Italo Lana (1921-2002). L’intelligenza storica e l’umanità di un grande maestro

Nell’attività svolta nell’arco di quasi un trentennio ho potuto incontrare e conoscere da vicino molti protagonisti, e non solo italiani, della vita culturale, religiosa e artistica. Di solito sono persone che meritano la stima di cui godono per i loro rapporti originali, che bisogna valorizzare e mettere al servizio del maggior numero possibile di persone. Pochi, però, sono coloro che ad una competenza eccezionale nei rispettivi ambiti di ricerca uniscono schietta umanità, senso della misura, autentica umiltà. Per me i veri maestri di sapere e di vita sono questi ultimi, costitutivamente estranei ad ogni teatralità, a qualsiasi forma di esibizione. Tra i maestri di sapere e di vita che ho avuto la gioia d’incontrare il primato va all’antichista italiano, il grande e caro Italo Lana. Egli ci ha arricchiti tutti con la sua straordinaria personalità, la passione educativa che lo portava a guardare con fiducia al futuro, l’elevatezza del magistero e la vastità delle indagini, i cui risultati hanno reso sempre più attuale la lezione dei classici.
Italo Lana chiuse la sua intensa giornata terrena il 13 marzo 2002, da cristiano, con la forza d’animo e la serenità che avevano caratterizzato la sua vita. Era nato a Savona, ultimo di quattro figli, da genitori piemontesi, il 25 febbraio del 1921. Suo padre, ferroviere socialista, fu gettato sul lastrico dal fascismo perché svolgeva attività sindacale e aveva rifiutato d’iscriversi al partito, non essendo disposto a comprare il pane per sé e per i suoi a prezzo della propria dignità. Italo Lana serbò sempre nel cuore il ricordo di quella prova che segnò duramente, con sacrifici di ogni genere, vent’anni della sua vita. Nel 1941 fu chiamato al servizio militare e sotto le armi trascorse ben cinque anni, dal 1941 al 1945: in Italia, in Montenegro, nei Lager nazisti. I venti lunghi mesi nel Lager gli fecero conoscere molti uomini di forte tempra, capaci di mostrare, con il loro comportamento quotidiano, ciò che era essenziale e irrinunciabile per l’uomo. Uno di questi fu Giuseppe Lazzati, studioso di Letteratura cristiana antica, che teneva le sue lezioni sulle lettere di san Paolo nel campo di Sandbostel, Stalag X B, per aiutare i compagni a resistere alla tentazione del cedimento e della resa. L’altro fu un collega in senso stretto, Osvaldo Molinari, studente di Magistero a Roma. E fu proprio il coetaneo Molinari a fargli incontrare il Cristo dei Vangeli.
Durante la prigionia un’altra scelta, altrettanto importante, si fece strada nel suo spirito:

«Nei mesi di Lager – ebbe poi a dichiarare Italo Lana nell’intervista che fa da Premessa al volume-omaggio degli allievi, “De tuo tibi” (Pàtron, Bologna 1996) – maturai l’orientamento di porre l’uomo e i valori propri dell’uomo, tra i quali considero preminente quello della libertà, anche per le esperienze dolorose vissute dalla mia famiglia sotto il fascismo, al centro dell’interesse dei miei studi rivolti al mondo antico».

Non è certo un caso che il saggio “Velleio Patercolo o della propaganda”, apparso nel 1952, era dedicato «ai compagni di Lager in Germania, che in nome della libertà affrontarono la morte» e che, nell’imminenza del fuori ruolo, Lana abbia scelto per suo ultimo corso come docente di Letteratura latina il tema “Studi sulla libertà dell’antica Roma”, che dà anche il titolo al volume edito da Giappichelli a Torino nel 1991.
Rientrato in patria nel settembre del 1945, Lana aveva fretta di recuperare il tempo perduto e chiese a Rostagni di assegnargli la tesi di laurea. Aveva già pronto l’argomento: in un pacco di viveri, pervenutogli fortunosamente nel Lager, la madre gli aveva inviato, su sua richiesta, una piccola edizione delle poesie di Properzio e quel libro fu innumerevoli volte letto e chiosato. Si laureò nel luglio del 1946 e da quel momento ebbe inizio una brillante carriera universitaria, che lo portò alla cattedra nel 1952. Lana fu titolare di Letteratura latina a Cagliari nel 1952 – 53 e a Pisa nel 1953 – 55, di Filologia greca e latina a Torino dal 1955 al 1961, anno in cui succedette a Rostagni sulla cattedra di Letteratura latina. Da quella cattedra tenne lezione per trent’anni, dal 1961 al 1991, quando lasciò l’insegnamento per raggiunti limiti di età. Lana racconta un particolare che testimonia la sua delicatezza nei confronti del Rostagni: «Quando nel 1961 succedetti al Rostagni sulla cattedra che era stata sua, dedicai il primo corso a “La letteratura latina dalle origini a Plauto”: un omaggio al Maestro, come segno esplicito della mia volontà di riprendere e continuare la linea del suo insegnamento» (ibid., p. 33). Il primo corso del Rostagni, che da matricola Lana ebbe modo di seguire nel 1939 – 1940, aveva lo stesso titolo.

Nell’accostarci a uno studioso come Italo Lana, è sempre interessante chiedersi quali siano stati gli influssi formatori decisivi e, soprattutto, su quali maestri si sia orientata la sua scelta. All’Ateneo torinese, già prima del 1941, Lana incontrò maestri di notevole valore e inizialmente fu attirato da filosofi come Nicola Abbagnano e Augusto Guzzo. Per un certo periodo fu tentato di scegliere come suo maestro Guzzo, il pensatore più aperto a un’approfondita indagine morale; ma alla fine l’amore per gli studi classici l’orientò decisamente verso Augusto Rostagni. L’incontro con Augusto Rostagni avvenne nel 1939 – 40, quando Lana, matricola di Lettere, frequentava il suo corso di Letteratura latina. Scrive Lana:

«Nelle lezioni del Rostagni apprezzavo la lucidità e l’asciuttezza dell’esposizione, il puntiglioso riferimento ai testi, l’attenzione costante ai fatti della letteratura e, insieme ad essi, alle vicende storiche. Ascoltandolo dettare le sue lezioni, mi sentivo, istintivamente, come a casa mia: la scintilla della simpatia intellettuale scoccò immediatamente (ma con il Rostagni non ebbi mai occasione d’incontrarmi personalmente quell’anno: forse non osai accostarlo, perché, a differenza di Guzzo, il Rostagni non incoraggiava gli studenti a contatti personali). Nel suo modo di affrontare i problemi, nella sua capacità di puntare direttamente all’essenziale, sfrondando tutto ciò che era accessorio e marginale, senza cedere mai alla tentazione di chiudersi nell’erudizione che non tocca il cuore dei problemi, vedevo le caratteristiche peculiari della sua personalità di studioso e del suo lavoro di ricerca. Ecco: mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di simile» (ibid., p. 34).

L’incontro con Rostagni fece scoprire a Italo Lana il vero maestro di Rostagni, Gaetano De Sanctis, il più grande tra gli storici italiani dell’età classica:

«Quando, diventato assistente del Rostagni, volli rendermi conto, per conoscerlo meglio, della sua formazione di studioso, incontrai gli scritti del suo maestro De Sanctis, li studiai, imparai a conoscere l’altezza del suo ingegno, la ricchezza della sua visione storica, la straordinaria capacità di unire l’intuizione sicura secondo cui interpretare i dati particolari in modo da inserirli persuasivamente in quadri generali, con la saldezza della visione storica complessiva […]. E poi la statura morale del De Sanctis, uno dei pochissimi professori universitari, com’è noto, che non giurò fedeltà al fascismo e perciò fu privato della cattedra. La fermezza, mai incrinata da dubbi, della sua fede nella libertà me lo mostrarono maestro di vita e non solo maestro nel fare storia» (ibid., p. 38).

L’altro amico e maestro di Lana fu Michele Pellegrino, allora incaricato di Letteratura cristiana antica. Ecco in quali termini Lana ricorda il giorno del suo primo incontro con colui che sarebbe stato poi il cardinale arcivescovo di Torino e uno dei più autorevoli Padri conciliari al Vaticano II:

«Il 16 luglio 1946 fu importante per me, non soltanto per la mia laurea, ma anche perché fu il giorno del mio primo incontro con Michele Pellegrino. Terminato il mio esame di laurea, il Pellegrino, che faceva parte della commissione, uscì dall’aula e mi cercò, in quel tetro corridoio di Palazzo Campana, per parlarmi e interessarsi di me, delle mie vicende passate e delle intenzioni per il futuro, dei miei studi. Eppure io non ero stato suo allievo in senso proprio: quando gli ero stato affidato per incarico l’insegnamento della sua disciplina ero già in guerra. Da quel momento incominciai a rendermi conto che il Pellegrino vedeva negli studenti e nei colleghi anzitutto l’uomo. Nella mia cinquantennale esperienza di vita universitaria posso dire, in tutta sincerità, che non ho conosciuto nessun altro docente che con la stessa disponibilità sapesse prendere l’iniziativa di entrare in colloquio con gli altri e che fosse altrettanto pronto ad ascoltare gli altri. Nel Pellegrino l’apertura verso gli altri si accompagnava alla “parresìa”, di cui nel corso della vita diede molte prove non dimenticabili: in particolare quando come vescovo intervenne il primo e il ventisette ottobre 1965 al Concilio Vaticano Secondo con due documenti che avevano per argomento il riconoscimento che la chiesa doveva dare “sive clericis sive laicis” alla “libertà di ricercare, di pensare, di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono competenti”, e l’altro invito, rivolto alla chiesa nelle sue strutture, a favorire “il lavoro intellettuale senza il quale la chiesa, firmamento e colonna della verità, difficilmente può fiorire”» (ibid., pp. 34 – 36 passim).

La fedeltà alla decisione presa nel Lager di porre «l’uomo e i valori propri dell’uomo» al centro dei suoi studi sul mondo antico segnò l’attività scientifica di Italo Lana, per cui egli divenne, nel giro di alcuni lustri, lo studioso italiano della civiltà classica più attento alla storia del pensiero politico greco e latino, ai rapporti fra gli intellettuali e il potere (insuperati sono su questo punto i suoi studi su Seneca), alle condizioni dei ceti subalterni, nonché all’evoluzione di Atene e Roma sui temi della pace, della libertà, del lavoro, della scienza e della tecnica. Due grossi volumi, in particolare, attestano il contributo eccezionale di Lana sugli argomenti così ben individuati dai rispettivi titoli: “Studi sul pensiero politico classico” (Guida, Napoli 1973) e “Sapere, lavoro e potere in Roma antica” (Jovene, Napoli 1990). Lana seppe coniugare in grado eminente la storia e la filologia, l’attenzione agli umili (il contadino di Mactar, ad esempio) e ai classici maggiori (Virgilio, Orazio, Tacito e soprattutto Seneca), l’universo pagano e la novità cristiana, la ricerca di ciò che è universalmente umano e la sua intelligente riproposta in rapporto all’oggi, l’interesse per gli uomini-cittadini inseriti nelle comunità statali ed insieme appartenenti a una società spirituale più ampia che cammina nella storia e la trascende.
Certamente il nucleo di una civiltà è costituito dalla costellazione dei valori a cui essa deve tendere, e i valori che la civiltà classica propone idealmente al nostro tempo, alle nostre coscienze, al tipo di missione che l’Europa è chiamata a svolgere nel mondo sono di una luminosa chiarezza: iustitia, fides, pietas, clementia. Ad essi Italo Lana ha saputo accostare migliaia di giovani attraverso la celebre “Antologia della letteratura latina” in tre volumi, scritta in collaborazione con Armando Fellin, a cui seguì, a partire dal 1965, la sua “Storia della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano”. Gli scritti che portano la sua firma sono oltre trecento ed è assai vasto il lavoro svolto, con autorevolezza e signorilità, nel promuovere le edizioni critiche del “Corpus Paravianum” e grandi collane di classici greci e latini, di studi e opere a più voci, come quelle pubblicate dalla UTET, tra le quali ci piace ricordare i tre splendidi volumi, usciti nel 1998, sulla “Storia della civiltà greca e latina”, curati insieme ad Enrico Maltese. Il libro omaggio dei suoi allievi, “De tuo tibi”, dà nelle prime pagine la bibliografia degli scritti di Lana per gli anni 1947 – 1995; essa è stata integrata per gli anni successivi da Ermanno Malaspina nei “Quaderni del Dipartimento di filologia linguistica e tradizione classica”, pubblicati dell’Università di Torino, a Bologna, nel 2002, presso l’editore Pàtron.
Come ha felicemente scritto Pier Vincenzo Cova, nelle pagine di Italo Lana pulsa la vita, perché ciò che si offre a noi è in primo luogo egli stesso: il segreto della sua opera, vasta ed insieme centrata sui temi essenziali, è infatti la profonda umanità, la purezza d’animo, il sentire cristiano del suo autore.

Un altro aspetto rivelatore del bisogno che Italo Lana aveva di giovare concretamente alla formazione umana e civile dei giovani – con i quali il futuro è già in mezzo a noi – è la sua ricerca di un collegamento organico tra l’attività scientifica e la didattica. Maestro insuperato nel mantenere i testi antichi nel circolo vivo della cultura contemporanea, egli sapeva fin troppo bene che la presenza dei classici è di fatto ostacolata o resa feconda dalla qualità del metodo d’insegnamento e dalla mentalità dei docenti. Grande e assiduo fu pertanto il suo impegno, non comune tra i cattedratici, ad affiancare generosamente i professori nel loro lavoro, a difenderne la dignità, a elevarne il più possibile la consapevolezza metodologica con articoli e inchieste, ma anche con la partecipazione a convegni e a commissioni di studio. Egli avvertì sempre l’esigenza di render conto, in primo luogo agli allievi dei suoi corsi, delle finalità del suo insegnamento, delle scelte metodologiche, delle idee che guidavano la sua azione educativa. Su questo punto i suoi interventi scritti sono numerosi, perspicui, appassionati. Il suo programma è tutto nel titolo del famoso saggio apparso sulla rivista Studium (1990, n. 3, pp. 337 – 348): “La memoria degli antichi e la progettazione del futuro”. Ma il primo testo in cui Italo Lana inquadrava razionalmente i problemi con cui devono misurarsi gli insegnanti di discipline classiche risale alla prolusione universitaria “Noi e l’antico”, che egli tenne a Cagliari il 9 febbraio 1953 e che fu pubblicata sulla Rivista di Filosofia (gennaio 1954, n. 1, pp. 36 – 47).
Nella produzione del 1952 suona forte e solenne la rivendicazione del nesso tra la storia letteraria e la più ampia realtà storica, alla quale il fatto artistico originariamente e per sempre appartiene e che lo illumina e ne è, a sua volta, illuminato. Se il filologo pensa di fermarsi a mostrare la «certezza» di fatti e materiali, lo storico e il critico della letteratura hanno il compito di cercare che cosa gli uni e gli altri abbiano significato e significhino per l’umanità: allora, quando su produssero, ed ora, quando li studiamo. Occorre certamente ricollocare i fatti nella realtà in cui maturarono e dunque nei loro rapporti storici, nel clima spirituale, civile e morale dei tempi, così come nello sviluppo della vita e della personalità degli autori. Augusto Rostagni raccomandava:

«Più che alle affinità, alle somiglianze, ai contatti dell’antico con noi, si conviene badare alle differenza, cercando di distinguere i limiti che esso incontrava e che noi abbiamo superati» (ibid.).

Tutto ciò servì ad aprire gli spiriti a una visione dinamica della cultura e della storia e ad abbandonare un certo falso e scolastico classicismo, secondo cui non si può entrare in colloquio con gli antichi se non svestendo i panni quotidiani e indossando la toga e il pallio. Italo Lana, però, aggiunge una precisazione di grande rilievo:

«Noi crediamo che non tanto le differenze di quel mondo rispetto al nostro si debbano cercare, bensì, in quel mondo, le radici e le ragioni del nostro mondo» (ibid.).

È, infatti, innegabile che il nostro mondo, la nostra civiltà affondano le radici in quel mondo che diciamo antico.

«La civiltà, che è nostra, ha visto la luce presso i greci. Sarebbe forse anche potuta nascere altrove, o altrimenti, lo sappiamo: tuttavia essa è nata là, presso i greci. Quel mondo è, perciò, tuttora e sempre, il nostro. Checché si pensi e si dica, non si può ignorare che Platone ed Aristotele sono, per la sostanza del loro pensiero, così vicini a noi come Cartesio o Kant; che l’anelito religioso di Eschilo e l’ansia rinnovatrice del mondo di Virgilio, sono anche anelito ed ansia nostra; che la coscienza storica di Tucidide e di Tacito è un elemento costitutivo della nostra coscienza storica; che l’ideale di bellezza di Fidia e di Prassitele si è trasfuso in noi e lo sentiamo nostro […]. Quel mondo, pur nelle differenze di forma che i millenni inevitabilmente hanno provocate, pur tenendo conto dell’arricchimento e dell’approfondimento della vita spirituale operatisi specialmente attraverso il Cristianesimo, è ancora il nostro mondo: perché è nostra eredità, è un bene nostro, che legittimamente ci perviene, attraverso lunga ed ininterrotta serie di generazioni. Come tale, noi lo potremmo anche rifiutare (e v’è chi lo rifiuta): ma non per ciò esso è meno nostro» (ibid.).

Italo Lana è tornato più volte su questi concetti per individuare il contributo che l’eredità spirituale della cultura greca e latina può avere oggi nella configurazione di quella civiltà nuova alla quale l’umanità sembra aspirare. Nel saggio “Il latino nella cultura e nella scuola”, pubblicato negli “Annali della Pubblica Istruzione” (1983, 6, pp. 662 – 663), scriveva:

«Quanto più gli uomini si muovono verso una civiltà planetaria., tanto più è necessario che ogni civiltà particolare approfondisca la conoscenza del proprio retroterra, al fine di conoscere meglio se stessa (e il proprio presente), per progettare con più chiara consapevolezza il proprio futuro […]. Proprio perché il mondo di oggi va rapidamente mutando e ancora non sono plasmati i lineamenti del futuro, proprio per questo, per sottoporre ad un vaglio, severo quanto si vuole, il patrimonio di idee, di valori, di convinzioni, di principi generali che è stato elaborato dalle generazioni passate e trasmesso a noi, dobbiamo mettere i giovani di oggi nella condizione di poter direttamente verificare come quelle idee, quei valori, quelle convinzioni si siano formate e affermate. Una volta avvenuta questa presa di contatto e questa analisi approfondita, il giovane accetterà o rifiuterà o integrerà quel patrimonio».

Sono dichiarazioni, queste, che illuminano dal di dentro il lavoro di Italo Lana e la serena fiducia che egli aveva nella validità di ciò che faceva: egli sapeva che molti dei valori che possono gettare luce sulla condizione umana all’alba di questo terzo millennio sono stati scoperti dal mondo greco e romano e solo lì, vicino alle sorgenti, se ne possono studiare le prime commoventi formulazioni.

È stato detto che l’amicizia è come un albero che va piantato per tempo, perché se ne possano godere i frutti. Talora, però, accade che l’una o l’altra vicenda ci metta nelle condizioni di entrare in rapporto diretto con eminenti studiosi verso i quali nutriamo sentimenti di profonda stima e gratitudine per ciò che ci hanno dato, pur senza averli mai incontrati di persona. Allora l’affinità elettiva soggiacente emerge in tutta la sua forza e conoscersi, conversare liberamente, guardarsi negli occhi diventa un bisogno. L’amicizia che nasce quando si è ormai prossimi all’ultimo traguardo ha un’intensità tutta sua: è come il vino servito per ultimo alle nozze di Cana, che risultò essere il migliore. È quanto è accaduto a me e a Italo Lana tra il gennaio 1998 e il 13 marzo 2002. La pubblicazione del mio volume “Seneca. L’immagine della vita”, presso La Nuova Italia di Firenze, e la viva attenzione di Lana per altri miei scritti divennero il tramite di un’affettuosa corrispondenza, assicurando altresì a Brescia il dono di quattro sue conferenze: «Seneca nel bimillenario della nascita»; «Possiamo ancora considerarci eredi dei classici?»; «Virgilio e la felicità»; «Tacito, lo storico che cerca oltre i limiti del conosciuto».

Studium, n. 4 – 2005. Italo Lana è stato più volte ospite della Ccdc.