In spirito e verità

Voce del Popolo, 12 giugno 1981.

Nei giorni che seguirono l’Ascensione, gli apostoli riuniti nel raccoglimento, nella meditazione dei recenti avvenimenti, nell’attesa dello Spirito promesso, nella preparazione all’immensa missione, che il Maestro aveva loro espressamente affidata, si erano ritirati nel Cenacolo. In quel luogo, in cui era stata istituita la vera Pasqua, l’Eucarestia, essi perseveravano nella preghiera, nell’attesa, nel fervore. Era con loro Maria, la madre di Gesù.

Il decimo giorno dopo l’Ascensione cadeva la Pentecoste ebraica, la festa delle messi. Quel giorno lo Spirito del Signore si manifestò agli apostoli e fu la Pentecoste cristiana, il passaggio dalla figura alla realtà, dalla preparazione remota all’avvento decisivo. Cominciò allora la più grande avventura che la storia conosca. Cominciò allora la più bella e necessaria di tutte le semine. Il messaggio della salvezza passava da Israele a tutta l’umanità. Giungeva il momento, annunciato da Gesù alla Samaritana, di adorare Dio «in Spirito e Verità», superando l’ostilità farisaica e ogni chiusura di sesso, di razza, di classe, di nazionalità. L’antica legge di Mosè è assunta e superata dalla nuova legge di Cristo. «Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità – scrive Giovanni nel Prologo -sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (1,17), dalla cui pienezza noi tutti tutto abbiamo ricevuto e riceviamo.

Lo Spirito Santo consacra e santifica gli apostoli di Cristo e rende ad essi comprensibile la dottrina del Maestro, secondo quanto Gesù aveva detto: «Lo Spirito non parlerà di sé stesso, ma vi ricorderà tutto ciò che io vi hi detto» (Giov. 16,33, 14,26). Quel giorno, nel Cenacolo, cominciò una nuova storia. Alle nove del mattino, l’ora della lucidità della mente e della forza di attenzione, e poi nella miracolosa trasmissione simultanea dell’annuncio evangelico a genti diverse per lingua, cultura, tradizioni etniche, nasceva la Chiesa, l’erede del Regno promesso al popolo di Dio, il secondo Israele, l’organo permanente della Buona Novella.

Lo Spirito Santo è inviato nei cuori dei singoli discepoli, in cui depone, nutre, fa fruttificare il germe divino dell’adozione sovrannaturale, come scrive S. Paolo nella Lettera ai Romani (VIII, 15) «Avete ricevuto lo Spirito di adozione di figli, lo Spirito nel quale chiamiamo Dio: Abba-Padre». E tuttavia lo Spirito non è mandato ai discepoli se non quando essi sono riuniti nella pregheria e nell’amore. Gesù l’aveva detto: «Quando due o tre sono riuniti nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Mt,18,20). Lo Spirito Santo è dato dunque a ognuno di noi, ma quando siamo riuniti, quando siamo Chiesa che prega, soffre, crede, combatte e spera.

La Pentecoste è dunque, contemporaneamente, inabitazione dello Spirito alle anime dei singoli credenti ed è professione pubblica di fede, obbligo di testimonianza pubblica, partecipazione alla comunità dei credenti, «congregatio fidelium», senso della Chiesa. La Pentecoste è come la Chiesa che da essa nacque, immediatezza e mediazione, ispirazione e istituzione, dono di libertà spirituale ed esigenza di disciplina e di unità. È interiorità ed è espressione oggettiva e sensibile di essa, è ascolto personale della voce dello Spirito ed è annunciazione di essa ai fratelli, è conversione misteriosa del proprio cuore, metanoia, ed è missione, annuncio pubblico della parola di Dio ai fratelli, come agli indifferenti e agli stessi avversari. L’uno e l’altro aspetto sono costitutivi dell’autentica realtà cristiana e sono inseparabili, a tal punto che dimenticarne o rifiutarne uno significa disintegrare la Chiesa e disperdere il senso stesso del messaggio evangelico.

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In questo nostro tempo le possibilità nullificatrici dell’esistenza hanno registrato uno sviluppo imponente. Occorre, dunque, un’opera di risveglio delle coscienze, di restituzione dell’uomo alla dimensione interiore, di liberazione dalla menzogna che mutila e aliena. E chi, chi se non la Chiesa che annuncia Cristo, potrà svolgere un’opera tanto immensa in cui, ancora una volta, l’evangelizzazione diventa anche promozione umana e salvezza dei valori universalmente umani?

Newman aveva detto: «Giungerà il momento in cui solo la Chiesa difenderà l’uomo e la cultura». E noi aggiungiamo: la vita, il diritto alla vita. Sarà ancora una volta la Chiesa a civilizzare i nuovi barbari, a essere l’area di salvezza per l’umanità che rischia di auto distruggersi. Sarà ancora una volta il divino che salva l’umano.

È un compito esaltante ed è un servizio a cui non possiamo sottrarci. Ma, per adempierlo, noi cristiani dobbiamo riconquistare una rigorosa, lucida, robusta coscienza della nostra identità. Dobbiamo unire fede e opere, cultura e testimonianza, vita interiore e lotta coraggiosa, in campo aperto, per le verità di cui siamo convinti e per i diritti inalienabili dell’uomo in quanto tale.

La Chiesa e l’umanità hanno bisogno di cristiani che siano sé stessi, perché ogni punto di riferimento che sia preciso è un bene ed uno stimolo per tutti, credenti e non credenti. Ci vogliono cristiani che siano teste pensanti, cuori ardenti e non idolatri delle mode e dei miti di turno. A nessuno deve esser lecito scambiare il confronto con la resa, l’aggiornamento col tradimento, l’apostolato con l’apostasia, l’apertura magnanima con la dispersione e l’insignificanza. La Chiesa e la stessa società civile hanno bisogno di cristiani che facciano proprie le parole degli apostoli poco dopo la Pentecoste nell’affrontare i rischi della predicazione evangelica: «non possumus non loqui. Non possiamo tacere: è meglio obbedire a Dio che agli uomini». (Atti, 2, 19-20).

Se però il male, la confusione, la viltà, quello che Newman chiamava «lo spirto di Saul» hanno la loro parte nelle vicende umane e nella vita stessa della Chiesa, non mancano motivi di ringraziamento al Padre. Il progresso nella presa di coscienza del Vangelo è stato grande in questi anni e ha trovato una splendida sintesi dei suoi acquisti nel Concilio e nel rinnovamento che ne è seguito.

L’acquisizione della libertà come idea direttrice della sapienza cristiana è diventata definitiva. Il dialogo ecumenico si è fatto sempre più ampio e profondo. La consapevolezza della dignità della donna e dell’amore si è accresciuta meravigliosamente. La liberazione della Chiesa da ogni fardello temporale si va compiendo nel momento stesso in cui si afferma e si benedice la missione temporale dei laici cristiani (i preti dovrebbero avere altro da fare). C’è poi il messaggio che ci viene dalla vita esemplare di tanti sacerdoti, di ogni età, che non fanno parlare di sé i mass media, non sono intervistati dai settimanali di punta, non chiacchierano di «superamento dialettico», ma continuano ad esercitare le quattordici opere di misericordia corporale e spirituale. Sono tanti gli uomini di Dio che non si gonfiano di paroloni, predicano il Vangelo, catechizzano, consolano ed esortano «a tempo e fuori tempo» come dice l’apostolo Paolo. La nostra è l’epoca eroica nella sofferenza di tanti fratelli che, soprattutto nell’Est e nell’America Latina, sono perseguitati, rinchiusi nel lager e nei manicomi criminali a causa della loro fede. È bello, infine, il ritrovarsi in forme associative e di apostolato diversissime e originali di tanti giovani avidi di autenticità, di franchezza, di dedizione evangelica.

Ecco alcuni dei tanti motivi per dire di noi stessi quel che l’autore della Lettera a Diogneto diceva dei Cristiani del suo tempo: «dicono che siamo morti ed ecco che siamo vivi». Malgrado le nostre personali insufficienze, la Pentecoste continua a diffondere tra gli uomini l’amore dello Spirito.