La complessità dell’Europa nella politica estera

Tematiche: Europa

Mai come nell’anno 2003 si è sentita la mancanza dell’Europa nel mondo. A causa di alcune situazioni internazionali di crisi, prima di tutte il Medio Oriente e l’Iraq, c’è stata una manifestazione di preoccupazione a livello popolare, nelle piazze, nelle marce che in qualche modo chiedeva all’Europa, che timidamente si era contrapposta agli alleati americani, una presenza politica più forte. Quindi, da un lato, questo è l’anno in cui probabilmente la mancanza di un’Europa politica si è fatta sentire con più pregnanza, con più urgenza, ma allo stesso tempo, in tema di politica estera, la convenzione è stata forse più deludente che in altri settori.

Ci sono ragioni di speranza, per esempio nelle cooperazioni rafforzate che sono permesse, ovvero nell’idea che un nucleo di paesi che si senta più avanti degli altri proceda sulla strada di una costruzione della politica europea anche più velocemente. Ma il punto critico sta nella mancanza di un progetto compiuto di costituzione, un progetto che soddisfi i criteri democratici della politica in Europa e sia in grado quindi di permettere la proiezione, all’esterno dei confini dell’Europa, di una politica estera che sia propriamente tale.

In questo senso uno degli elementi che distinguono la politica estera dagli altri tipi di politica, quale la politica monetaria, agricola, commerciale, che sono già stati integrati a livello europeo, è il fatto che il ritmo della politica estera non dipende dagli attori che la esercitano, ma dipende da contingenze esterne. In qualche modo la necessità di trovare delle decisioni condivise ed efficaci è molto rafforzata dal fatto che, al contrario della politica agricola che può avere un ritmo più lento, c’è un’impellenza dovuta al fatto che ci sono degli eventi che procedono con un ritmo proprio e quindi l’Europa o è in grado di decidere abbastanza velocemente oppure perde il treno della capacità di impattare sulla realtà internazionale.

Pensiamo, per esempio, alla crisi in Iraq: l’Europa si è divisa e può darsi che col tipico ritmo europeo avrebbe alla fine trovato un consenso, semplicemente non ha fatto in tempo. La divisione c’è stata e non si è ricomposta prima che finisse la guerra. Dunque, per tutto il periodo della crisi, l’Europa è rimasta impotente proprio a causa della sua incapacità, con gli attuali meccanismi decisionali, di trovare un consenso efficace in tempi utili.

A mio avviso il fallimento della politica europea non viene affrontato dal progetto di costituzione, proprio perché sulla politica estera manca una riflessione su uno degli attori principali, che è stato ignorato nei negoziati. Come sapete c’è un braccio di ferro tuttora in corso tra i governi e la commissione sul ruolo relativo delle varie istituzioni europee e tendenzialmente su quasi tutte le questioni. La commissione rappresenta la bandiera più federalista ed i governi quella più statuale delle sovranità nazionali.

In tutto il dibattito c’è un convitato di pietra che è stato in qualche modo ignorato nella battaglia tra consiglio e commissione; esso è invece il convitato più importante dal punto di vista della legittimazione della politica estera, cioè il parlamento europeo. Quest’ultimo non ha acquisito un ruolo determinante nella politica estera e pertanto nel futuro più immediato non potremo avere un meccanismo di legittimazione della politica estera che possa renderla autosufficiente dai veti degli stati nazionali. Ciò avviene perché, al contrario di altre politiche, come quella monetaria che era stata delegata a burocrazie di tipo tecnico, la politica estera è rimasta in un ambito squisitamente politico, avendo a che vedere con la vita e con la morte delle persone.

È una decisione che riguarda proprio il livello della democrazia a cui vogliamo approdare nel ventunesimo secolo. Se vogliamo un’Europa politica abbiamo bisogno di un parlamento europeo che possa legittimare quella politica estera anche a prescindere dalle opinioni dei parlamenti nazionali, altrimenti vorrà dire che i parlamenti nazionali continueranno ad avere diritto di veto sulla politica estera il che, per le ragioni che dicevo prima, significa non avere una politica estera efficace.

Si può avere una politica estera tecnocratica su vicende minori, ma sarà una politica estera di basso profilo. In questo momento ci sono operazioni di peace-keeping in Congo e Macedonia: per la prima volta che ci sono dei soldati con la bandiera europea e non la bandiera della NATO, dell’ONU o delle nazioni. Ci sono dei passi avanti nei termini della costituzione di una agenzia per gli armamenti, un tentativo di creare un mercato comune delle armi, ma sono minori rispetto alla grande questione della politica estera, cioè a quale livello possiamo prendere le decisioni.

Non è infatti così scontato che tutti preferiscano prendere queste decisioni a livello europeo, poiché qualora ciò dovesse succedere vi sarebbe in qualche modo un indebolimento della sovranità nazionale anche su una questione come la vita e la morte. Vuol dire che soldati italiani potrebbero essere mandati in missione su decisione del parlamento europeo, rischiare la loro vita, anche se l’Italia e la maggioranza degli italiani fossero contrarie. Quindi si tratta di un grande passo per l’Europa politica, che richiede un cambiamento di mentalità molto forte; non si può fare a piccoli passi, ma con decisione.

Perché io ritengo che ci siano dei rischi sopportabili, che devono riportare, almeno per il settore della politica estera, alla riapertura in breve tempo del processo costituente? Perché la costituzione può andare bene in certi settori ma deve essere riaperta sotto questo punto di vista di legittimare democraticamente una politica estera più efficace? Innanzitutto perché ritengo che il mondo ne abbia bisogno, ma di questo parlerò più avanti. Prima, volevo dire che a mio avviso i rischi non sono così importanti, sono in qualche modo superabili. Sta emergendo a livello europeo un comune sentire su quali siano i fondamenti della politica estera e quindi il rischio prima paventato si sta riducendo, proprio perché progressivamente molti degli stati europei stanno cominciando ad avere una visione comune della vocazione europea nel mondo. Dunque è difficile che ci siano delle contrapposizioni molto forti.

Qual è la vocazione dell’Europa che è stata così evidente nella sua assenza durante la crisi in Iraq e che in futuro auspichiamo possa diventare l’anima di una politica estera europea? Il concetto della potenza civile riassume abbastanza bene quali sono il vissuto di esperienze dell’Europa, innanzitutto nel continente europeo e poi nei rapporti con il resto del mondo. Una potenza civile è una potenza che cerca di non essere tradizionale riguardo alle vicende della pace e della guerra, la traduzione letterale di una potenza civile è una potenza non militare, che non utilizza una guerra come strumento normale della propria politica estera, anche se magari non la esclude. Ed è soprattutto una potenza che non solo non usa degli strumenti convenzionali, ma si pone anche degli obiettivi non convenzionali.

Il più grande successo dell’Europa fino ad oggi, cioè la riappacificazione franco-tedesca che era una delle principali preoccupazioni dei padri fondatori dell’Unione Europea, non è avvenuta mediante spartizioni diplomatiche, o la creazione di stati cuscinetto, cioè quello che sarebbero stati per molti secoli i tradizionali modi di mettere a posto le vicende e le rivalità intra-statali, ma attraverso un metodo altamente rivoluzionario, cioè quello dell’integrazione, a cominciare dalla cosa più difficile, il carbone e l’acciaio che erano stati considerati fino a quel momento il polmone principale della capacità di guerra di uno stato.

Stiamo vivendo oggi un altro grande epocale esperimento di questa grande potenza civile, che è l’allargamento della Unione europea. Euro-scettici inclusi, tanti responsabili ministeriali di politiche europee tendono a scontare, a ridurre l’allargamento ad una questione contabile e aritmetica di qualche fondo agricolo in più o in meno a causa della necessaria ripartizione su un numero più ampio di paesi. L’allargamento è soprattutto un grande atto di politica estera, cambia la faccia di un continente: è la più grande unificazione politica della storia. L’Europa dopo l’allargamento è più grande dell’Europa dell’impero romano, è più grande dell’Europa carolingia ed è più grande dell’Europa di Napoleone. È la più grande unificazione della storia del continente. E per la prima volta, al contrario delle prime tre unificazioni, viene fatta con mezzi pacifici.

L’idea è quella di cambiare la faccia di un continente, di evitare nuove Jugoslavie, nuove degenerazioni come quelle che ci sono state nei Balcani negli anni ’90, aiutando la transizione. Questo viene fatto seguendo i precetti di quella che prima chiamavo potenza civile: l’utilizzo di strumenti non tradizionali, l’allargamento di istituzioni, di mercati, non l’uso di eserciti. Anche gli obiettivi non sono tradizionali, si cerca non solo di cambiare la politica estera dei paesi dell’Est, ma di cambiarne le istituzioni interne, il mercato, la costituzione, l’ambiente giuridico.

C’è un ulteriore passo di questa potenza civile che è in una strategia lanciata dal Presidente della commissione che si chiama “Everything but institutions”, l’idea che tutto, tranne le istituzioni rappresentative, tutto tranne il parlamento europeo, debba essere allargato ai paesi vicini, in vista di una nuova, più grande Unione Europea. Quindi si dovrà creare un alone, un anello degli amici, attorno alla Unione, che va dalla Russia al Medio Oriente a tutto il Nord Africa, di condivisione, anche qui non tradizionale, di realtà come il mercato unico, perfino la moneta in alcuni casi, in modo di cercare di stabilizzare in termini di potenza civile, le zone che sono intorno alla Unione Europea.

Però non bisogna nemmeno essere troppo utopistici. Il limite della strategia della potenza civile è dovuto soprattutto al fatto che essa riesce ad esprimersi al meglio in un ambiente dove l’ordine, la pace, è già garantita. Così è avvenuto in Europa dove, per tante ragioni, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la pace era in qualche modo assicurata, ragione per cui l’Unione Europea ha potuto operare al meglio. Il mondo d’oggi, del ventunesimo secolo è un mondo nel quale è difficile riuscire ad estendere questo modello acriticamente, per due ragioni fondamentali.

La prima è che l’Europa è diventata meno importante negli ultimi cinquant’anni. All’inizio del percorso europeo, negli anni quaranta e cinquanta, l’Europa era la scacchiera più critica, cruciale del mondo, dove si giocavano i destini delle superpotenze. Adesso non è più così, adesso ci sono altre zone strategiche, anche in Asia (si parla del “secolo Pacifico” pensando al ventunesimo secolo): in un certo senso, l’Europa è diventata più marginale.

Inoltre, nonostante i processi di globalizzazione, c’è ancora una forte instabilità nel mondo extra-europeo e questo lo intravvediamo tutti i giorni. In realtà ne siamo consapevoli solo per una parte, perché c’è una forte selettività nel modo in cui ci sono presentate le cose, per cui ci si dimentica facilmente delle guerre civili, come quelle in Congo, che ha mietuto tre milioni di vittime dal ’98 a oggi. In ogni caso anche quel poco che filtra, perché spettacolare, dal sistema dei media, è sufficiente da preoccupare in quanto a stabilità. Effettivamente in un mondo così poco ordinato, così poco stabile, la potenza civile classica conta di meno (e abbiamo visto in Iraq l’irrilevanza dell’Europa).

Penso sia il caso che ci facciamo una domanda: è contraddittorio che una potenza civile si doti di strumenti di politica estera, di strumenti di politica di difesa? Non viola in qualche modo la sua vocazione? Io penso di no, perché credo che ci sia un livello di ordine che debba essere garantito, ci sono momenti in cui anche gli elementi militari, ovviamente in maniera non esclusiva, possono essere necessari. Mi riferisco alle guerre in Congo, in Jugoslavia, alle recenti guerre civili in Liberia e Sierra Leone, che sono state calmierate da interventi militari. Non si tratta di perdere la vocazione di potenza civile, bisogna che questi strumenti siano utilizzati per fini non tradizionali, coerenti con la tradizione europea di potenza civile.

Dunque è, a mio avviso, possibile senza contraddizioni che l’Europa rimanga potenza civile anche se assume un profilo più alto, in quanto l’Europa ha delle posizioni abbastanza coerentemente contrastanti con quelle di una potenza classica militare, come sono stati gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush. Sottolineo “sotto l’amministrazione Bush”, perché ritengo ci sia una qualche eccezionalità nella politica estera americana degli ultimi anni. Non credo che qualsiasi amministrazione avrebbe assunto le stesse decisioni che ha preso l’amministrazione Bush negli ultimi tre anni.

Ci siano tre motivi per differenziare la vocazione europea rispetto a quella dell’amministrazione Bush guardando gli eventi degli ultimi anni. In primo luogo c’è effettivamente una diversa concezione della vulnerabilità: gli Stati Uniti si sentono sotto una minaccia urgente, e l’11 settembre ha cambiato proprio i parametri di riferimento della politica non solo estera americana. Ci sono segnali di scricchiolio della difesa dei diritti umani anche all’interno degli USA, pensiamo per esempio all’utilizzo dei tribunali militari, che ha un carattere piuttosto eccezionale per la tradizione statunitense. Da questa parte dell’Atlantico, l’11 settembre è stato vissuto in una maniera diversa; certo con allarme, ma allo stesso tempo con un rafforzata volontà di non fare compromessi appunto con le proprie istituzioni liberali democratiche di fronte all’attacco terroristico.

In seguito all’11 settembre gli Stati Uniti sono entrati in un mondo più simile a quello in cui l’Europa è sempre vissuta. Gli Stati Uniti sono sempre stati da soli sul loro continente, non avevano grandi minacce nel Nord America, pertanto hanno uno standard di invulnerabilità molto elevato a causa di questa storia fortunata. Di conseguenza anche la minima minaccia è in grado di mobilitare grandissime emozioni. Viceversa, l’Europa viene da una storia diversa; il continente è piccolo, con molte superpotenze che si pestano i piedi e si sono sempre fatte le guerre. Quindi la faticosa uscita dal mondo di guerre in Europa è venuta con la consapevolezza che non bisogna sovra-reagire, non bisogna esagerare con la reazione di fronte alle minacce. C’è un livello di abitudine a tollerare posizioni diverse molto elevato. Questo accadeva anche in passato. Pensiamo alla crisi dei missili di Cuba: l’idea stessa impensieriva gli americani a tal punto da rischiare anche una crisi atomica con l’Unione Sovietica. Ebbene, gli europei avevano gli stessi missili puntati contro da otto o dieci anni e questo non aveva comportato uno stesso di tipo di reazione. Effettivamente c’è una tradizione storica diversa.

La seconda grande differenza è quella della interpretazione della democrazia. Senz’altro la democrazia è una cosa che accomuna le due sponde dell’Atlantico e la politica estera europea è sempre stata coerente in questo: l’allargamento è una grande operazione di democrazia. Ma ultimamente gli americani e alcuni loro alleati europei sembrano aver preso la democrazia come una religione secolare, una religione civile che merita una crociata, una violenta esportazione. Questo va contro alla tradizione europea più moderna.

Dal millecinquecento in poi c’è in Europa l’idea che le differenze religiose non sono una ragione sufficiente per poter scatenare un conflitto. La scolastica spagnola del cinquecento diceva che era appunto immorale fare una guerra per le differenze religiose, cercando di proteggere gli Indios dai conquistadores. Ciò è stato sancito formalmente nei trattati di Westfalia che sono stati un tentativo di convivenza pacifica tra le grandi potenze europee. Ebbene, l’idea che la democrazia sia una grande religione che merita un missionariato militante, e possa avanzare in maniera un po’ trotzkista sulla punta delle baionette non viene condivisa in Europa. Anche il recente intervento militare in Kosovo voluto dagli europei, non era di certo diretto a modificare le istituzioni a Belgrado. È stato un effetto indiretto, voluto in primo luogo dagli stessi serbi, non era uno degli obiettivi militari.

La guerra in Iraq è l’esempio di un tentativo di esportare forzosamente la democrazia. Va contro la tradizione europea e contro il buon senso, perché è estremamente difficile che abbia successo. Dei sedici tentativi del ventesimo secolo di portare democrazia dall’esterno, solo quattro hanno avuto successo. Essi sono i due casi di Germania e Giappone e due casi in America Latina negli anni ottanta. In tutti questi quattro casi di successo c’era però una forte rete e spinta locale per la democrazia. Infatti, il trasferimento di autorità dalle truppe ai governi nazionali è stato estremamente rapido; molto più rapido di quello che sta avvenendo in questo momento in Iraq.

La terza differenza che la politica estera europea potrebbe esprimere riguarda proprio l’atteggiamento verso le minacce e le crisi nel mondo. Nell’amministrazione americana di oggi c’è la tentazione di risolvere la vicenda del terrorismo una volta per tutte. Se solo andasse bene l’intervento in Afghanistan, se solo andasse bene l’intervento in Iraq, se solo… la prossima volta sarà un altro paese, allora riusciremo ad aver debellato il terrorismo. Non è un caso, infatti, che venga utilizzata la parola “guerra” al terrorismo, come se la guerra comportasse poi una vittoria e il giorno in cui viene firmato un trattato di pace c’è la fine della guerra al terrorismo. A mio avviso, è un grosso errore nell’interpretare quello che sta succedendo, perché la guerra presuppone comunità politiche diverse, come se ci fossero due stati, due gruppi che si combattono gli uni con gli altri.

Questa impostazione non permette di comprendere cosa sia veramente il terrorismo internazionale e soprattutto rischia di creare situazioni controproducenti, come quella che si è verificata in Iraq, dove in seguito all’intervento il terrorismo non è diminuito e, se mai, è aumentato. Quindi il pregio dell’intervento in Iraq, dal punto di vista della lotta al terrorismo, è ancora tutto da dimostrare.

La ragione è che non stiamo vivendo una guerra tra civiltà. L’obiettivo dei terroristi non è quello di islamizzare l’Occidente, non è quello di portare la mezza luna su New York. In realtà siamo di fronte a problemi che sono interni alle società che esprimono il terrorismo, siamo più vicini ad una guerra civile all’interno del Medio Oriente, soprattutto dei paesi arabi. In qualche modo, l’Occidente è stato colpito di riflesso e per questo non c’è una grossa remora a procurare tante vittime, perché l’obiettivo principale è quello di portare a termine un’operazione che ha soprattutto a che vedere con il Medio Oriente. Per poter combattere questo fenomeno è evidente che ci vuole un’azione più lunga nel tempo, che tocchi variabili di tipo sociale, economico ed istituzionale, e su questo l’Europa ha molto da contribuire, ha una grande missione per poter modificare l’atteggiamento americano, ma se non avrà gli strumenti necessari mancherà anche a questo appuntamento.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.11.2003 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.