri verso di esso» (cioè senza sforzo e sacrificio). Nondimeno Kant riconosce nel Vangelo il più alto codice della vita morale. L’autonomia è «la capacità del volere di determinarsi in conformità di una legge propria che è quella della ragione». Fare il dovere per il dovere significa essere sottoposti alla legislazione della ragione, cioè ad una legislazione interna, non imposta alla volontà dal di fuori o dalla propria sensibilità. L’imperativo morale è categorico, cioè assoluto e vincolante, proprio perché fondato su un comandamento della ragione e non su motivi accidentali, sentimentali, soggettivi, esteriori. L’imperativo è un puro dovere, seguendo il quale l’uomo si pone al di sopra di tutto il meccanismo delle cause e degli effetti del suo io e del mondo esteriore. L’autonomia della legge esprime in modo positivo la libertà del volere, appunto perché questa non subisce nessuna imposizione attraverso la sensibilità o una pressione esercitata sulla volontà dall’esterno. «L’intenzione da cui le azioni devono scaturire – ha scritto Kant – non può essere ispirata in noi da nessun comando». Si può imporre il risultato di un’azione, non l’intenzione. Il valore morale è qualcosa che dipende precisamente dal volere autonomo di ciascuno. Chi, invece, agisce per evitare un male temuto o minacciato o lucrare un vantaggio atteso o promesso, può ancora agire in conformità col dovere, ma non secondo un’intenzione morale: egli opera secondo una legislazione «eteronoma». Per essere morale la volontà non deve obbedire che a una legge che scaturisce dall’essenza stessa dell’uomo e della volontà, in quanto volontà di un soggetto morale e razionale. L’etica kantiana dell’autonomia non è dunque che sottragga l’uomo ad ogni legislazione – come pure a torto si è creduto – ma è nient’altro che l’etica dell’intenzione, secondo cui ciò che può essere intrinsecamente buono o cattivo nell’agire è l’intenzione, il principio per cui si vuole in un certo modo.

Sorgono qui due obiezioni che Kant non mancò di rilevare assai prima dei suoi avversari. Può la rettitudine dell’intenzione da sola caratterizzare la vita morale? Dal momento che la legge morale si esprime in noi con un comando, in un imperativo categorico, come può fondarsi sul comando la morale dell’autonomia? Alla prima obiezione si risponde osservando che la rettitudine dell’intenzione non va confusa con il velleitarismo di chi, pur desiderando che il meglio avvenga, si esonera dall’impegno di farlo essere realmente. Queste sono le buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno e non certo le «azioni buone» che animano l’azione morale. L’azione buona non è espressione di un desiderio, ma forma dell’agire, forma del volere. Certo l’intenzione più ferma di agire sempre con volontà buona non basta ad attuare compiutamente ciò che ci si propone; ma tutto quello che si poteva e si doveva fare deve essere fatto. La legge morale kantiana non è dunque fuga dal reale, ma piuttosto continuo sforzo di ricerca, indicazione di un’esigenza da attuare in qualsiasi situazione, modalità interiore autonoma formale universale applicabile ad ogni e qualsiasi contenuto. La distinzione tra «intenzione» e «risultati», se non è connaturale a qualsiasi giudizio pratico, è però specifica del giudizio morale, a partire dalla polemica evangelica contro il fariseismo, polemica che distingueva radicalmente tra la conformità esteriore di un atto alla legge e il valore intrinseco dell’atto stesso. In quella esperienza fondamentale è l’origine prima dell’impostazione data da Kant al problema stesso. Il carattere paradossale insito nella seconda obiezione fu rilevato da Kant. Il dovere ci comanda di essere liberi, impone una coercizione liberatrice, l’obbedienza a una legge razionale e non a una pressione passionale ed esterna. È legge, ma legge della volontà come tale, legge che esprime l’essenza stessa del volere: l’autonomia.

Formalità e universalità della legge morale

La legge morale non può essere che un principio formale, cioè una modalità interiore, una disposizione, un’intenzione, una forma della volontà applicata ai più vari oggetti. La forma morale è l’apriori morale, la legge del dovere nella sua pura universalità. Un’azione morale è senza dubbio diretta sempre verso un oggetto, ma questo non è che l’occasione, la materia, il fine prossimo e relativo dell’azione morale. Non è possibile determinare la legge per mezzo di principi materiali, di oggetti, di beni, dal momento che il nostro fine ultimo è al di là di tutto ciò che entra nell’esperienza sensibile. La materia dell’atto morale è fornita dall’esperienza, ma il vero determinante dell’atto morale è il momento formale della volontà. Ma qual è la forma che caratterizza la volontà morale? La volontà è morale quando si accorda con la volontà degli altri uomini e costituisce con essi una specie di volontà universale unica: la forma della legge è l’universalità. Un principio immorale elevato a legge non può non distruggere se stesso e le condizioni fondamentali del vivere umano (ad esempio il mentire e il rubare). Dall’equazione tra autonomia, o purezza d’intenzione, e rispetto della legge per la forma stessa della legge, dipende la formula che Kant dà all’imperativo categorico (o legge morale): «Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale». Per «massima» si intende il principio a cui si ispira soggettivamente l’intenzione. Questa è l’unica formula che Kant, dopo averla presentata nella Fondazione della metafisica dei costumi, mantenga anche nella Critica della Ragion pratica. Nella Fondazione si trovano altre due formule: «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, che nella persona di un altro, sempre come un fine, e mai come semplice mezzo», e «Agisci in modo che la volontà, con la sua massima, possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se medesima». Tutte formule che si possono compendiare nel detto evangelico: «non fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te». La ricerca morale di Kant sbocca nella concezione del «regno dei fini» che non senza ragione è stata considerata la civitas Dei di Kant, quali che siano le differenze, certamente notevoli, della concezione agostiniana. La totalità dei fini degli esseri ragionevoli, quando si astrae dalle differenze personali e dal contenuto dei loro fini privati, può essere concepita in un nesso sistematico, dovendo gli esseri ragionevoli sottostare tutti alla legge secondo la quale ciascuno deve trattare ogni altro non come semplice mezzo, ma anche come fine in sé. Nella concezione del «regno dei fini», cioè dell’unione sistematica degli uomini mediante l’universale validità della legge morale, il significato mistico della civitas Dei agostiniana viene messo in ombra e «tuttavia – come osserva Nicola Petruzzellis (Maestri di ieri, Giannini Editore, Napoli 1970, p. 445) – non si può dire che venga bandita ogni implicazione religiosa». Infatti Kant distingue nettamente fra capo (Oberhaupt) e membro (Glied) del regno dei fini. «Un essere ragionevole – dice testualmente Kant – appartiene come membro al regno dei fini, non solo in quanto è chiamato a elevare i principi della sua condotta a legge universale, ma anche in quanto è sottoposto a quei principi. Vi appartiene come capo quando egli è legislatore non sottoposto ad alcun altro volere». E precisa senza possibilità di dubbio: «Egli non può tenere il posto di capo solo in virtù della massima della sua volontà, ma solo in quanto è un essere pienamente indipendente, un potere adeguato al volere, senza bisogno e senza limite alcuno» (Fondazione della metafisica dei costumi, parte seconda; nell’edizione dell’Accademia prussiana delle Scienze di Berlino, 1903, vol. IV, pp. 433 – 434).

Kant è un rigorista?

Se per rigorismo si intende una visione che si oppone al lassismo, al principio di una morale rilassata, la severa concezione di Kant è rigorista. Kant accetta il termine «rigorismo» se con quel termine si designa chi non ammette «alcuna neutralità morale (adiaphora) né negli atti né nei caratteri umani». Kant è detto rigorista perché egli giudica le proprietà del temperamento non idonee a costituire l’essenza della moralità. Esse, infatti, possono essere buone sotto un certo aspetto e desiderabili, ma possono diventare anche estremamente cattive e dannose, quando non è buono il volere che deve servirsi delle doti naturali. Distinguere nettamente il dovere dall’inclinazione, dall’istinto, dal calcolo per accertarne la realtà e la presenza è necessario, ma ciò non implica l’inevitabile radicale incompatibilità del dovere con il sentimento, come invece pensano i critici di Kant.

Il poeta Friedrich Schiller, che pure vide nell’etica kantiana il prototipo di ogni morale, non interpretava correttamente il pensiero di Kant quando nel suo noto epigramma, Gewissenscrupel, scriveva: «Ho aiutato volentieri i miei amici. L’ho fatto con inclinazione e per questo spesso ho il rimorso di non essere virtuoso». L’equivoco – che quei versi, così spesso ripetuti acriticamente alimentarono – nasce da un fraintendimento radicale. Kant non ammette alcuna neutralità morale negli atti umani e giudica le proprietà del temperamento non idonee di per sé a costituire l’essenza della moralità.

Kant replicò serenamente a Schiller nella Religione entro i limiti della ragione.

1- Altro è agire con inclinazione (mit Neigung), altro per inclinazione (aus Neigung). L’inclinazione può anche coesistere con il dovere; l’azione etica per essere tale deve avere non in quella, ma solo nel dovere il movente precipuo e determinante. È facile illudersi quando l’accordo tra sentimento e legge morale è spontaneo (ad esempio tendere alla sicurezza economica); perché l’atto sia morale, anche in questi casi, deve essere compiuto per rispetto alla legge, non per inclinazione;

2- Non è lecito assolutamente confondere la serietà dell’impegno morale e il compiere con ripugnanza il proprio dovere, dice profondamente Kant. In tal senso l’insinuazione di Schiller va respinta con forza. Una volontà santa, che non avesse a fare i conti col sistema di bisogni e di stimoli, aderirebbe senz’altro alla legge, che perderebbe ipso facto il suo carattere di intransigente imperatività. La legge morale assume carattere coercitivo rispetto a una sensibilità indocile o ribelle, com’è quasi sempre quella dell’uomo. La volontà santa spetta solo a Dio. Per l’uomo la legge riveste, in linea generale, carattere imperativo e determina la tensione diretta a ostacolare gli eccessi e i difetti della sensibilità naturale. In definitiva Kant nega che su questa terra l’uomo possa accordare talmente la sua natura sensibile con la legge, da diventare una «bell’anima» – secondo l’ideale schilleriano – che compie naturalmente il bene. Kant scrive testualmente: «L’obbedienza servile alla legge non può andare immune da un certo occulto odio verso la legge stessa, mentre il cuore lieto nell’osservanza del proprio dovere è un segno della genuinità della coscienza virtuosa, anche nella sfera religiosa che non consiste nel cruccio del peccatore pentito, ma nel saldo proposito di far meglio per l’avvenire». Senza una gioconda disposizione di spirito, non si è mai sicuri che il bene sia conquistato con amore, cioè assunto nella propria massima. Gli atteggiamenti cupi, stoicizzanti o farisaici, non hanno nulla a che fare con la morale kantiana; non costituiscono un problema di morale, ma di patologia. Kant ci mette dunque in guardia contro il preconcetto che la virtù debba avere un aspetto accigliato.

3- Kant aveva prevenuto l’interpretazione rigoristica della sua dottrina morale già nella prima opera di filosofia morale, la Fondazione della metafisica del costume. In essa si sostiene, ad esempio, che anche la cura del proprio benessere è un dovere: «Assicurare la propria felicità è un dovere, almeno indiretto, in quanto l’insoddisfazione del proprio stato, nella stretta di molte preoccupazioni e in mezzo a bisogni insoddisfatti, potrebbe diventare una grave tentazione di trasgredire i propri doveri». Una cosa è, infatti, agire travolti soltanto dall’inclinazione naturale alla felicità, altro è perseguire anche la meta del benessere in quanto la sua mancanza può ostacolare gravemente il compimento dei propri doveri. Anche questa osservazione umanissima ci autorizza a concludere che se al termine «rigorismo» si vuol conferire il significato di rigidità, astrattezza, incomprensione della vita, il rimprovero di rigorismo a Kant, ancora oggi così ossessivamente in circolazione, è del tutto infondato. (Bisogna osservare che la tesi kantiana non è nuova, e ha precedenti nel pensiero cristiano. Basti ricordare Anselmo: «Voluntas iusta est, quae suam rectitudinem servat propter ipsam rectitudinem» – De veritate, cap. XIII).

Morale cristiana ed etica kantiana

Il problema dell’autonomia della legge morale. La legge morale conserva un carattere peculiarissimo, che induce a domandarci la sua origine e il suo perché. Accettarla come puro fatto della ragione, come una necessità avvincente non si sa come la coscienza umana, è un atteggiamento che, mentre soddisfa il pensiero, lascia la legge morale più che mai esposta ai tentativi di attacco o di obliterazioni risorgenti dal fermentante humus della dialettica naturale. Una necessità che ostacoli il corso delle inclinazioni e delle passioni e si sottragga ad ogni verifica dei suoi poteri, a ogni esauriente giustificazione, e rimanga pertanto impervia al pensiero, genera presto o tardi il tentativo di eluderla e di svincolarsene. Richiamare l’uomo alla dignità di legislatore è monito altissimo, ma destinato a rimanere privo di efficacia, quando della legislazione morale, che l’uomo deve allo stesso tempo promulgare ed imporsi, non si sappiano dare ragioni obiettive e perentorie. Il criticismo, che nella sfera teoretica minaccia di chiudersi nel mondo dei fenomeni, nella sfera pratica tende a irrigidirsi nella preoccupazione dell’autonomia, così da dare per lo meno l’impressione di ridurre la legge alla cieca inesplicabilità di un fatto di ragione, onde un elemento irrazionale viene in tal modo ad inserirsi in quella che è l’espressione più alta della razionalità umana. L’autonomia rimane un concetto basilare dell’etica se con essa si vuole esprimere e significare soltanto la libera autodeterminazione della ragion pratica e la conseguente inviolabilità della coscienza (cfr. Tommaso D’Aquino, Summa, I, II, qu. XIX, 5), ma diventa una base oscura e incerta quando con essa si intenda riporre nell’astratta universalità dello spirito umano la fonte prima ed esclusiva del principio morale.

Il tentativo kantiano di una superiore giustificazione della legge morale. Come nel campo teoretico, così in quello etico la profonda finezza speculativa e il vigile senso dei valori spirituali conducono il filosofo di Königsberg molto al di là delle sue premesse criticistiche. Kant sente di non potersi esimere da una superiore giustificazione della legge morale, inquadrandola «in un più alto e immutabile ordine delle cose». L’incertezza della dottrina dei postulati della ragion pratica non deriva da una caduta grossolana nell’eteronomia, attribuita a Kant da alcuni critici, ma piuttosto dalla problematicità in cui si avvolgono le tesi kantiane per le permanenti riserve del criticismo. Le difficoltà e le incongruenze formali cui andava incontro Kant, quando cercava di soddisfare esigenze che nel sistema critico dovevano necessariamente configurarsi come opposte o quanto meno mal conciliabili, e la necessità da lui potentemente sentita, malgrado quelle, di stabilire comunque un rapporto tra l’attività morale umana e un supremo Legislatore, confermano che non è possibile risolvere il problema morale prescindendo da Dio.

L’uomo promulga in sé la legge morale, ma questa legge non si intende se non in un ordine universale che non può trovare nell’uomo il suo principio. L’uomo promulga in sé la legge morale quando elegge l’orientamento costante della sua vita, dà prova della sua autonomia, quando la sua volontà non si lascia determinare da fattori estrinseci; ma non può rivendicare a sé l’origine prima della legislazione morale. Se noi, infatti, abbiamo coscienza della nostra libera causalità nella particolare osservanza alla legge, non l’abbiamo di quell’atto assoluto di posizione, cui si deve poter ricollegare il principio originario della legislazione morale e al quale va inseparabilmente connessa la creazione di un ordine morale dell’universo. La legge morale resta inesplicata quando se ne cerca la fonte esclusiva e primaria nell’uomo che, se la ripromulga per conto suo e la elegge a signora della sua vita, lo fa perché vi riconosce un valore intrinseco oggettivo. Né si parli di una natura umana in generale o dell’universalità dello spirito, astratte ipotesi che farebbero della suprema razionalità della legge il prodotto o la manifestazione di un insondabile inconscio o dell’ombra torbida del subcosciente. Se noi partiamo dalla coscienza umana per rilevarvi il fatto della legge e il sentimento del suo altissimo e singolare valore, dobbiamo – se non vogliamo depauperare questa medesima legge di ogni vitale e spirituale efficacia, abbassandola al livello di un qualsiasi dato naturale o psicologico – cercare la sua origine e, con questa, la garanzia del suo valore razionale in un principio superiore, visto che l’uomo, considerato sia come individuo che come umanità, non sa e non può renderne ragione.

Il giudizio di Étienne Gilson. La morale di Kant non è forse altro che una morale cristiana senza la metafisica cristiana che la giustifica; la rovina ancora maestosa ma cadente di un tempio di cui si sono scalzate le fondamenta. Queste critiche non devono però far sottacere i meriti di Kant, che si possono così sintetizzare: affermazione del primato della ragione, specificità dei valori morali irriducibili a qualsiasi altro valore; confutazione definitiva dell’utilitarismo e dell’edonismo.

Il formalismo kantiano. Consiste nell’affermazione che la legge morale vale per la sua forma (che sta per universalità) e non per ciò che essa comanda (cioè materia, oggetto, fine). Se invece la legge morale è determinata da un oggetto (fine o materia) allora è fondata sul piacere. Le osservazioni critiche del formalismo kantiano da parte cristiana sono tre. Kant concepisce arbitrariamente il fine solo come empirico oggetto di tendenza sensibile, mentre la beatitudine o fine ultimo va concepita come la più alta perfezione dell’uomo, la cui essenza specifica è proprio nella ragione. Inoltre Kant identifica arbitrariamente – lo nota Max Scheler – la materia dell’atto morale con un oggetto sensibile datoci empiricamente, applicando alla morale il pregiudizio gnoseologico della negazione di un’intuizione astrattiva intellettuale; ma la ragione con l’essenza scopre anche il valore di un essere colto nella sua intelligibilità. Infine la legge morale è legge materiale, perché mi comanda di attuare determinati valori; trae la sua forza normativa dal fine che persegue e tuttavia non è legge empirica, perché fondata sui rapporti necessari che sussistono fra la natura umana e l’essenza di certi beni. Il raggiungimento della più alta perfezione umana necessariamente porterà con sé, nella concezione cristiana, la più alta gioia. La gioia non è quindi una specie di risarcimento dei danni che Dio ci darà per le fatiche che ci siamo assunti nell’osservanza della legge morale, ma è una conseguenza della più alta perfezione che avremo conseguita con l’attività morale (cfr. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, Marzorati, Milano 1945, p. 192).

L’errore kantiano è nell’aver posto un «imperativo» senza un «giudicativo». L’ordine universale non è un assoluto, ma esige di essere fondato sopra un principio assoluto che lo disponga e lo mantenga. L’affermazione ontologica dell’assoluto trascendente è il presupposto indispensabile dell’atto morale; senza un giudicante divino che dica «io sono, io creo» non c’è assoluto che possa rivolgerci il comando: «Conformati a ciò che io ho creato, mantieni l’ordine della creazione». Søren Kierkegaard, in un testo maturo del 1850, aveva notato come, senza un «terzo» trascendente, che stia fuori e costringa, l’autoraddoppiamento effettivo dell’io che emana la legge morale e nello stesso tempo la impone a se stesso sia impossibile e si riduca a un’illusione, o a un semplice sperimentare. Kant credette che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonomia), cioè che leghi se stesso sotto la legge che si è dato da sé. Ma questo porta in realtà, in un senso più profondo, alla soppressione di ogni legge ovvero allo sperimentare puro. La situazione sarà tanto poco seria come tanto poco forti erano i colpi che Sancio Pancia si dava da sé. Se il principio che lega non è qualcosa di più alto dell’io, devo essere io a legare me stesso: donde io allora, nella condizione di A (che lega), potrei prendere la severità che io non ho come B (colui che deve essere legato), se A e B sono il medesimo io? La «costrizione» di cui parla Kierkegaard è di natura metafisica e non psicologica: indica l’inserzione e la dipendenza della regola umana dalla legge e dalla verità eterna ed è un’espressione per indicare che l’uomo è un’essenza dialettica e che per salvarsi deve essere più che uomo. Qui nasce il momento religioso, ma quello dell’esigenza metafisica precede la religione ed in qualche modo giudica e vaglia la religione stessa (cfr. Cornelio Fabro, «L’uomo», in Giuseppe Ricciotti, Dio nella ricerca e il problema di Dio, Colletti, Roma 1950, p. 55).

LA CRITICA DEL GIUDIZIO

Giudizio determinante e giudizio riflettente

La Critica della Ragion pura ha concluso che ci può essere scienza solo nel mondo sensibile, fenomenico; la Critica della Ragion pratica ci ha rivelato l’esistenza di un regno della libertà, sottratto al determinismo dei fenomeni fisici, quindi sovrafenomenico. Tra i due mondi c’è un abisso immenso, non c’è passaggio. L’uomo si trova in queste condizioni: non oltrepassa il mondo fenomenico nel campo della conoscenza, ma è chiamato ad attuare la legge morale, che è l’irruzione del noumeno nella vita stessa.

Nonostante questo abisso tra i due mondi, il mondo intelligibile (noumenico) deve avere un influsso su quello sensibile, perché la libertà possa attuarsi. Quel noumeno che sta a fondamento del mondo naturale deve essere quella stessa realtà con la quale l’uomo viene a contatto nella vita morale. L’Assoluto, cioè il capo del regno dei fini, è il principio anche della realtà naturale, la quale deve poter essere appresa come realtà intelligibile. Il giudizio è appunto la facoltà di apprendere la natura come intelligibile, considerandola da un punto di vista diverso da quello delle scienze e affine a quello della moralità, che si configura appunto come un regno dei fini. La facoltà del giudizio ci permette di cogliere nella natura una finalità.

Il problema della terza critica, la Critica del Giudizio (1790), si configura nei seguenti termini: se è possibile rappresentarci la natura come se (als ob) ci sia un intelletto che contenga il principio capace di conferire unità alle sue molteplici leggi empiriche. Vi sono dei casi in cui la natura stessa sembra suggerire questo più alto criterio di giudizio: ad esempio negli organismi viventi e nel campo della bellezza estetica, ciò che giudichiamo bello sembra intenzionalmente disposto in vista del fine estetico da realizzare.

È facile scorgere nella prima e seconda critica preludi e indizi delle tesi svolte nella terza critica: il concetto di finalità, l’idea di una struttura razionale del mondo ha avuto un peso notevole nella dottrina di Kant; la dottrina del valore regolativo delle idee della ragione; le considerazioni, piene di rispetto, per la prova fisico-teleologica; la teoria dei postulati metafisici della ragion pratica.

Giudicare significa sussumere un particolare sotto un universale. Ci sono due modi di giudicare: il giudizio determinante, che è proprio dell’intelletto; il giudizio riflettente, che è proprio della facoltà del giudizio.

Un giudizio è determinante quando l’universale è già dato sotto forma di regola o legge a priori (le categorie dell’intelletto). L’intelligibilità che è data alla natura dai concetti dell’intelletto non nasce dal molteplice delle intuizioni stesse, che sarebbe per sé una massa inintelligibile di impressioni, ma è inquadrato nei nostri concetti; per questo gli oggetti che risultano dalla sintesi sono fenomenici, perché quei concetti non possono attestare l’intelligibilità di una materia che è loro estranea.

Un giudizio è riflettente quando è dato il particolare, ma l’universale in cui bisogna pensarlo non è prefissato, ma va trovato. In questo caso il valore di ciò che è oggetto del giudizio riflettente non dipende da una regola estrinseca, ma è la cosa stessa che serve in certo modo di regola a se stessa. La facoltà del giudizio cerca anche nel molteplice delle intuizioni empiriche un vestigio di intelligibilità, intrinseco alle cose stesse. E questo è appunto il caso delle opere d’arte, belle non perché obbedienti a un canone esterno, ma perché rispondenti a un’esigenza interiore, peculiare a ciascuna opera nella sua individualità. È anche il caso della finalità naturale, poiché per essa l’oggetto è organizzato in vista di un fine interno.

La facoltà del giudizio è dunque una terza facoltà, oltre l’intelletto e la ragione; essa ci rende possibile l’apprensione extrateoretica della intelligibilità del reale, cioè della finalità (poiché dire che un ente è fatto per un fine equivale a dire a dire che è fatto secondo un’idea, che porta il vestigio di un’intelligenza). La facoltà del giudizio è la facoltà intermediaria (Mittelglied) tra intuizione sensibile, intelletto e ragione. Il suo oggetto inattingibile con le sole categorie dell’intelletto, è presente alla nostra coscienza di esseri spirituali, ed è vissuto nel sentimento disinteressato e puro che da quella coscienza deriva.

Elementi costitutivi e caratteri specifici del bello

Il punto di partenza della critica del giudizio estetico è analogo a quello delle altre due critiche: come sono possibili giudizi estetici con valore universale?

Per il razionalismo di tipo leibniziano, qual era quello di Alexander Gottlieb Baumgarten, l’universalità dei giudizi estetici si fondava sulla perfezione dell’oggetto confusamente percepita. La conoscenza del bello appartiene alla sfera sensibile e per questo Baumgarten la chiamò «estetica» dal greco aisthesis, sensazione. La conoscenza del bello fa tutt’uno con la conoscenza sensibile ed è pertanto di grado inferiore rispetto alla conoscenza intellettuale. Il Baumgarten definiva l’estetica gnoseologia inferior e in tal modo distingueva e non distingueva la forma fantastica da quella intellettiva, trattandola come cognitio confusa, fornita peraltro di una sua propria perfezione e posta in rapporto col sentimento della perfezione dell’oggetto confusamente conosciuto.

Anche l’empirismo nega ogni differenza specifica fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva, ma a beneficio della sensibilità. A pura sensibilità si riduce anche l’intuizione del bello. Pertanto la tesi empiristica non spiega la differenza tra il giudizio estetico, che tende ad essere condiviso da tutti, e l’impressione soggettiva, che si radica su uno stato biologico e su un interesse puramente animale.

Il bello per Kant non è una proprietà delle cose per sé considerate, ma scaturisce dal rapporto delle cose con noi. È una qualità che attribuiamo alle cose valutandole in rapporto con il sentimento di piacere o dispiacere che le loro immagini suscitano in noi. Due sono pertanto gli elementi costitutivi della bellezza: l’immagine o rappresentazione e il sentimento. Rappresentazione e sentimento sono i due aspetti di una stessa attività sensibile, che prende il nome di gusto. Il gusto è l’atto mentale che istituisce il rapporto tra immagine e sentimento. Il gusto si distingue dal giudizio conoscitivo, perché non ha per scopo di valutare l’immagine in rapporto all’esistenza e alle proprietà oggettive delle cose da essa rappresentate, ma in rapporto a un sentimento del soggetto.

Tre sono i caratteri specifici del bello che Kant ha individuato.

Bello è ciò che piace universalmente senza interesse. Bello non è ciò che comunque piaccia, ma solo ciò che piace universalmente e senza interesse utilitario. Ogni interesse è legato all’esistenza di una cosa e al rapporto che essa ha con me in quanto animale; il piacere del bello è invece disinteressato. Va oltre il piacevole sensibile immediato (il cui scopo è il godimento della cosa che ne è oggetto); oltrepassa l’utile e il buono, perché oggetto di un piacere puro, disinteressato, circoscritto al vagheggiamento della rappresentazione in quanto tale (critica dell’estetica utilitaristica).

Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Il bello è ciò che è rappresentato senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale. Il piacere del bello è sciolto da ogni vincolo con gli interessi individuali che potrebbero particolarizzarlo; esso pertanto vale per tutti. Esige l’universale consenso non sulla base di un ragionamento, ma in virtù di un’identica capacità di porsi in una disposizione sentimentale disinteressata, pura. Non vale per il bello l’adagio, che è quanto mai appropriato per il mero sensibile, che ognuno ha i suoi gusti e che sui gusti non giova disputare. Il giudizio estetico non è una specie di scienza inferiore, è di tipo diverso dal giudizio conoscitivo. Kant rivendica in tal modo l’autonomia del giudizio estetico contro l’estetica intellettualistica. Il sentimento di piacere estetico è la consapevolezza che l’immagine della cosa bella armonizza con l’intelletto, è la coscienza di un’armonia fra l’immaginazione e l’intelletto. C’è nel giudizio estetico il «libero gioco delle facoltà conoscitive». C’è nell’intuizione estetica una straordinaria ricchezza di immagini che non può essere derivata da un concetto e compresa in un concetto: per questo abbiamo bisogno dell’aiuto dell’artista se vogliamo cogliere l’unità misteriosa che sta a fondamento di tutta quella ricchezza. Tuttavia l’idea estetica non può mai tradursi in conoscenza, anche se la sintesi di immagine e sentimento ci permette di pensare, in rapporto ad un concetto dato, molte cose che solo il sentimento può esprimere.

Bello è ciò che ha la forma della finalità, ma senza la rappresentazione di un fine. Finalità significa rispondenza di una cosa al concetto che di essa ha la causa produttrice della cosa stessa. C’è finalità in un oggetto artificiale prodotto secondo un’idea (l’orologio). Così, se si afferma che c’è finalità nella natura, si vuol dire che la natura risponde a un’idea che presiedeva alla creazione della natura stessa. In campo estetico si può percepire una finalità senza uno scopo determinato, si percepisce che una cosa è intelligibile, ma senza sapere a quale idea precisamente essa risponda. L’apprensione extrateoretica del bello si accompagna a un senso di pienezza, di agio; ma se analizziamo questa impressione troviamo che nessun fine determinato può renderne ragione.

Bellezza libera e bellezza aderente

Il principio che nel giudizio estetico non entra il concetto è attenuato da Kant con la distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente.

La bellezza libera è appresa con un puro giudizio estetico. È un piacere suscitato da un contemplare, ma non è esprimibile in un concetto. Tuttavia non sono molti gli esempi di bellezza libera (musica senza parole, fiori, uccelli, conchiglie, disegni ornamentali, ecc.).

La bellezza aderente è quella nella cui appercezione entra anche il concetto, anche se l’intuizione estetica reca in sé una ricchezza di immagini che non può essere compresa in un concetto adeguato. Tuttavia è impossibile, ad esempio, giudicare bello un uomo, un animale, un edificio senza sapere anche quale sia il suo scopo, senza avere un concetto di esso. Nei giudizi: «quella chiesa non è bella perché troppo civettuola», «quel guerriero non è bello perché troppo effeminato», «il tatuaggio non è bello perché urta contro la dignità dell’uomo» entrano i concetti di chiesa, guerriero, uomo.

Il concetto che ci guida nei giudizi estetici sulla bellezza aderente è quello della perfezione dell’oggetto, e la perfezione non è data nell’esperienza, è un’idea di ragione. Ma tale idea non è appresa dalla ragione in universale, non può essere definita da un principio, da una legge, da una regola: può essere solo intuita in un esempio concreto in cui si accordi il giudizio estetico di tutti. Quegli esempi concreti nei quali si accorda il gusto di tutti gli uomini, a proposito dei quali è pienamente raggiunta l’universalità del giudizio estetico, sono gli ideali della bellezza. L’ideale è l’idea incarnata in un esistente singolare; ora è proprio una caratteristica del bello quella di rappresentare un’idea sì, ma non esprimibile in concetti, una finalità sì, ma senza che appaia lo scopo determinato. L’idea estetica è quella che si apprende nel singolare, attraverso il sentimento dell’accordo fra l’immaginazione e l’intelletto, il che è quanto dire: l’idea estetica è quella che si coglie non in se stessa, ma in un ideale, in un esempio concreto, quando di esso si può dire (quando tutti gli uomini si accordano nel dire): ecco la bellezza.

L’ideale non può esserci per la bellezza libera, ma solo per la bellezza aderente, poiché solo nell’apprensione di questa è presente un concetto. E non di qualsiasi bellezza aderente può esserci un ideale, ma solo della bellezza umana, poiché l’uomo è l’unico ente sensibile che porti in sé una realtà intelligibile, che abbia in sé, ossia nella propria perfezione morale, lo scopo della sua esistenza.

Se l’arte è creazione di bellezza, come si spiega l’innegabile presenza del brutto nell’arte? Una constatazione del genere non mette in discussione il bello come suprema finalità dell’arte?

Le ipotesi di spiegazione avanzate dopo Kant sono:

– la presenza in arte del brutto serve meglio a far risaltare il bello;

– un carattere è o diviene bello nell’atto stesso di essere colto o espresso nella sua spontaneità (Francesco De Sanctis);

– il brutto e il repellente sono l’oggetto proprio dell’arte. Tersite e Jago sono i veri personaggi che popolano il mondo dell’arte e Flaubert aveva ragione a dichiarare che sentiva disgusto delle creazioni della sua fantasia di romanziere (Giuseppe Rensi).

Secondo Kant in arte non abbiamo il brutto ut sic, né il brutto dissolto nel bello, avendo il contenuto ricevuto vita artistica dalla forma, ma semplicemente la rappresentazione bella del brutto.

Bello naturale e bello artistico

Una caratteristica dell’estetica kantiana, che non si ritroverà nell’estetica di Hegel né in quella di Croce, è l’importanza data alla bellezza della natura. Nel gusto per la bellezza della natura si manifesta, secondo Kant, la connessione tra il sentimento estetico e quello morale, connessione che può invece mancare nell’apprezzamento della bellezza artistica. Kant osserva che, mentre il gusto artistico può esserci anche in uomini frivoli, poco elevati moralmente, il gusto per la bellezza della natura suppone invece sempre una certa nobiltà d’animo. E cerca di spiegare questo fatto così: il sentimento morale è un sentimento di rispetto, di ammirazione per il mondo intelligibile. «Ma siccome interessa anche la ragione che le idee (per le quali essa produce nel sentimento morale un interesse immediato) abbiano una realtà oggettiva vale a dire che la natura mostri almeno qualche traccia, dia qualche cenno di un suo principio, per il quale possiamo ammettere un accordo regolare dei suoi prodotti con il nostro piacere indipendentemente da ogni interesse […], la ragione dovrà prendere interesse per ogni manifestazione della natura che esprima un simile accordo; e per conseguenza l’animo non può riflettere sulla bellezza della natura senza trovarvisi nello stesso tempo interessato. Ma questo interesse ha un’affinità con quello morale, e colui che prende interesse al bello della natura non ne sarebbe capace se prima non avesse avuto un solido interesse per il bene morale». Il che vuol dire: la bellezza è un indice di razionalità nel mondo sensibile, e l’interesse per la razionalità del mondo è un interesse morale.

Di fronte al bello di natura, noi avvertiamo come la presenza di un disegno intenzionale, per cui l’oggetto bello ci si configura come un’opera d’arte.

Viceversa, di fronte a un’opera d’arte, che esegue un disegno intenzionale, noi sentiamo che allora veramente essa è bella, quando quella intenzionalità si oblitera, e l’oggetto sembra una creazione spontanea della natura.

Riunendo le due qualità, che paiono in contrasto, ma sono convergenti, possiamo dire che nel bello, di natura o di arte, bisogna che il fine vi sia e non vi sia, vi sia come se non vi fosse, cioè che l’intenzionalità e la spontaneità siano talmente fuse insieme, che la natura sembri arte e l’arte natura.

Il genio artistico è una facoltà innata, una forza produttiva analoga a quella che opera in tutta la natura, il cui precipuo carattere è la spontaneità.

Esso non procede in maniera riflessa, per concetti o regole intenzionalmente predisposti, perché allora il prodotto sarebbe utile o buono, ma non bello. Nel bello infatti si realizza una finalità senza fine, una regolarità non consapevole della regola a cui si obbedisce. E tale è appunto quella che la natura dà al genio. In quanto è originalità, il genio contrasta con lo spirito di imitazione. Nella scienza è possibile indicare e seguire il procedimento metodico della ricerca; non così nell’arte, dove tutto dipende da una facoltà nativa non comunicabile e non consapevole delle sue regole. Perciò non ci sarebbero dei veri geni scientifici, ma solo dei grandi ingegni. Il genio vero e proprio sarebbe un privilegio dell’arte.

Bello e sublime

Le discussioni intorno al sublime furono introdotte nella storia dell’estetica dal trattatello adespoto (cioè senza padrone, anonimo) Dello stile elevato attribuito al retore Cassio Longino del primo secolo dopo Cristo. L’autore del trattatello ellenistico osserva che non è sublime ciò che non va oltre l’udito e che la sublimità è l’eco di una grande anima.

Il trattatello ellenistico fu lungamente commentato e ripreso nei secoli. Tra i moderni riaprì la discussione sul sublime Edmund Burke col suo celebre Saggio sul sublime e sul bello (1756). Per Burke nell’uomo si intrecciano due istinti: quello sociale e quello di conservazione. Il bello favorisce il primo, produce piacere, attira all’unione. Quando una grandezza immane colpisce la nostra immaginazione, senza tuttavia minacciare il nostro benessere, si desta in noi la reazione dell’istinto di conservazione e con essa il sentimento del sublime, che è una specie di orrore piacevole.

Kant riprese la trattazione del bello e del sublime con ben altra potenza speculativa. Prima che nella terza critica, ne aveva parlato nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764).

– Bello e sublime si accordano nel fatto che entrambi piacciono per se stessi; presuppongono non un giudizio determinante, ma un giudizio riflettente; sono legati all’immaginazione considerata in accordo con l’intelletto e la ragione.

– Il bello implica il riferimento alla forma e quindi al limite dell’oggetto; il sublime si riferisce a un oggetto senza forma né limite.

– Il piacere suscitato dal bello consiste in un’espansione del tono vitale e può andare congiunto con le attrattive dell’immaginazione. Il piacere prodotto dal sublime consiste nel sentimento di una momentanea sospensione del tono vitale, a cui succede una più forte espansione, ed è qualcosa di serio. L’animo è respinto e attratto dall’oggetto, alternativamente, ed è pervaso da una sorta di godimento fatto di meraviglia e di stima.

– Nel bello l’oggetto appare commisurato al nostro giudizio; il sublime trascende i nostri poteri rappresentativi e colpisce potentemente l’immaginazione senza che questa possa adeguatamente abbracciarlo ed esprimerlo.

– Il giudizio estetico sul bello riferisce il libero gioco dell’immaginazione all’intelletto, pur senza determinare i concetti con i quali accordarsi. Il giudizio sul sublime riferisce l’immaginazione alla ragione per accordarla con le idee di questa.

– La rappresentazione del bello produce una contemplazione calma, mentre la rappresentazione del sublime è commossa. Osserva Guido De Ruggiero: «In questa notazione si compendiano, rispettivamente, il concetto romantico del sublime e quello classico del bello» (Da Vico a Kant, Laterza, Bari 1941, p. 414).

L’influenza del Burke sopravvive nel riferimento del sublime alla grandezza, alla potenza, all’immanità. Kant nella Critica del Giudizio definisce il sublime «ciò che è assolutamente grande», ossia «ciò che è grande al di là di ogni comparazione». La grandezza del sublime non ha dunque nulla a che fare con la categoria della quantità, poiché la quantità concepibile dall’intelletto non è mai assoluta, è sempre suscettibile di aumento, perché è finita. La grandezza del sublime non è dunque appresa oggettivamente dall’intelletto, ma soggettivamente dal giudizio.

Assolutamente grande è ciò rispetto al quale ogni altra cosa è piccola ed è l’immaginazione che prolunga, come si suol dire, all’infinito i limiti di una grandezza data.

Kant distingue due forme di sublime:

– il sublime matematico è suscitato dall’immane grandezza (ad esempio, il cielo stellato sopra di me);

– il sublime dinamico è suscitato dal dispiegamento della potenza della natura (ad esempio, l’eruzione di un vulcano o la furia degli elementi in una tempesta).

Grandezza e potenza della natura concernono più ciò che dà occasione al sentimento del sublime che non il sublime stesso. L’oggetto, a cui noi attribuiamo la sublimità, è in realtà solo ciò che dà all’immaginazione la spinta a proseguire all’infinito, superando ogni misura dei sensi. La vera sublimità dev’essere cercata solo nell’animo di colui che giudica e non nell’oggetto naturale, che suggerisce il giudizio e il connesso stato d’animo. (Tuttavia il passaggio dalla percezione della grandezza materiale al sentimento dell’infinito rimane in Kant assai lacunoso e oscuro. Nel nostro animo, infatti, non c’è l’intuizione dell’infinito, ma l’intuizione estetica fa grandeggiare la commossa aspirazione all’infinito).

Sviluppi della concezione del bello e del sublime

Friedrich Schiller approfondisce l’antitesi. Il bello ci trattiene nel sensibile, il sublime ce ne fa evadere mettendo a nudo la contrapposizione tra uomo fisico e uomo morale.

Arthur Schopenhauer: il bello non conosce il dissidio interiore, il sublime invece lo implica, pur aiutandoci a superarlo nella serena contemplazione.

Friedrich Schelling perviene alla conclusione che nella loro assolutezza bello e sublime si comprendono, si implicano a vicenda. Se il sublime non fosse anche bello, sarebbe semplicemente immane o mostruoso.

Benedetto Croce: se il sublime è un più bello, non ha ragione d’essere; ogni differenza quantitativa è irrilevante per una considerazione filosofica.

Nicola Petruzzellis: «Sublime è ciò che suscita in noi, con maggior potenza di commozione e più pronta immediatezza di suggestione, il sentimento dell’infinito». Il sentimento dell’infinito non dipende essenzialmente dalla immensità e dalla potenza. Non è l’immensità in quanto tale che ci commuove, ma l’immensità che palpita di bellezza, che tradisce il vestigio di una più alta spiritualità, verso cui la personalità umana, anche inconsciamente, si protende e si eleva, ed elevandosi si sublima. Il sublime non si può escludere dalla sfera estetica, ancorché abbia in questa un aspetto etico, e possa di là da essa illuminare di sé le vette dell’eroismo morale.

Bello e sublime caratterizzano due momenti distinti nell’attuarsi di uno stesso valore. Concesso alla natura, il sentimento del sublime può sfolgorare nell’arte con mezzi più sobri. L’arte robusta e fiammante di Dante molte volte tocca il sublime; eppure mai l’alta fantasia si sublima nei vertici della poesia come nell’esprimere la sua umana limitazione.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.