Iran, la stretta radicale

Giornale di Brescia, 1 aprile 2008

Le recenti elezioni parlamentari del 14 marzo hanno visto, come ampiamente prevedibile, l’ampia vittoria dei candidati (ultra-)conservatori, ricollegabili politicamente al presidente Mahmud Ahmadinejad e al blocco ultra-radicale che lo sostiene. Le interferenze del regime per impedire la presentazione di candidati riformisti e moderati sono state molto maggiori rispetto al passato, tanto che l’esito delle elezioni risultava scontato, dato che i movimenti riformisti non hanno potuto presentare candidati in molte circoscrizioni.
Questi risultati dimostrano come l’ascesa di Ahmadinejad alla presidenza della repubblica nel 2005 abbia provocato un mutamento nel tradizionale sistema di potere post rivoluzionario. Mentre fino al 2005, vi era un continuo aggiustamento fra i movimenti politici rivali, i gruppi di potere, le reti clientelari, le singole personalità politiche in cerca di maggior potere e visibilità, l’ascesa degli ultra-radicali ha sbilanciato questo instabile equilibrio. Pasdaran (le guardie della rivoluzione), funzionari dei servizi di sicurezza, bassij (forze paramilitari di volontari) e seguaci delle scuole religiose conservatrici hanno occupato in massa posizioni di potere chiave del sistema politico, amministrativo ed economico, spesso con personaggi privi di esperienza o palesemente inadeguati al ruolo che doveva ricoprire. Il presidente si è allontanato dalla pratica della mediazione fra i diversi gruppi e movimenti, e ha agito in modo aggressivo anche verso personaggi riconosciuti dell’establishment politico post rivoluzionario.
Parallelamente, si è assistito a un’accentuazione della repressione verso giornalisti e intellettuali non allineati, con arresti e intimidazioni, così come al lancio di una campagna di moralizzazione – quale non si erano più viste dai tempi di Khomeini – che ha colpito migliaia di giovani, in particolare donne e studenti, accusati di vestire in modo non appropriato o di comportarsi in modo non-islamico. La campagna contro il bad-hijab, ossia l’uso «troppo spregiudicato» del velo che le donne devono obbligatoriamente indossare, si è tradotto in migliaia di fermi di polizia, in forti sanzioni pecuniarie o in condanne penali vere e proprie. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, questi controlli erano stati via via allentati proprio per la loro impopolarità. Secondo diversi analisti, Ahmadinejad teme l’interferenza troppo invasiva delle forze di polizia nella vita quotidiana dei propri cittadini, non fosse altro perché – da populista quale egli è – è consapevole del ritorno negativo per la propria immagine. Tuttavia, egli ha favorito l’ascesa di troppi ultra-radicali nei gangli vitali del sistema politico iraniano per riuscire a controllarne lo zelo e limitare la radicalità di certe loro decisioni.
A pagare il prezzo più alto sono, ancora una volta, i giovani, gli intellettuali e le donne. Questi gruppi sociali avevano goduto di una certa libertà di espressione durante il periodo del presidente riformista Muhammad Khatami (1997-2005), un religioso aperto all’Occidente che cercava di coniugare legge religiosa e libertà individuale, come testimoniato dalla ricchezza della produzione culturale e artistica dell’Iran. Un paese sofisticato e complesso, portatore di una cultura millenaria che si esprime nelle forme più varie, riconosciute e apprezzate anche in Occidente (basti pensare ai successi internazionali del cinema iraniano).
Viaggiando nel paese è forte il senso di delusione e di rassegnazione di gran parte della società. Ma i timori per la repressione non possono eliminare quel “brusio di fondo” – come è stato definito – di giovani che vogliono vivere una vita più libera e meno condizionata da un’interpretazione dogmatica e ottusa delle regole religiose, o la rabbia dei tanti iraniani penalizzati dall’inefficienza e corruzione del sistema. La sconfitta del movimento riformista – dovuto anche ai tanti errori da esso compiuti – non deve farci trascurare un fatto ben evidente: la maturità e la consapevolezza della società civile e di molti strati sociali iraniani è tale che tutte le frazioni di élite politica del paese – i conservatori come i riformisti come i tecnocrati moderati – sanno che l’Iran si aspetta risposte ferme alla crisi economica, alla mancanza di lavoro e di sbocchi professionali adeguati, come pure alla crisi di consenso interna e alla difficile posizione del paese a livello internazionale. Risposte che in qualche modo dovranno essere fornite per non approfondire il distacco fra paese reale e un ceto politico e religioso percepito ormai come un corpo di fatto estraneo nel paese.