La concezione progressiva della tecnica in Virgilio

I
Se si pensa a Virgilio come all’idillico cantore di Titiro che flauteggia sotto l’ombra di un faggio, può sembrare fuori tono parlare di una sua concezione della tecnica. L’attributo «progressiva» poi apparirebbe solo una concessione alla moda del momento. In verità, anche fermandosi alle Bucoliche, la nota prevalente non è l’evasione. La stessa Arcadia, sia stata o no inventata ora per la prima volta, è un paesaggio dell’anima .
Anche nelle Georg. 2,136-176 le laudes ltaliae descriveranno un paese ideale, ma fortemente tecnicizzato (agricoltura, miniere, città, porti, opere idrauliche). I personaggi delle ecloghe sono agricoltori e contadini; conoscono le tecniche in uso per lo sfruttamento della terra e non ignorano i prodotti dell’artigianato ; vivono in una civiltà agricola, cioè relativamente avanzata, che sta a quella precedente, come la nostra industriale sta a quella cosiddetta contadina. Ossia il passato è quasi mitico, rappresenta un costume diverso, come è per noi la civiltà contadina (che è cosa ben diversa dall’agricoltura, come tecnica e come impresa). Quell’altra civiltà ha confini incerti: sta fra pastorizia, silvicultura e nessuna cultura, essendo ben chiaro che vi sono tecniche di allevamento del bestiame e di arboricoltura, che non appartengono al passato. Già nella precedente letteratura agricola romana qualche volta la zootecnia risulta di collocazione incerta, ora come simbolo di una fase intermedia della civiltà (dopo la silvicultura, prima dell’agricoltura), ora come ramo specializzato della economia campestre moderna .
Se la civiltà di riferimento è l’agricola, anche nelle Bucoliche, a dispetto dei canti e degli amori dei protagonisti (che del resto esorcizzano le paure della realtà contemporanea), il paesaggio non è la natura intatta, selvaggia e primitiva, ma i laeta sata e i tam culta novalia (sullo sfondo si indovina non solo la mitica Arcadia, ma anche l’assolata Sicilia e soprattutto la pianura padana, solcata da canali artificiali e ora dal reticolo della centuriazione). Il lavoro e la tecnica sono presupposti; non è essenziale che siano direttamente rappresentati, basta che siano elementi presenti nella costruzione dell’ambiente e non respinti dall’ideologia. Del resto anche nelle Georgiche, Virgilio non sempre assume di descrivere gli instrumenta . Però è certo che nel poemetto didascalico lavoro e tecnica vengono in primo piano: si pone direttamente il problema storico, morale e sociale dell’impegno umano. L’ozio si rappresenta come il modo di vivere di una età irreale (l’età dell’oro, l’età della produzione spontanea), il lavoro come la modalità caratteristica dell’epoca storica (la sola che importi). Col lavoro non solo l’uomo sopperisce ai suoi bisogni, ma si realizza. L’assunzione di questa consapevolezza e i modi di esercizio delle modalità, che ne derivano, costituiscono il problema morale. Il lavoro identifica l’uomo e trasforma la natura, ma ha bisogno di strumenti e di regole. Il primo strumento è la mano: la tecnica è l’organizzazione dell’opera delle mani e il loro prolungamento (o la sostituzione) con artifici e strumenti. Quindi il problema della tecnica è quello stesso del lavoro: nel passo di Georg. 1,118-159 nascono a un tempo il labor improbus e le variae artes (145). Avendo in altra sede esaminato del lavoro l’aspetto etico, qui vorrei condurre qualche osservazione sul ruolo specifico della tecnica nella concezione virgiliana.
II
La definizione della tecnica rapportata al lavoro è poco determinata. Per il momento significa solo superamento del concetto di natura come status originale; è anche cultura in quanto coinvolge l’uomo. Però può essere meglio chiarita. Oggi la tecnica non ha bisogno di definizione, perché è un fenomeno evidente e vistoso, sotto gli occhi di tutti: i retori la chiamerebbero una nozione comune. Ma la tecnica, come la scienza, è un prodotto storico; cambia in relazione ai tempi e alle diverse società . Sono noti i contraccolpi negativi della imposizione di certe tecniche a culture diverse. Così è difficile capire il mondo antico (proprio anche in quanto radice del moderno, e cioè diverso), applicandovi i nostri parametri. Per es. la tecnologia romana manca di due caratteristiche quasi ovvie per la nostra contemporanea, cioè i collegamenti con la scienza e con l’economia . La scienza per i romani è soprattutto speculazione, appartiene all’ordine teoretico, parente stretta della filosofia. Anche Virgilio nell’importante dichiarazione di Georg. 2,475-503 prende le distanze dalla poesia scientifico-filosofica (Lucrezio) per rivendicare il suo titolo di maestro di vita. L’economia poi, non ancora teorizzata, né disciplina né etica, ma solo necessità naturale, governa molte attività pratiche, ma non ne costituisce la tavola di valore: Tacito, Ann. XVI, 17 nota la singolarità di Anneo Mela, fratello di Seneca e padre di Lucano, il quale accumulava capitali per ambitionem praeposteram, ut eques Romanus consularibus potentia aequaretur (dunque la ricchezza non era riconosciuta come un potere sociale, benché fosse anche allora uno strumento di affermazione). La tecnica, anziché figlia della scienza e serva dell’economia, è risposta alle esigenze emergenti. Virgilio l’ha già detto nel passo famoso di Georg. 1,133 ut varias usus meditando extunderet artes, dove ha accostato in bella sintesi le esigenze (usus) al risultato (artes) attraverso la risposta concettuale (meditando). L’usus da solo (ipse) suggerisce le tecniche di riproduzione delle piante (Georg. 2, 22) ecc. Non si può dire neanche che la tecnica fosse funzionale al risparmio di forza di lavoro (se non qualche volta per ragioni morali). In un’economia schiavista, che disponeva di grandi quantità di mano d’opera a basso prezzo, il problema si poneva in termini ben diversi dagli attuali.
In cambio della sua evidenza e della sua preminenza, il nostro concetto di tecnica è più ristretto di quello romano. Adattando la terminologia di Lampe-Cerigliano, che distinguono tre tecnologie (fisica, sociale, processuale) , direi che nell’opinione comune la nostra è limitata al primo tipo, quella romana privilegia il secondo. È tecnica anche l’organizzazione della vita sociale, con i suoi strumenti e i suoi problemi. I romani usano la parola per le altre come per le «arti» dello stato (ricorda l’apostrofe famosa di Aen.6,847-853, che contrappone la tecnologia preferita da loro, regere populos, a quella d’altri, scultura, oratoria, astronomia). Quindi i romani hanno elaborato profondamente la tecnica dell’organizzazione sociale, il diritto, l’amministrazione civile e militare, gli strumenti di partecipazione (tra cui la retorica), fondando alcuni istituti, che a noi sembrano addirittura connaturati, tanto bene sono stati assimilati (ma di cui vediamo la storicità, entrando in contatto con altri popoli). Una corretta valutazione della idea di tecnica in Virgilio dovrebbe dunque essere estesa a tutta l’area di valore della parola ai suoi tempi e nella sua civiltà.
Ma anche stando dentro alla sola tecnologia fisica, e quindi con una visione riduttivamente modernizzata, si possono fare interessanti considerazioni. Altri antichi (Vitruvio, Frontino) scelgono diversi settori in cui la tecnologia fisica dei romani si esercita con successo: le costruzioni, le strade, la guerra. Virgilio sceglie l’agricoltura, più tradizionale, ma anche più simbolica. L’agricoltura è in grado di porre al poeta non solo i problemi tecnici, ma anche quelli morali. Sul piano tecnico gode di una lunga fortuna e di precedenti illustri, che ne hanno fatto una disciplina. Nelle Georgiche vengono assunti direttamente come tema i modi dell’intervento sulla natura; dunque al centro dell’attenzione è la tecnica vera e propria. Mito e precettistica, che caratterizzano nella loro alternanza la struttura del poemetto, non sono, rispettivamente, poesia e non poesia, ma rivelano una singolare coerenza concettuale. Persino l’episodio finale, che sembra il più gratuito e il più enigmatico, conferma la tesi di fondo: Orfeo, che è un contemplativo, vorrebbe la pura e semplice conservazione della vita (la risurrezione di Euridice) senz’altro impegno che il suo sentimento, ma è sconfitto; Aristeo, che è un apicoltore attivo, rimedia all’epidemia con un espediente (fantastico come si vuole, come il mito esige). Il vecchio di Corico, il cui episodio è significativo non foss’altro per la sua collocazione (4,116-148), impiega tecniche avanzate: fa produrre terreni ingrati, ottiene frutti fuori stagione, trapianta alberi adulti.
I più alti risultati tecnologici sembrano ottenibili nell’ambito delle culture arboree. In questo le Georgiche riflettono probabilmente lo stato delle conoscenze contemporanee. In zootecnia l’intervento è limitato, e specialmente difensivo. Tende a selezionare gli individui, a migliorare la razza, ma può ancora poco contro il male (la peste del Norico, la moria dell’alveare). Nelle piante invece va oltre. Il momento culminante è il capitolo sull’innesto. Virgilio lo tratta in pochi densissimi versi (2, 69-82), ma con ambizioni di completezza, nell’ambito sia della riproduzione artificiale delle piante (un tema importante per assicurare la continuità della natura e insieme il suo controllo da parte dell’uomo), sia della loro trasformazione (che esalta ancor più il dominio tecnologico). Nel primo senso l’innesto rappresenta il culmine dei modi elencati tra i vv. 23 e 31. Nel secondo è il punto più alto di una triplice gradazione, che vede trasformare le piante da selvatiche in domestiche (47-56), da domestiche sterili in domestiche feconde (57-62), da una specie all’altra (69-82). Il momento intermedio e, contro le apparenze, più grave del primo, perché si oppone alla degenerazione della specie, che Virgilio considera un fatto non sporadico, ma normale (la natura reale è malata):. cfr. per es. 1,197-203 sulla degenerazione dei semi. Infatti le piante selvatiche trascelte per l’addomesticamento sono vigorose e congeniali al terreno, cioè godono di condizioni favorevoli. Di conseguenza la tecnica di conservazione della specie è più sofisticata che quella usata per addomesticare le essenze selvatiche. E a sua volta l’innesto è ancora più complesso, sia che si operi a marza che a occhio (nel primo caso “si pratica un piccolo buco proprio nel nodo, dove le gemme sbucano dall’interno della corteccia e ne rompono la sottile membrana: qui introducono un germe tratto da una pianta diversa e lo fanno crescere sull’umida membrana”: nel secondo caso «si tagliano tratti senza nodi e col cuneo si apre profondamente una via fino al cuore della pianta, poi si introducono marze produttive»). La scelta delle diverse tecniche non è arbitraria: dipende dal tipo di pianta. L’intervento sulla natura rispetta la natura, questo è il punto. Se il procedimento è corretto, la prova è offerta proprio dal perfetto ambientamento che ne consegue: «non passa molto tempo e un grande albero si innalza verso il cielo con rami fiorenti e ammira le sue nuove fronde e i frutti non suoi» (80-82). Buona tecnica è quella che si fa natura, nell’atto stesso di trasformarla. Il quadro finale dell’albero non è trionfalismo: nel passo il poeta ha insistito sul cultus frequens (51), ha ripetuto che omnibus (nota la generalizzazione) labor impendendus (61) e multa mercede domandae (62) pur affermando il dominio tecnologico (52, in quascumque voles artes, haud tarda sequentur). La ricchezza dell’età dell’oro, quando l’uva pende dai rovi e il miele stilla dalle querce (Buc. 4,29-30), si rinnova ora, ma non più gratuitamente, bensì per laborem et artes. La natura è ormai insufficiente senza la cultura.
III
Modificando la natura, la tecnica le toglie la staticità. Il movimento impresso si considera progressivo, se si svolge secondo una linea sufficientemente chiara di evoluzione Se si limita invece ad una aggiunzione di fatti nuovi ai vecchi, rimane nella prospettiva del rapporto presente-passato; è progressiva solo se prospetta sul futuro, ossia rivela un orientamento. Importa meno che il progresso sia o no illimitato, se si concluda o no in Dio. La concezione di Virgilio, anche quando è atea, è fondamentalmente progressiva .
Paradossalmente lo testimonia la ripetuta presenza del mito aureo. L’età aurea è incompatibile con una concezione progressiva: postulando la perfezione all’inizio e la successiva inevitabile irricuperabile degenerazione, è per forza regressiva, anche nella versione ciclica. Ma in Virgilio l’età aurea è solo il simbolo di una condizione esistenziale, non perduta per sempre ma storicamente possibile: ha ancora i colori tradizionali nell’Ecl IV (l’abbondanza produttiva senza tecnica e fatica: 39 omnis feret omnia tellus), benché già proiettata nel futuro storico, ma conosce tecnica e fatica nelle laudes ltaliae di Georg. 2, 136 segg. e nell’elogio della vita campestre di 2, 458-fine, conosce lavoro, leggi e tecniche nell’età saturnia del 1.VIII, 314-323 dell’Eneide (ricordata da Evandro, che sta celebrando Ercole, l’eroe della fatica!). Dunque l’età dell’oro è possibile o addirittura reale, ma è diversa da quella mitica e relativizzata alle nuove situazioni storiche persino nelle sue strutture organizzative (la proprietà invece del comunismo, le leggi invece dell’anarchia): labor e artes vi hanno un ruolo costitutivo. Dunque la tecnica rientra in un disegno propositivo, rivolto al futuro, cioè in una concezione progressiva.
A controprova si osservi che labor ed artes non sono concepiti (se interpreto correttamente il luogo famoso di Georg. 1, 118-159) né come punizione di un (imprecisato) fallo dell’uomo né come rimedio parziale alla sua decadenza ineluttabile. Entrambe queste concezioni sarebbero comunque regressive, rivolte al passato. La prima di esse diventa progressiva solo nella concezione cristiana, perché contestuale a una visione provvidenziale, largamente compensativa, in cui il peccato originale diventa una felix culpa attraverso la Redenzione. Ma nel Virgilio delle Georgiche, cui il passo appartiene, non c’è e non poteva esserci provvidenza. C’è invece un progetto laico di uomo, di cui le artes sono lo strumento di realizzazione . Il suo concetto di tecnica è tanto lontano da un pessimismo strutturale di tipo leopardiano quanto da un ottimismo integrale di stampo illuministico. Labor e artes sono l’exercitatio dell’uomo, ma la sua creatività non è arbitraria. Il progresso non è tanto della tecnica, quanto attraverso la tecnica. Cioè si tratta di una concezione morale. Il bene non coincide con l’oggetto o con le forme esterne, ma comporta l’atteggiamento del soggetto. Nel finale del 1.II Virgilio non contrappone campagna e città come il bene e il male, ma suggerisce come in modi costituzionalmente moderni (fatica, tecnica, famiglia, organizzazione sociale) si possa vivere il modello morale. Questo ideale è rappresentato dai colori bucolici, da leggere quindi non letteralmente come una forma istituzionale e storica (il primitivismo), ma criticamente come la moralità. La campagna non garantisce da sola la moralità: anche in campagna si può sbagliare; la possibilità di sbagliare e di riconoscere l’errore (perché si possiede un indice di valore) assicura la possibilità di crescita, il dinamismo progressivo.
Non c’è in questo alcuna fuga nel passato, ma una accettazione del reale nei suoi termini operativi, anche materiali. Se volessimo interpretare allegoricamente, come facevano i medioevali. l’interruzione delle opere edificatorie a Cartagine in seguito all’idillio di Didone (4, 86-89), dovremmo concludere che l’amore (sentito costantemente come male) è funesto alla vita morale, proprio perché blocca le attività (oggi diremmo produttive, ma non perché produttive). E la costruzione di Cartagine risponde certo a un progetto orientato a un futuro anche lontano. Poiché Virgilio sa quanto costi realizzare un progetto (cfr. per Roma Aen. 1, 33: tantae molis erat Romanam condere gentem), questo non è trionfalismo. Una concezione progressiva (come una concezione provvidenziale, del resto) non contraddice a un pessimismo, diremo così, statistico: anche oggi convivono con la fede nel progresso la paura della catastrofe e il senso del decadimento . Anzi è proprio questa abitudine a prospettare sul futuro, che induce in Virgilio inquietudini e timori persino per le sorti di Roma. Paradossalmente, solo una visione progressiva, che comporta un senso acuto della continuità nel futuro, conduce il poeta a manifestare queste apprensioni proprio nel clima ottimistico del primo impero augusteo.
Alcuni studiosi moderni hanno cercato di rivendicare al mondo antico (specie greco) e sottrarre al cristianesimo il merito storico dell’origine della nozione stessa di progresso : come sempre, niente nasce senza precedenti e neanche si completa in una stessa fase . Inoltre, i progressi che effettivamente si compivano non potevano essere ignorati: vedi le correzioni che Quintiliano apporta alla tradizionale teoria dell’imitazione (lnstit. 10, 2.4-13). Lo stesso Plinio il Vecchio, che è il teorico del regresso, non può nascondere alcuni successi della conoscenza moderna, per es. in medicina . Ma nel complesso il mondo antico, specialmente romano, non ha una concezione progressiva, meno che mai della tecnica: Virgilio vi perviene per via propria perché muove da un punto di partenza morale . Per la singolarità della sua posizione non è senza significato la fama di «tecnico» benefattore da lui goduta nel Medioevo, come dimostrano le leggende raccolte nel celebre libro del Comparetti.
 

Astrofisma, 23.9.1981.