Krzysztof Zanussi. Il potere dell’artista di cinema

La Voce del Popolo, 9 aprile 2010

Brillante cineasta, intellettuale, regista, produttore, sceneggiatore, Krzysztof Zanussi, polacco, è membro della Pontificia Commissione per la Cultura. La sua filmografia è incentrata sui temi dell’esistenza, il rapporto tra scienza e fede. Zanussi ha firmato pellicole celebri, come “Da un paese lontano” (1981, dedicato a Giovanni Paolo II) e “L’anno del sole quieto” (1984, che ha vinto il Leone d’oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia). Zanussi è stato anche premiato con il David di Donatello.

Uno sguardo al mondo culturale e cinematografico con gli occhi di chi conosce segreti e personaggi che hanno fatto la storia.Nel 1981 ha girato “Da un paese lontano” dedicato a Giovanni Paolo II. Il pontificato del Papa polacco, però, è durato ancora 24 anni. Non ha mai pensato al seguito?

No. Non ho mai avuto nessuna tentazione. In seguito ho girato un lavoro basato sulla pièce teatrale, scritta dal giovane sacerdote Wojtyla: “Il fratello del nostro Dio”. L’abbiamo girato con la partecipazione della Rai nel 1998. Vicino alla fine del pontificato volevo ricordare questo lavoro che mi sembrava significativo, anche se non perfetto. Invece raccontare la vita di un personaggio che vediamo quasi quotidianamente in televisione, che si spiega bene in tv, mi sembrava completamente inutile. Ho sentito anche di progetti simili, ma io non volevo mettermi in concorrenza con il personaggio stesso. Ho guardato alcuni film con quest’idea: per esempio “The Queen”, sulla regina d’Inghilterra, dove l’attrice interpreta la regina e le rassomiglia, grazie al trucco. Mi sembra che ci sia qualcosa di primitivo in questo sforzo di copiare la realtà; il rapporto tra realtà e fiction è un rapporto ben stabilito e ci vuole una certa distanza. Mi ricordo anche che i primi film muti si facevano ricostruendo fatti storici perché non c’era la cronaca. Attori e comparse facevano alcuni gesti che stavano a significare alcune cose. Mi sembrava ridicolo vedere il Kaiser Wilhelm vestito con il costume, ma fatto con una comparsa e il sottotitolo “Il Kaiser ha parlato con qualcuno” e poi vediamo le due comparse. Un disegno sarebbe sembrato più naturale. Oggi il disegno ani­mato fa grandi passi avanti, come per il film di Cameron, dove si trova una realtà semi-umana, semi-elettronica. Questo mi sembra interessante, invece fare un film sulla vita di Wojtyla in cui questo attore ha una faccia simile a quello vero, ma non è lui stesso, è una cosa che mi imbarazza. Nel mio film Wojtyla non era molto presente. Cercavo di nasconderlo, di farlo un testimone del suo tempo, perché non volevo entrare in concorrenza con il Wojtyla vero.

Ora cambierebbe qualcosa di quanto raccontato?

Aggiungerei probabilmente molte cose, ma il mio concetto principale era di essere discreto, non cercare di essere sensazionalista. Non credo che ci sia qualche scena che taglierei. Qualcosa aggiungerei, ma ho chiuso il mio film.

Un mondo in continua evoluzione e cambiamento. Cosa è cambiato nel suo lavoro e come è cambiato il lavoro stesso?

Il mercato è cambiato. La società è cambiata. La tecnologia pochissimo. La tecnologia è uno strumento e non uno scopo. La tecnologia si impone, senza essere imposta dagli artisti: è arrivato il suono, e non sono stati gli artisti; è arrivato il colore, ma non sono stati gli artisti; è arrivato il cinema-scope… Sono le condizioni del mercato imposte all’artista. Non credo che nemmeno Michelangelo volesse fare il soffitto della Cappella Sistina. Gli è stato chiesto di farlo e lui ha dovuto trovare una soluzione. Il rapporto tra la tecnologia e l’artista non è un rapporto facile. Io vedo una certa stabilità nel linguaggio del cinema. Si cambiava molto fino agli anni ‘50. Dopo la Nouvelle Vague abbiamo gli stessi strumenti e, oggi, vedo un grande regresso. Il linguaggio del cinema all’epoca di Pasolini e Godard era più evoluto, sottile, penetrante. Oggi il linguaggio è primitivo perché il cinema è diventato popolare. Oggi si fa il cinema per tutti, così siamo più democratici, ma il linguaggio è più semplice. La società oggi è meno problematica, perché viviamo in un benessere che non abbiamo conosciuto prima. Dimentichiamo spesso che il benessere di oggi in passato era impensabile. La fame è scomparsa; solo pochi sono affamati. Nel secolo scorso non era così. Oggi il Terzo Mondo è ancora affamato, ma anche questo cambia: cambia in Cina e cambia in India. È una situazione nuova. Il nostro pubblico può permettersi di vivere con una certa leggerezza e con una certa irresponsabilità. È un lusso usare una ferrovia o un tram, quando pensiamo che un imperatore romano viaggiava in condizioni peggiori di un operaio. Oggi non abbiamo, per la maggioranza, la sfida elementare della sopravvivenza nei Paesi sviluppati. Siamo condizionati dal pubblico. Questo è un cambiamento. Il pubblico è meno esigente e non è costretto a porsi le domande esistenziali e profonde. Non so se possiamo permetterci di essere così leggeri. Non è il colore o il 3D, è il clima sociale che cambia il cinema.

Nei suoi film sono trattati sempre temi significativi e legati all’esistenza umana: l’etica, la giustizia, la direzione della vita verso il valore e la salute, il rapporto tra scienza e fede, per dirne alcuni. Il cinema è ancora in grado di parlare di valori e verità? L’uomo è ancora disponibile ad andare al cinema per farsi provocare e raccogliere domande sul senso della vita?

Il cinema è sempre capace. Possiamo sempre ricorrere al cinema della grande epoca. Manca semplicemente la voglia e il bisogno non è così evidente. Questo meccanismo si è svelato qualche anno fa con uno tsunami in Svezia. Le chiese luterane si sono riempite perché è successo qualcosa che ha ricordato la fragilità dell’esistenza. Noi abbiamo l’illusione, oggi, che la nostra esistenza sia solida. Questo ci permette di non farci le domande esistenziali. Basta un momento di paura, un virus, un meteorite, un tornado, e subito ci chiediamo perché io vivo o chi mi ha creato. Sono domande sostanziali che hanno provocato lo sviluppo nei millenni, ma sono sempre attuali. La natura umana accetta tutto il positivo come scontato, invece serve un momento di paura per spingerci a fare domande più approfondite.

Come è nata la sua passione per la regia?

È nata mentre studiavo fisica. Io sono un fisico. Con la fisica ho avuto un’esperienza felice. Io amo la fisica, ma la fisica non mi ha mai amato. Per fortuna ho capito che non potevo an­dare avanti. Facevo il cinema da dilettante. Ho vinto molti premi e allora ho pensato che questa potesse essere la mia vocazione. Dicevo: “Se mi dicono che sono bravo, vuol dire che lo sono”. Così mi sono iscritto all’Accademia del cinema e ho capito che volevo parlare attraverso il cinema. La vita mi ha offerto molte proposte entusiasmanti, anche adesso, ma io ho deciso che volevo fare l’autore cinematografico, anche al margine del mercato. Penso di essere più utile facendo questo che il diplomatico, l’ambasciatore… Il potere che mi interessa è quello particolare dell’artista.

Cosa significa fare cinema da uomo di fede?

Molti mi fanno la domanda, credendo che l’uomo di fede abbia una libertà limitata. È uno sbaglio. La fede non limita la libertà. È una scelta libera, drammatica, dinamica. Non abbiamo la fede per sempre. Quella che abbiamo la sera deve essere ritrovata la mattina. Non si può congelare la fede. La fede è la ricerca della verità: io cerco di capire come è costruito que­sto mondo e sento spesso che c’è un Creatore, un’intelligenza superiore e c’è anche una Rivelazione. Sono tutte tappe che cerco sempre. Non vedo limitazione. La fede non è una censura che mi limita.

Cosa l’ha spinta a scrivere una sua biografia in un libro?

Non è veramente una biografia ma la chiusura dell’epoca del comunismo del mio Paese e la grande voglia di rinascita del Paese e di me stesso. Abbiamo tutti voluto rinascere per la libertà, dopo che abbiamo vissuto sotto un potere assoluto, autocratico e cattivo. Volevo fare la somma delle mie esperienze e andare avanti. Ho cercato di farlo in modo leggero, mescolando pensieri seri e aneddoti, grazie all’incontro con vari personaggi: Putin, Wojtyla… è la chiusura di una tappa del mio Paese, dell’Europa e del mondo. Voglio dimenticare questo periodo e guardare con speranza al futuro.

Chi l’ha colpita di più?

Giovanni Paolo II. Io scrivo anche di personaggi negativi che mi hanno colpito, come l’attrice tedesca Elisabeth Bergner. È stata amante di grandi della sua epoca dal poeta Rilke ad Einstein. Dalla conclusione del libro ho già accumulato incontri nuovi.

All’inizio lei dice che un’epoca sta morendo. Se così è, quale eredità lascia questa che sta scomparendo a quella in arrivo?

Per noi lascia delle scelte molto chiare, contrastate. Siamo un po’ nostalgici oggi, perché all’epoca la differenza tra bene e male tra menzogna e verità, tra uomo onesto e no era chiara. Noi abbiamo saputo precisamente il giorno e l’ora in cui abbiamo venduto l’anima. Oggi l’anima si vende a rate e non si vede quando non siamo più proprietari di noi stessi. Il consumismo compra l’anima. Questa è la differenza.

Per la sua attività di regista ha vinto molti premi. Qual è il più significativo?

Il primo premio perché ha marcato la mia via e perché mi ha dato un senso del relativismo necessario per non credere troppo nelle lodi e non soffrire per le critiche. Per il mio lavoro di laurea, 30 minuti di fiction, che si intitolava “La morte del padre provinciale”. Racconta senza parole la visita di un giovane architetto che fa qualche lavoro in un vecchio monastero. Questo film nella stessa settimana ha ricevuto due premi: a Mosca, da un’organizzazione di giovani comunisti, il premio degli atei, e a Manheim, in Germania occidentale, il premio ecumenico dei cattolici. Ho capito che ciascuno inter­preta come vuole, soprattutto perché nel film non ci sono le parole. Credo che il film sia stato correttamente premiato in Germania e non a Mosca.

Quale il più inaspettato?

L’uomo saggio non aspetta mai e sempre spera che arrivino. Sono stato molto contento del David di Donatello e del gran premio di Venezia. Forse più per il premio speciale dell’anno prima per “Imperativo”, uno dei film più teologici che abbia mai girato. Questi premi mi hanno procurato tantissima gioia. Ma anche due anni fa al Festival di Roma per il miglior attore a Stupka per il film “With a warm heart”.

E per il futuro?

Ho in mente un film che ha già il titolo: “Un corpo estraneo”. Sarà un film in difesa delle donne contro le femministe. Io sono contro il femminismo che cerca di annullare le differenze tra i sessi. Io sono convinto che la bellezza del mondo è nel contrasto. Un sesso opposto attrae perché è differente. Se gli uomini sono femminizzati e le donne troppo mascoline, penso che il mondo perda il suo valore.

Nella sua carriera anche un leone d’oro a Venezia per il film “L’anno del sole quieto” nel 1984. Cosa ha rappresentato per lei da un punto di vista umano e professionale?

Professionalmente non mi ha aiutato come speravo. Già era cominciato il declino del festival di Venezia. È stato comprato dalla Rai e mai mostrato. Il film è basato su due lingue e due personaggi che non si capiscono. Una parte del film è in inglese e una parte in polacco. È un film che non si può doppiare e la televisione era incapace di mandarlo così. Comunque fu venduto in molti Paesi e mi fa molto onore essere stato un vincitore del festival di Venezia. Non posso dire che è stato un fatto positivo. Oggi hanno peso solo gli Oscar americani.

C’è un film di altri che avrebbe voluto girare?

Sono molti. Tutti i film di Bergman. Tanti i film di Romer o del mio amico Kieslowski, con cui ho collaborato. Ci sono anche film americani come quelli di Kazan. Sono un ammiratore di autori estranei a me per il modo di lavorare, come Fellini o Tarkvoskij.