La Chiesa, comunione dei credenti

Nell’intera cristianità la chiesa è compresa come comunione. Il Simbolo apostolico della cristianità occidentale, fin dal IV secolo, nel terzo articolo spiega la confessione della chiesa una, santa, cattolica con l’aggiunta “comunione dei santi”, communionem sanctorum. Con questa espressione originariamente si intendeva tanto la partecipazione alle cose sante, cioè ai sacramenti, come pure la comunione con i santi e i martiri della chiesa già uniti al Signore nel cielo. La Riforma ha inteso la formula communio sanctorum come “comunione dei credenti” perché nelle lettere paoline spesso ci si rivolge ai credenti come ai “santi per vocazione” (Rm 1, 7, 1 Cor 1, 2) o semplicemente come ai “santi” (2Cor 1, l; Fil 1, 1) e dunque come a coloro che sono separati dal mondo per essere mi comunione con Dio. La chiesa è dunque communio sanctorum in quanto congregatio fidelium, comunità dei credenti. Questa interpretazione della formula communio sanctorum che si trova nell’articolo sulla chiesa della Confessio Augustana del 1530, la fondamentale confessione della Riforma (CA 7), non è stata tuttavia un’innovazione dei Riformatori. Già la teologia medievale ha compreso la formula mi questo senso. Anche Tommaso d’Aquino ha definito la chiesa come congregatio fidelium, tra l’altro anche nella sua spiegazione del Simbolo apostolico (In Symb. a 9). La comprensione della chiesa come comunione dei credenti è dunque patrimonio comune, perlomeno per la cristianità occidentale. Questa idea tuttavia non è dappertutto al centro della concezione della chiesa

Nella discussione ecumenica contemporanea negli ultimi decenni si è manifestata sempre più la necessità di un accordo sulla concezione della chiesa. Altre differenze dottrinali tra le chiese hanno perso di significato rispetto al secoli precedenti. Per il ristabilimento della comunione ecclesiale tra le chiese divise è necessario essere d’accordo soprattutto su ciò che la chiesa è e sugli elementi che appartengono all’essenza della chiesa. Come base per questo scopo si è rivelata valida ovunque nel dialogo ecumenico la comprensione della chiesa come communio. Questo vale sia per il dialogo tra la chiesa cattolica-romana e le chiese ortodosse dell’Oriente, sia per il dialogo di Roma con gli Anglicani con i Luterani e con il Consiglio Ecumenico delle Chiese. L’ecumenista di Monaco Heinrich Döring nel 1988 in uno studio comparativo sul tema “L’ecclesiologia di comunione come modello fondamentale e possibilità della teologia ecumenica” afferma: “Essa è il fondamentale modello comune”.2

La natura della chiesa come comunione inoltre viene oggi comunemente descritta e compresa a partire dalla comunione nell’eucaristia. Nella Cena del Signore non solo il singolo cristiano è unito per mezzo del corpo di Cristo presente nel pane con Cristo stesso, ma attraverso la comune recezione del corpo di Cristo i comunicanti sono uniti anche tra di loro nella comunione del corpo di Cristo. Nella teologia ortodossa Nikolaj Afanassieff già nel 1952 ha messo mi evidenza questo aspetto come fondamentale per la comprensione della chiesa.3 La sua ecclesiologia eucaristica ha dato un impulso decisivo alla recente discussione ecumenica sulla chiesa come communio. Due anni dopo la pubblicazione di questo libro il teologo luterano Werner Elert ha proposto tesi simili sul legame tra comunione nell’eucaristia e comunione ecclesiale e le ha illustrate sulla base della storia della chiesa patristica.4 Nel 1955 il dogmatico luterano di Heidelberg Peter Brunner scriveva che nella comunione nella Cena del Signore è fondata l’unità della chiesa m Cristo e la comunione ecclesiale delle chiese locali tra di loro.5 Dopo il Concilio Vaticano II questa concezione si è affermata anche nella chiesa cattolica-romana. Secondo il Card. Joseph Ratzinger l’ecclesiologia della communio, stimolata dalla teologia eucaristica dei teologi ortodossi, “è diventata il cuore vero e proprio della dottrina del Vaticano II sulla chiesa”. Ratzinger scriveva “La Cena è l’inizio della chiesa. Ciò infatti significa sempre che l’eucaristia unisce gli uomini non solo tra di loro ma anche con Cristo e che essa in tal modo rende le persone chiesa. Al tempo stesso è già data con questo anche la fondamentale costituzione della chiesa: la chiesa vive in comunità eucaristiche”.6 Il dogmatico cattolico di Tübingen Walter Kasper, attualmente vescovo di Rottenburg, nel 1986 ha indicato come compito per il futuro la “piena realizzazione” di questa concezione della chiesa come communio fondata nella comunione eucaristica, anche per lo sviluppo delle relazioni ecumeniche tra le chiese oggi ancora divise.7

L’origine di questa concezione della chiesa come comunione nella quale i credenti sono uniti tra di loro attraverso la partecipazione eucaristica di ciascuno al corpo di Cristo, così che i credenti per mezzo dello stesso Cristo sono raccolti nell’unità del suo corpo, si trova in Paolo. Nella prima lettera al Corinti l’Apostolo scriveva: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.” (ICor 10, 16s.). L’espressione koinonia, comunione, designa qui solo la partecipazione al corpo e al sangue di Cristo. Non è utilizzata come definizione della chiesa.8 In altri contesti tuttavia Paolo ha parlato ripetutamente della koinonia di cui i credenti sono debitori gli uni verso gli altri, soprattutto nel senso dell’aiuto e del servizio (Rom 15, 26; cfr. 2Cir 8, 4 e 9, 13, anche Gal 6, 6). Questa comunione si fonda nella comune partecipazione al corpo di Cristo: “La comunità locale è corpo di Cristo perché essa nel banchetto eucaristico è resa partecipe del corpo del Signore”.’ Con questa affermazione Paolo sembra essere stato consapevole “di introdurre qui una nuova idea, che risultava sorprendente per i suoi lettori”.9 Poiché il termine chiesa, ecclesia, in Paolo si riferisce all'”assemblea” radunata per la liturgia comunitaria, si può dire che l’Apostolo ha visto la chiesa prevalentemente a partire dall’immagine guida della comunione intorno alla mensa eucaristica”10. Perciò 1Cor 10, 16s. costituisce il punto di partenza per un’ecclesiologia eucaristica, anche se in Paolo una tale dottrina della chiesa non si trova ancora in forma elaborata. L’affermazione sulla comunione eucaristica della chiesa come “corpo di Cristo” deve essere vista anche in connessione con le altre affermazioni dell’apostolo Paolo sull’essere-in-Cristo del credente, in particolare con la sua teologia del battesimo. Tuttavia la natura della chiesa come corpo di Cristo secondo 1Cor 10, 17 trova espressione in modo particolarmente chiaro nella celebrazione della Cena del Signore, in quanto fondata nella comune partecipazione dei credenti all’unico corpo di Cristo. “Corpo di Cristo” qui è più che un’immagine tra le altre per descrivere la chiesa (come p.es. “sposa di Cristo”); la chiesa infatti è corpo di Cristo in modo del tutto reale mediante la partecipazione, che si realizza visibilmente nell’eucaristia, dei credenti al corpo del Signore presente nel pane. Solo per mezzo di questa partecipazione a Cristo i credenti sono uniti nella comunione del popolo di Dio, così che l’idea della chiesa come popolo di Dio, nel senso dell’Apostolo, si deve comprendere come fondata nella concezione della chiesa come corpo di Cristo.11

Questa mutua appartenenza dei cristiani non è dunque fondata su qualche sentimento di comunione, ma sulla comune partecipazione all’unico Signore per mezzo della fede nel Vangelo (Fil 1, 4), per mezzo del battesimo nella morte di Cristo e per mezzo della recezione del suo corpo e del suo sangue nella Cena del Signore. Proprio nella liturgia eucaristica però la fondazione della chiesa come comunione dei credenti sulla partecipazione di ciascuno a Gesù Cristo trova espressione attraverso l’atto conviviale. Per questo la comunione eucaristica nella celebrazione della Cena del Signore e costitutiva per la comunione della chiesa.

Questo vale anzitutto per la comunità locale che celebra concretamente la Cena del Signore. Per questa ragione nella Costituzione sulla chiesa del Concilio Vaticano II si dice che l’unica chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali dei credenti e che queste comunità locali, unite ai loro pastori, nel Nuovo Testamento sono chiamate “chiese” (Haec Christi Ecclesia vere adest in omnibus legitimis fidelium congregationibus localibus, quae, pastoribus sui adhaerentes et ipsae in Novo Testamento ecclesiae vocantur, LG 26). Nel suo commento a questo testo Karl Rahner ha scritto che questo paragrafo rappresenta una correzione della prospettiva che per il resto determina tutta la Costituzione sulla chiesa e che vede la chiesa “troppo unilateralmente a partire dalla chiesa universale…e dalle sue strutture”. La frase citata apre la “possibilità di una ecclesiologia (altamente significativa dal punto di vista ecumenico) a partire dalla comunità raccolta attorno alla Parola e all’altare”12. Questa è appunto la concezione della chiesa che oggi viene designata come ecclesiologia di comunione.

Effettivamente la dottrina della chiesa sviluppata a partire dalla comunità liturgica locale è di grande importanza ecumenica, essa infatti sembra essere in grado di unire tra di loro le istanze cattoliche, protestanti e ortodosse. Le chiese evangeliche, con la Confessio Augustana, comprendono abitualmente la chiesa come assemblea dei fedeli attorno alla Parola e al Sacramento. L’accentuazione della celebrazione dell’eucaristia come centro di questo evento liturgico da parte della ecclesiologia eucaristica della communio risponde tanto all’istanza cattolica come a quella ortodossa. A questa istanza tuttavia viene incontro il rinnovamento della Cena nella vita liturgica delle chiese evangeliche. La citata formula conciliare sulle comunità locali chiamate chiese presuppone delle comunità che si radunano per la liturgia eucaristica. D’altra parte in questo testo si parla di comunità locali “legittime” che in unione con i loro pastori sono dette chiese. Queste riserve alludono a un problema sul quale deve essere ancora raggiunto un accordo in una ecclesiologia ecumenica della communio: il significato del ministero pastorale per la “legittimità” della comunità radunata nella liturgia e della sua celebrazione eucaristica. La questione deve qui essere per il momento messa da parte e si deve invece chiarire come la presenza dell’unica chiesa di Gesù Cristo nel luogo Mi cui si raduna la comunità per la liturgia si rapporta alla chiesa universale come comunione mondiale di tutti coloro che credono in Gesù Cristo e che sono uniti a lui nella fede mediante il battesimo e la Cena del Signore.

La chiave per la comprensione del legame tra chiesa locale e chiesa universale sta nell’evento stesso della celebrazione eucaristica: poiché tutti i partecipanti alla liturgia insieme al pane ricevono l’unico corpo di Cristo, secondo Paolo, sono uniti anche nell’unità del corpo di Cristo. Questo però non avviene solo nelle singole comunità locali, ma ovunque dove l’eucaristia è celebrata. Il corpo di Cristo presente nella liturgia della comunità unisce i partecipanti con tutti gli altri che credono allo stesso Gesù Cristo e che mediante il battesimo e la Cena del Signore sono uniti al suo corpo. Per questo in ogni eucaristia, insieme al vero corpo del Signore, è presente al tempo stesso l’intera chiesa di tutto il mondo, ma insieme anche la chiesa di tutte le precedenti generazioni dei cristiani a partire dal tempo degli apostoli e dei martiri della chiesa antica. Questo legame tra la presenza di Cristo e la comunione fondata su questa presenza di tutti coloro che con lui sono uniti per formare un solo corpo – il suo corpo – è costitutivo del mistero della Cena del Signore e del mistero della chiesa. Per questo Paolo nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinti ha scritto che non “giudicano” correttamente il dono dell’eucaristia, il corpo del Signore (11, 29), coloro che nella Cena non hanno alcun riguardo per gli altri e dunque non mantengono la comunione alla quale l’unità del corpo di Cristo li impegna. Di tali persone Paolo dice che si rendono rei del corpo e sangue del Signore (11, 27) e che mangiano e bevono per la loro condanna. Il mantenere la comunione tra tutti coloro che mediante la fede, il battesimo e la Cena del Signore partecipano all’unico corpo di Cristo è dunque condizione per l’autenticità della celebrazione della Cena della comunità locale. Joseph Ratzinger ha scritto giustamente a questo proposito: “Cristo è dovunque intero…Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono pure il suo corpo e che, nell’Eucaristia, lo devono sempre di nuovo diventare. Perciò l’unità reciproca delle comunità che celebrano l’eucaristia non è un’aggiunta esteriore alla ecclesiologia eucaristica, bensì la sua condizione interna”.13

Il significato costitutivo della chiesa universale co-presente, insieme alla presenza di Cristo stesso, in ogni celebrazione eucaristica d’altra parte è primariamente una realtà spirituale. Esso deve essere distinto dalla dipendenza giuridica della singola comunità da istituzioni ecclesiali centrali. Nel documento della Congregazione romana per la dottrina della fede su alcuni aspetti della chiesa come communio del 28.5.1992 purtroppo questa importante distinzione è stata disattesa (§ 7ss.). Si sottolinea certo a ragione il significato fondamentale della chiesa universale per la autenticità della celebrazione eucaristica delle singole comunità locali, questa chiesa universale tuttavia non è semplicemente la struttura ecclesiale che ha il suo vertice nel centro romano, ma è la realtà spirituale precedente rispetto ad essa della co-presenza dell’intera cristianità nella presenza di Gesù Cristo stesso nel pane e nel Vino nella Cena del Signore. Da questa presenza spirituale dell’intera chiesa “cattolica” nella liturgia di ogni singola comunità nel proprio luogo deriva il dovere della comunione delle comunità locali tra di loro. Nella comunione tra le chiese e nel suo ordinamento concretamente giuridico l’unità spirituale di tutti i credenti in Gesù Cristo trova la sua espressione visibile. Le due realtà non si possono tuttavia scambiare l’una con l’altra. La presenza di Cristo, non una qualche organizzazione ecclesiale centrale, è costitutiva per la Cena del Signore. Ma la presenza di Cristo nella Cena del Signore implica la totalità dei cristiani che con lui sono uniti per formare un solo corpo e dunque la chiesa universale. Questa realtà trova espressione attraverso la comunione delle chiese locali tra di loro. Il dogmatico luterano di Heidelberg Peter Brunner nel 1955 in un articolo sul tema “L’unità della chiesa e la realizzazione della comunione tra le chiese” ha formulato questo m modo pertinente: “All’unità indistruttibile della chiesa, sempre realizzata nel corpo pneumatico di Gesù Cristo, corrisponde la koinonia delle chiese di Dio sulla terra”14.

La comunione tra le chiese è dunque una forma di manifestazione, e una forma necessaria di manifestazione, e una conseguenza dell’unità invisibile della chiesa di tutti i tempi e di tutti i popoli, unità che le è già data in Gesù Cristo e con lui è presente nella Cena del Signore. La comunione ecclesiale come comunione delle chiese locali, a sua volta, trova espressione nel riconoscimento reciproco dei ministri che rappresentano le singole comunità locali e in modo particolare nel loro radunarsi per un concilio. Che il concilio sia espressione della comunione delle chiese locali rappresentate dal loro vescovi è caratteristico della concezione propria delle chiese locali ortodosse della manifestazione dell’unità della chiesa nella concreta comunione ecclesiale. Questa concezione non esclude necessariamente che tra le chiese locali della cristianità alcune, per la loro antichità e per la loro dignità, abbiano un rango particolare. Tra di esse, anche secondo prospettiva orientale, la comunità romana e il suo vescovo hanno un primato di onore in rapporto a tutte le altre. Questo significa che il titolare di questa sede episcopale con il consenso degli altri vescovi (e anche in cooperazione con l’istituzione del concilio) rappresenta l’intera cristianità come nessun altro e può agire come suo portavoce. Questa funzione però, all’interno di una concezione della chiesa fondata eucaristicamente, cioè a partire dalla comunità locale, sarà legata all’accordo con le chiese locali e non indipendente da esse. Le stesse chiese locali da parte loro non sono prodotto di un tale ministero centrale che rappresenta la loro comunione. Esse hanno un’origine storica distinta rispetto ad esso. Il Primate della chiesa universale, in una visione della chiesa come communio, fondata eucaristicamente, non può essere detto neanche principium et fundamentum dell’unità della chiesa, come si dice in una delle formulazioni meno felici della Costituzione sulla chiesa del Vaticano II (LG 18 e 23). Ugualmente i vescovi non dovrebbero essere chiamati “principio e fondamento” dell’unità nelle loro chiese particolari (ibidem). Questo è il linguaggio di una ecclesiologia sviluppata a partire dal ministero o addirittura a partire dal ministero più alto che si differenzia da una ecclesiologia della communio sviluppata sulla base della vita liturgica delle comunità locali. Le comunità non sono una creazione dei vescovi, ma questi sono riferiti alle comunità in vista di un determinato servizio alla comunità. Principio e fondamento della chiesa e della sua unità, secondo 1 Cor 3, 11 è solo Gesù Cristo. Nessuno può porre un altro fondamento. Anche l’Apostolo, che in effetti ha fondato nuove chiese, rivendicava per sé solo di costruire su questo fondamento. I vescovi non sono il fondamento ma sono a servizio della conservazione dell’unità fondata su questo fondamento. Questa è la classica funzione del ministero episcopale fin dall’epoca patristica: mantenere l’unità della chiesa nella fede apostolica tanto all’interno, nella vita della chiesa locale ad essi affidata, come nella comunione con le altre chiese locali. Per questo il vescovo non rappresenta soltanto la propria chiesa locale nella comunione conciliare delle chiese locali, ma è anche viceversa nella propria chiesa locale il rappresentante della chiesa universale. Per questo gli spetta anche la presidenza nella celebrazione della Cena del Signore, in quanto egli dice le parole di istituzione di Gesù Cristo stesso che è il fondamento della sua chiesa e della sua unità.

Poiché dunque nel ministero del vescovo o del parroco trova espressione la comunione della comunità locale con le altre comunità locali, e quindi l’unità della chiesa universale, la Costituzione sulla chiesa del Vaticano II ha legato la sua affermazione sulla presenza dell’unica chiesa di Cristo nelle comunità locali (LG 26) alla condizione già menzionata, ma finora lasciata da parte, del loro legame con i loro pastori e della legittimità che in tal modo è fondata: la legittimità della comunità raccolta per la liturgia dunque è data quando i vescovi e i parroci della chiesa locale sono m comunione con le altre chiese locali e in questo modo, quando celebrano l’eucaristia nella loro chiesa locale, possono rappresentare l’unità della chiesa universale. Il presupposto di questo è che i vescovi e i parroci di una chiesa locale abbiano ricevuto il loro ministero in accordo con la chiesa universale, cioè secondo l’ordinamento canonico e attraverso ministri che in questo atto rappresentano validamente la chiesa universale.

Su questo punto si pone una serie di problemi oggi ancora irrisolti nella relazione delle chiese cattolica-romana e ortodossa con le chiese della Riforma. Tali problemi riguardano il ministero ecclesiale e la sua trasmissione attraverso l’Ordinazione, come pure il ministero episcopale e il suo significato per la comprensione della chiesa, ma anche il concetto stesso di chiesa locale alla quale questi ministeri devono essere riferiti.

Che cos’è una chiesa locale? Si tratta del luogo dove abita insieme un gruppo di persone, oppure si tratta della comunità che si raduna nel luogo della liturgia attorno all’annuncio della Parola e alla celebrazione della Cena del Signore? La seconda possibilità sarebbe quella suggerita dal punto di partenza eucaristico dell’ecclesiologia e a favore depone anche l’affermazione già più volte citata della Costituzione sulla chiesa del Vaticano II sulla congregatio localis (LG 26). Al contrario l’espressione “chiesa locale” (ecclesia localis) in altri passi della Costituzione (p. es. LG 23) designa l’insieme di chiese guidate da un vescovo che formano la diocesi, la quale nello stesso articolo e altrove è detta anche ecclesia particularis. Questa plurivocità del concetto di chiesa locale è legata al fatto che da una parte il ministero episcopale fin dall’antichità è legato a un luogo e questo legame si è fissato dogmaticamente, mentre dall’altra parte da ministero originariamente locale è diventato sempre più un ministero di governo ecclesiale regionale. La mancanza di chiarezza nel concetto di chiesa locale, che altrimenti risulterebbe strana, diventa dunque comprensibile alla luce dello sviluppo storico del ministero episcopale. Essa è il risultato dell’ampliamento della competenza del vescovo dapprima all’intera città, Mi seguito anche a un territorio più o meno grande che viene legato a questa città. Soprattutto nel territori di missione dell’Europa del Nord sono sorte in questo modo diocesi assai vaste. Il senso originario di questa parola indicava invece coloro che abitavano intorno a una città, cioè il territorio circostante. Questo dato è così importante per la discussione ecumenica sul ministero episcopale che si deve approfondire dettagliatamente se si vuole chiarire il significato permanente del legame del ministero episcopale con la presidenza della celebrazione eucaristica locale.

Nel cristianesimo primitivo il ministero del “supervisore” o vescovo, secondo il giudizio sempre più accettato nell’odierna esegesi biblica, era legato alle chiese domestiche nelle quali i cristiani si riunivano. L’attestazione più antica del termine episkopos nel Nuovo Testamento, all’inizio della lettera ai Filippesi, parla perciò di una pluralità di questi “supervisori” nella comunità di Filippi, al contrario del successivo ordinamento della chiesa antica secondo cui in un luogo deve esserci solo un vescovo. Si calcola che nella città di Filippi vi fossero almeno tre di queste comunità domestiche, i cui episcopi forse erano gli stessi che erano a capo della famiglia, alla quale appartenevano anche gli schiavi e i liberti. E’ possibile che di questi capifamiglia ed episcopi facessero parte anche le donne Evodia e Sintiche ricordate in Fil 4, 2, le quali comunque, secondo la testimonianza dell’Apostolo, fin dall’inizio avevano una posizione di rilievo tra i cristiani di Filippi. Accanto agli episcopi Paolo menziona in Fil 1,1 i diaconi. Questa designazione si riferisce originariamente al servizio della mensa, ma nel Nuovo Testamento è utilizzata anche in senso generale per i servizi cantativi e di altro genere alla comunità. Si può pensare in ogni caso che i diaconi a Filippi compissero anche il servizio della mensa in occasione dei banchetti liturgici nelle comunità domestiche. La presidenza certo deve essere stata esercitata dagli episcopi.15

Attorno al 60, nella lettera di Paolo ai Filippesi, non è ancora riconoscibile una forma fissata di governo della comunità locale nel suo insieme . Nella grande città di Efeso può essere esistito già agli inizi un collegio di anziani, ispirato al modello giudaico, competente per l’intera comunità della città (Atti 20, 17), che era composto dagli episcopi delle comunità domestiche (20, 28). In epoca postapostolica, dopo che era venuta meno l’autorità personale dell’apostolo, si rivelò necessario un governo unitario dell’intera comunità di un luogo. Si trattava soprattutto del mantenimento della comunità nell’unità dell’insegnamento apostolico. Questa funzione venne collegata con un ministero episcopale esteso all’intera comunità. Questo sviluppo è attestato dalle Lettere Pastorali che nella ricerca neotestamentaria sono generalmente considerate postpaoline. La trasmissione delle lettere a Timoteo e a Tito sotto il nome di Paolo esprime che in esse, e in particolare nelle loro affermazioni sul ministero degli episcopi che ora sono competenti per l’intera comunità presente in un luogo, era in gioco il mantenimento della comunità nell’insegnamento ricevuto dagli apostoli. Il modello della comunità domestica (1TiM 3,4s. e 3,15) è stato così esteso all’intera comunità locale sotto la guida del suo vescovo. Questa comunità fu concepita come un’unica famiglia. Questa è l’origine della figura del ministero episcopale della chiesa antica, divenuta classica nell’epoca successiva, nel suo legame con una chiesa locale per la cui dottrina il vescovo nella successione degli apostoli è responsabile e che esercita la presidenza nella liturgia.

Questo significato classico del ministero episcopale non dipende, come si ritenne successivamente, dal fatto che gli apostoli stessi abbiano istituito i vescovi come loro successori. Questa concezione emerge solo nel secondo secolo della chiesa. Nel Nuovo Testamento, anche nelle lettere a Timoteo e Tito, non si parla di questo. Certo, secondo 2 Tim 1,6 lo stesso Paolo ha trasmesso a Timoteo e Tito il carisma della guida della comunità per mezzo dell’imposizione delle mani, mentre secondo 1 Tim 4,14 l’imposizione delle mani è compiuta dal collegio degli anziani che già esisteva. Tuttavia anche in 2 Tim 1,6 non si parla di una successione nella specifica autorità dell’apostolo che sarebbe legata a a questo atto. Al contrario, nelle due lettere a Timoteo (1, 1,15ss., 11, 1,9ss.) e anche nella lettera a Tito (2,1) si sottolinea l’obbligo nel confronti della dottrina del vangelo. D’altra parte, insieme alla responsabilità per la dottrina del vangelo, i vescovi dei primi secoli della chiesa hanno di fatto assunto l’autorità degli apostoli nella loro successione, e in questo hanno mostrato di essere successori degli apostoli, e la responsabilità per l’unità della comunità nella fede in Gesù Cristo trova la sua espressione visibile nella presidenza della celebrazione della Cena del Signore.

Il ministero episcopale nel primi secoli della chiesa è stato di fatto il ministero di un parroco locale, non il ministero di governo regionale della chiesa. Lo sviluppo verso un ministero di governo regionale può essere avvenuto per molte buone ragioni. Ma per il significato teologicamente normativo del ministero episcopale nella dottrina sulla chiesa, in particolare per un’ecclesiologia orientata alla comunione nell’eucaristia, è importante ricordarsi che il titolo di vescovo in questa forma divenuta classica propriamente è legato con il ministero di parroco locale. Nelle grandi diocesi della chiesa medievale necessariamente la guida della vita liturgica locale passò in altre mani e divenne compito dei presbiteri, il cui ministero, in modo simile a quello del vescovo, nel corso della storia ha subito rilevanti cambiamenti dal momento dell’istituzione di collegi di anziani per la guida delle comunità di una grande città come Efeso.

Se ci si ricorda che gli anziani a Efeso secondo gli Atti degli Apostoli (Atti 20,19) erano al tempo stesso episcopi, capi delle comunità domestiche, non è sorprendente che la relazione tra vescovi e presbiteri nella chiesa antica per molto tempo non sia stata caratterizzata da una chiara distinzione dei due ministeri, anche se Ignazio di Antiochia, già intorno alla metà del II secolo, ha fatto il tentativo di una chiara distinzione tra vescovo, presbiteri e diaconi (Ign. Smyrn. 8,1). Il Padre della chiesa Girolamo nel suo commento alla lettera di Tito e in una delle sue lettere (ep. 146, 1) ha trasmesso ai posteri la concezione più antica dell’uguaglianza di grado, anzi dell’identità dei ministeri del vescovo e del presbitero. Poiché le sue affermazioni sono state accolte nella collezione canonica medievale del Decretum Gratiani (I, 95, 5; MPL 187, 448 C f.) hanno esercitato un influsso rilevante sulle discussioni scolastiche circa il ministero ecclesiale. Nel Decreto di Graziano si afferma che il presbitero è identico al vescovo e che solo per consuetudine il ministero designato come vescovo è posto al di sopra dei presbiteri (Presbyter idem est qui episcopus, ac sola consuetudine praesunt episcopi presbyteris). A questa concezione si è richiamata anche la Riforma ed essa ha svolto un ruolo importante nella istituzione della prassi di ordinazione della chiesa luterana dopo il 1530: invece che dal vescovi, che rifiutavano l’ordinazione dei protestanti, l’ordinazione dei parroci fu compiuta dai presbiteri, richiamandosi alla originaria identità del ministero episcopale e del ministero del presbitero o del parroco e appellandosi alla situazione di necessità che imponeva di dare dei parroci alle comunità evangeliche.

Si pone così fino ad oggi il problema ecumenico della legittimità o illegittimità del ministero dei parroci evangelici e della amministrazione dei sacramenti esercitata dal parroco evangelico. La chiesa cattolica-romana ancora al Vaticano II ha parlato di una defectus ordinis nelle chiese della Riforma, con la conseguenza che in esse la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico non è stata conservata (UR 22: genuinam atque integram substantiam Mysterii eucaristici non servasse). Per il Concilio sussiste dunque un legame tra la legittimità della trasmissione del ministero attraverso il vescovo e il mantenimento del mistero eucaristico della presenza di Cristo nel pane e nel vino nella liturgia celebrata sotto la guida del rispettivo ministro. Che un tale legame esista non è controverso dal punto di vista ecumenico e nelle considerazioni di questa relazione si è mostrato su quale fondamento esso oggettivamente si basa. La cosiddetta successione apostolica nella trasmissione del ministero mediante l’Ordinazione rappresenta un aspetto della conservazione della comunione ecclesiale, connessa con il ministero ecclesiale, come espressione dell’unità della chiesa. Nel dialogo ecumenico tuttavia la validità del ministero forse non dovrebbe essere valutata solo sulla base della legittimità formale della trasmissione del ministero, ma soprattutto verificando se è adempiuta effettivamente e adeguatamente la funzione di cui il ministero episcopale è divenuto espressione classica nella chiesa antica. La Riforma luterana inoltre ha certamente cercato di mantenere la successione apostolica nel ministero, nella misura in cui è stato possibile ai Luterani dopo il 1530. Con un’ordinazione conferita dai presbiteri si credeva sì di andare contro il privilegio di ordinazione dei vescovi medievali, ma di conservare ugualmente la sostanza della successione apostolica nel ministero perché ministero episcopale e presbiterale, visti dal punto di vista teologico, erano identici. Inoltre la parte protestante non ha contrapposto in linea di principio questa prassi di ordinazione all’ordinazione episcopale, ma l’ha giustificata con la situazione di emergenza delle comunità evangeliche. La parte cattolica fino ad oggi non ha apprezzato pienamente questo dato di fatto nel dialoghi ecumenici sul ministero ecclesiale, anche se la tesi di una identità sostanziale tra ministero episcopale e ministero del parroco (ministero presbiterale) non era affatto una dottrina propria della Riforma, ma nella teologia cattolica medievale era sostenuta da numerosi importanti teologi. Anche il Vaticano II, come ha mostrato ampiamente il canonista cattolico Hlubert Müller, non ha deciso questa questione.16 il Concilio ha certo sottolineato che il ministero episcopale è la figura piena del ministero ecclesiale e ha ribadito la subordinazione dei presbiteri rispetto ai vescovi, ma non ha chiarito se esista, ed eventualmente dove sia da collocare, una differenza sacramentale tra il ministero dei vescovi e dei presbiteri. Questa questione continua perciò ad essere aperta e questo potrebbe essere significativo per un accordo ecumenico sul ministero ecclesiale delle chiese luterane. Un tale accordo dovrebbe essere favorito anche dall’approccio della ecclesiologia della communio. Ad essa corrisponde una riflessione sul riferimento originario del ministero episcopale alla comunità liturgica locale. Per questo il ministero del parroco della comunità è per sua natura un ministero episcopale, anche se il titolo di “vescovo” viene oggi riservato a colui che esercita un ministero regionale di sorveglianza, come avviene anche nelle chiese evangeliche, benché la Riforma a buon diritto abbia compreso lo stesso ministero del parroco come un ministero episcopale: a questo ministero è affidata la responsabilità per l’insegnamento del Vangelo e per l’amministrazione dei sacramenti conformemente alla loro istituzione, e quindi la responsabilità per l’unità della comunità nella fede apostolica. Secondo la comprensione luterana questa è la forma fondamentale della chiesa: essa è congregatio fidelium nella quale il vangelo è predicato con purezza e i sacramenti sono celebrati conformemente alla loro istituzione (CA 7). Quando nello stesso articolo della Confessio Augustana si afferma che il consenso sul Vangelo e sui sacramenti è sufficiente per l’unità della chiesa, è incluso anche il consenso sul ministero ecclesiale. Non c’è controversia neppure sul fatto che questo ministero è sostanzialmente identico con il ministero episcopale della chiesa antica e la responsabilità di questo per l’annuncio della dottrina, mediante la quale si prende cura che la fede della comunità locale rimanga in accordo con la fede dell’intera cristianità sul terreno dell’insegnamento degli apostoli. La confessione luterana si trova così in accordo con la tradizione cattolica della chiesa. Dove però è presente un tale grado di sostanziale consenso, nella prospettiva di una ecclesiologia della communio dovrebbe esserci non solo la possibilità ma addirittura l’obbligo di ristabilire la comunione ecclesiale dove questa è stata interrotta.

1 Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 16.1.1995 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

2 L’articolo è apparso nella Festschrift per P.W.Scheele: Communio Sanctorum. Einheit der Christen – Einheit der Kirche, hg. Von J.Schreiner und K. Wittstadt, 1988, 439-469, citazione 469.

3 N. Afanassieff, La Cène du Seigneur, Paris, 1952.

4 W.Elert, Abendmahl und Kirchen gemeinschaft in der alten Kirche hauptsächlich des Ostens, 1954.

5 P.Brunner, Die Einheit der Kirche und die Verwirklichung der Kirchengemeinschaft (1955), in: Pro Ecclesia. Gesammelte Aufsätze zur dogmatischen Theologie I, 1962, 225-234.

6 J.Ratzinger, Die Ekklesiologie des Zweiten Vatikanums, in Internationale katolische Zeitschrift “Communio”, 15(1986), 41-52. 44.

7 W.Kasper, Kirche als communio. Überlegungen zur ekklesiologischen Letidee des Zeiten Vatikanischen Konzils, in F. Kardinal König (Hg.), Die bleibende Bedeutung des Zweiten Vatikanischen Konzils, 1986, 64.

8 J.Reumann, Koinonia in der Bibel, in: Santiago de Compostela 1993. Fünfte Weltkonferenz für Glauben und Kirchenverfassung (Hg. G. Gassmann und D. Heller) 1994, 37-69.

9 J. Roloff, op. cit., 101.

10 J. Roloff, op. cit., 104.

11 A ragione sostiene questo Ratzinger, Art. “Kirche” in LThK 2. Ed 6, 1961, 172-183. Cfr. Idem, Das neue Volk Gottes. Entwürfte zur Ekklesiologie, 1972, 97.

12 LThK Erg. Bd. I, 1966, 242-244

13 J. Ratzinger, Die Ekklesiologie des Zweiten Vatikanums, in Internationale katolische Zeitschrift “Communio”, 15(1986), 41-52, 46.

14 P. Brunner, Pro Ecclesia I, 1962, 231.

15 Sul rapporto tra le funzioni degli episcopi e dei diaconi in Paolo cfr. J. Roloff, Die Kirche im Neuen Testament, 1993, 142s., e, in modo più ampio, Idem, Der erste Brief an Timotheus, 1989, 169-189.

16 H. Müller, Zum Verhältnis zwischen Episkopat und Presbyterat im Zweiten Vatikanischen Konzil. Eine rechstheologische Untersuchung, 1971.