La difficile libertà

  1. LE OPPOSTE NEGAZIONI DELLA LIBERTÀ – ETERONOMIA DELL’«IO SUPERFICIALE»

Occorre sondare in profondità la coscienza per penetrarne la realtà metafisica che si manifesta a un tempo come durata reale e libertà, sì che ciò che porta a negare o a misconoscere la durata, porta a negare o a misconoscere la libertà; reciprocamente, al senso della durata si accompagna l’esercizio della libertà, la scoperta del suo valore. L’esperienza si presenta a noi sotto due aspetti opposti: da un lato, sotto forma di fatti che press’a poco si ripetono, che press’a poco si conservano e che infine si dispiegano nel senso della molteplicità distinta e della spazialità; dall’altro lato, sotto forma di quella penetrazione reciproca che è la durata pura, refrattaria ad essere misurata. «Nei due casi esperienza significa coscienza; ma nel primo, la coscienza si espande al di fuori e si esteriorizza in rapporto a se stessa, nell’esatta misura in cui percepisce delle cose esterne le une alle altre; nel secondo, essa rientra in se stessa, si approfondisce» (L’intuizione filosofica, Oeuvres 1970, Édition du Centenaire, 1361). Vi sono, dunque, due forme principali di coscienza, l’una esteriore, la percezione, l’altra interiore, la durata. Nella percezione il soggetto, che all’inizio si oppone all’oggetto, tende naturalmente a identificarsi con esso e a vivere immerso nella dimensione spazio-temporale. Si arriva, allora, al punto che l’io stesso si scorge solo attraverso la rifrangenza nello spazio, sì che i nostri stessi stati di coscienza sono trasportati dall’interno all’esterno e rappresentati ormai come cose o forze, separabili non solo le une dalle altre, ma anche da noi. «Così si ripercuote, così si propaga nelle profondità della coscienza l’esteriorità reciproca che la giustapposizione nello spazio omogeneo assicura agli oggetti materiali» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 84). L’io che si forma coincide in tal caso con la sua rappresentazione spazializzata; e all’io rifratto, suddiviso nelle sue componenti o forze, si applicano fin troppo bene gli schemi che discendono sia dalle necessità della vita sociale, sia dai postulati del determinismo e dall’associazionismo psicologico.

Questo io è senza profondità spirituale e senza personalità. Il gioco delle sue forze è sottomesso, come a un destino, alle leggi meccaniche, le quali ci permettono di calcolare in anticipo gli effetti dei fenomeni psichici a cui sono applicate. II determinista può tutt’al più concedere che non gli è dato prevedere fin da oggi un certo stato di coscienza a venire; ma affermerà che ogni atto è determinato dai suoi antecedenti psichici, o, in altri termini, che i fatti di coscienza obbediscono a leggi, come i fenomeni della natura. «In fondo questa argomentazione – osserva Bergson – consiste nel non entrare nel particolare dei fatti psicologici concreti, per il timore istintivo di trovarsi di fronte a fenomeni che sfidano qualsiasi rappresentazione simbolica e quindi qualsiasi previsione. Si lascia allora la natura propria di questi fenomeni nell’ombra, ma si afferma che, come fenomeni, rimangono sottoposti alla legge di causalità. Ora questa legge vuole che ogni fenomeno sia determinato dalle sue condizioni, o, in altri termini, che le stesse cause producano gli stessi effetti» (ibid., 131). È chiaro che certi antecedenti determinati danno luogo a una conseguenza determinata ovunque l’esperienza ci fa constatare questa regolarità; mala questione è precisamente di sapere se siffatta regolarità si ritrova nel regno della coscienza. In ciò consiste tutto il problema della libertà.

Il determinista deduce dalla pretesa somiglianza di due stati di coscienza che la stessa causa produce lo stesso effetto; ma egli non tiene conto che uno stato di coscienza, uno stesso sentimento, per il semplice fatto che si ripete, è un sentimento nuovo. «Dire che le stesse cause interne producono gli stessi effetti, vuol dire supporre che la stessa causa può presentarsi a più riprese sul teatro della coscienza. Ora, la nostra concezione della durata tende ad affermare l’eterogeneità radicale dei fatti psicologici profondi, e l’impossibilità per due di essi di rassomigliarsi del tutto, perché costituiscono due momenti differenti di una storia… Per la coscienza lo stesso momento non si presenta due volte… In breve, se la relazione causale esiste ancora nel mondo dei fatti interni, non può rassomigliare in nessun modo a ciò che nella natura chiamiamo causalità. Per il fisico, la stessa causa produce sempre lo stesso effetto; per uno psicologo, che non si lasci ingannare da apparenti analogie, una causa interna profonda dà il suo effetto una volta, e non lo produrrà mai più» (ibid., 131-132). II principio della determinazione universale perde qualsiasi significato nel mondo interno dei fatti di coscienza.

I deterministi hanno torto a livello di «io profondo», dell’«io vivo e concreto», dell’«io interiore» che «sente e si appassiona, delibera e decide» (ibid., 83); non del tutto, però, se è vero che all’io della durata reale si accompagna un «io superficiale», un «io parassita» che tenderà sempre a deformare l’altro, a spazializzarlo, a ridurre e persino a spegnere ogni slancio di libertà. L’io superficiale va verso l’entropia della libertà, l’io profondo tende a realizzarsi come slancio creatore. L’io superficiale ricopre, limita, ostacola l’io profondo. Via via che ci allontaniamo dagli stati profondi dell’io, i nostri stati di coscienza tendono sempre più a prendere la forma di una molteplicità numerica e a dispiegarsi in uno spazio omogeneo. È chiaro che se l’esistenza dell’io fosse racchiusa solo entro questo orizzonte, la libertà sarebbe una chimera. L’io superficiale pensa quasi esclusivamente per idee generali, per stereotipi, e non ci si deve stupire se a quelle idee – così apparentemente chiare, evidenti e distinte, ma così incapaci di auscultare il palpito della realtà – può applicarsi benissimo il meccanismo della teoria associazionista.

Se il nostro io non scava al di sotto della superficie di contatto con le cose esteriori, la nostra vita interiore dipenderà, sì, ancora da noi, ma fino ad un certo punto. Quando la nostra esistenza si svolge nello spazio piuttosto che nel tempo, allora «viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; siamo agiti piuttosto che agire noi stessi» (ibid., 151). Agire liberamente, invece, vuol dire riprendere possesso di sé, rimettersi nella durata pura. Le abitudini, inculcate dall’ambiente e da una malintesa educazione, rappresentano per molti il comodo rifugio in un «io parassita», che offre sempre schemi d’azione già predisposti e comunque generalmente accettati. Al punto estremo di eteronomia, l’io superficiale agisce come un ipnotizzato o un sonnambulo, crede cioè di muoversi in base a proprie decisioni mentre ubbidisce ad una suggestione esterna. Non è, però, raro che, nel momento in cui l’atto va compiendosi, si produca «una rivolta» (ibid., 112) e la rappresentazione spaziale e, per così dire, sociale dell’io ceda il posto all’io autentico.

Gli avversari dei deterministi commettono l’errore di attribuire alla libertà un carattere assoluto che non ha, dal momento che «ammette dei gradi» (ibid., 110). Essi si appellano al libero arbitrio, inteso nel significato ordinario di «uguale possibilità di due contrari». Per Bergson, però, questo concetto di libero arbitrio induce a più di un equivoco e, al di là delle buone intenzioni, si mostra essere più vicino alla necessità che alla libertà. La libertà non consiste, infatti, nell’oscillare fra due o più partiti già configurati per fissarsi alla fine su uno di essi. E ciò per almeno due ragioni: in primo luogo, non esiste un io neutro, posto di fronte a x o a y; in secondo luogo, non esistono «partis tout faits» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 535), perché l’atto della volizione modifica di continuo nella loro stessa natura il soggetto che lo compie, l’oggetto delle sue decisioni ed entro certi limiti le condizioni stesse dell’agire.

Malgrado le apparenze e gli opposti proclami di guerra, lo pseudo-spiritualista non si differenzia gran che dal determinista. L’uno e l’altro, infatti, obbediscono al bisogno di un’analoga rappresentazione simbolica dell’io e parlano di un io sempre identico a se stesso, teatro o sostegno di forze meccaniche o di possibilità che se lo disputano: forze e possibilità anch’esse non meno invariabili e già precostituite. Ma questa rappresentazione non è in grado di reggere contro la testimonianza di una coscienza attenta al suo proprio dinamismo.

  1. LA LIBERTÀ E L’«IO PROFONDO» – LA DECISIONE

Che cos’è, dunque, un atto libero per Bergson? La risposta suona così: «Si chiama libertà il rapporto dell’io concreto con l’atto che compie» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 143). Il significato di quest’affermazione è chiarito in un celebre passo del Saggio. «Siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera, quando la esprimono, quando hanno con essa quella indefinita rassomiglianza che si trova alle volte tra l’opera e l’artista. Invano si dirà che, dicendo così, cediamo a un’influenza onnipotente del nostro carattere. Il nostro carattere è ancora noi; e perché si è voluto dividere la persona in due parti per considerare a vicenda, con uno sforzo di astrazione l’io che sente o pensa e l’io che agisce, sarebbe poi proprio puerile concludere che l’uno dei due grava sull’altro. Lo stesso rimprovero rivolgeremo a coloro che chiedono se siamo liberi di modificare il nostro carattere. Certo, il nostro carattere si modifica ogni giorno, e la nostra libertà ne soffrirebbe, se questi nuovi acquisti venissero ad innestarsi sul nostro io e non a fondersi in lui. Ma, appena questa fusione avrà luogo, si dovrà dire che il cambiamento sopravvenuto nel nostro carattere è nostro, che ce ne siamo appropriati. In una parola, se si decide di chiamare libero ogni atto che emana dall’io, e solo dall’io, l’atto che porta il segno della nostra persona è veramente libero, perché solo il nostro io ne rivendicherà la paternità» (ibid., 113-114).

L’azione libera si caratterizza, dunque, innanzi tutto in quanto espressione della totalità dell’io. «È una psicologia grossolana, vittima del linguaggio, quella che ci mostra l’anima determinata da una simpatia, da un’avversione o un odio, come da altrettante forze che pesano su di essa. Questi sentimenti, purché abbiano raggiunto una profondità sufficiente, rappresentano ognuno l’anima intera, nel senso che tutto il contenuto dell’anima si riflette in ognuno di essi. Dire, dunque, che l’anima si determina sotto l’influenza di uno qualsiasi di questi sentimenti, è riconoscere che si determina da sé» (ibid., 109). È dall’anima intera che emana la decisione libera; e l’atto sarà tanto più libero quanto più la serie dinamica, alla quale si ricollega, inclinerà maggiormente a identificarsi con l’io fondamentale. Ma è chiaro che, «intesi così, gli atti liberi sono rari» (ibid., 110). Il che vuol dire che molti vivono e muoiono senza aver conosciuto la vera libertà. In realtà occorre distinguere livelli diversi di profondità dell’io e, dunque, livelli diversi di libertà.

L’originalità della dottrina bergsoniana della libertà è fortemente accentuata da una tesi che a molti sembrò addirittura provocatoria. Per l’Autore del Saggio, quando l’io finalmente risale dal profondo e la crosta esteriore dei nostri aggiustamenti salta, saltano pure «quegli argomenti ragionevolmente connessi» con cui ci rappresentiamo i motivi e i momenti per i quali si perverrebbe all’atto libero. Ebbene no, protesta Bergson, la decisione oltrepassa i cosiddetti «antecedenti» ed è essa che precede le ragioni e gli argomenti con cui, dopo essere stata presa, noi la spiegheremo e la giustificheremo, ai nostri occhi prima ancora che di fronte agli altri. Per le innumerevoli scelte ordinarie del nostro vivere quotidiano, le categorie classificatorie, in cui si pretende di inquadrare l’atto libero, servono, sono utili; ma se si tratta di un atto veramente libero, invano cercheremo di spiegare una decisione con le circostanze e i moventi che ci avrebbero spinto a prenderla. «Vogliamo sapere – scrive Bergson – per quale ragione ci siamo decisi, e troviamo che ci siamo decisi senza ragione, forse anche contro ogni ragione. Ma è precisamente, in alcuni casi, la ragione migliore. Perché l’azione compiuta non esprime più allora quell’idea superficiale, quasi esteriore a noi, distinta e facile ad essere formulata; risponde, invece, all’insieme dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri e delle nostre aspirazioni più intime, a quella concezione particolare della vita che è l’equivalente di tutta la nostra esperienza passata, insomma, alla nostra idea personale della felicità e dell’onore… Nelle circostanze solenni, quando si tratta dell’opinione che daremo di noi agli altri e soprattutto a noi stessi, scegliamo in opposizione a quello che si è convenuto chiamare un motivo, e questa assenza di ogni ragione tangibile è tanto più evidente quanto più siamo profondamente liberi» (ibid., 112-113).

La volontà non è una tabula rasa che aspetta solo dei motivi o delle possibilità concorrenti fra loro che vengano a determinarla ed è inconcepibile un’astratta, amorfa indifferenza della volontà rispetto all’azione che sta per compiere. La volontà non è un arbitrio che decide nel vuoto vertiginoso di ogni preferenza e di ogni esperienza; non è neppure, come vorrebbero i deterministi, un apparecchio che registra e trasforma in movimento l’impulso di fattori venuti a visitarlo di fuori. La mia volontà non è in me come in terra straniera e non sta a designare qualcosa di realmente distinto dalla mia stessa coscienza. La libertà emana solo dall’io profondo. Il suo nome è sincerità, ma è anche serietà. «Tutta la serietà della vita – scrive Bergson nel saggio Il riso – le viene dalla nostra libertà».

  1. LA CAUSALITÀ LIBERA E LE SUE INVENZIONI – LA LOTTA PER ESSERE LIBERI

Il pensiero di Bergson sulla libertà dette luogo a interpretazioni che, come al solito, caricando l’una o l’altra espressione del filosofo, finivano con l’attribuirgli veri e propri controsensi; la qual cosa provocava gli entusiasmi degli uni e i sarcasmi degli altri. Il bisogno di chiarire le sue tesi era avvertito dallo stesso Bergson, il quale lo fece principalmente riprendendo la distinzione di Maine de Biran fra «causalità determinante» e «causalità libera» (Mélanges, 421-22). Rispondendo per iscritto a domande e obiezioni di Léon Brunschwicg, nella seduta del 26 febbraio 1903 alla Società francese di Filosofia, Bergson precisa: «O la libertà non è che parola vana, o è la causalità psicologica stessa… Se vi è una causalità psicologica reale, deve distinguersi dalla causalità fisica; e se questa implica che nulla si crei nel passaggio da un momento a quello seguente, quella implica, al contrario, la creazione mediante l’atto medesimo di qualcosa che non esisteva negli antecedenti» Écrits et paroles I, 195). Insomma, la nostra vita psicologica nella sua totalità condiziona il nostro stato presente e tuttavia non lo determina in una maniera necessaria. L’atto non si deduce dall’insieme delle condizioni come una conclusione sillogistica dalle sue premesse, o come un predicato necessariamente incluso nel soggetto, ma è una creazione a partire da quegli elementi e oltre essi. L’atto libero non è un meccanismo, ma una sintesi originale e insieme un’iniziativa. Agendo, noi abbiamo la percezione, il sentimento immediato di essere creatori delle nostre intenzioni, delle nostre decisioni e, per loro mezzo, delle nostre abitudini, del nostro carattere, in una parola di noi stessi. Noi sperimentiamo realmente le creazioni della libertà e le invenzioni con cui essa fa esistere ciò che prima della nostra decisione non era. Si badi, però, che la creazione per Bergson, almeno fino alle Due sorgenti (1932), non rinvia alla Genesi, non è una nozione religiosa o teologica e non è neppure un mistero. Ben prima di sapere se vi sia un Creatore, Bergson scopre l’idea di creazione come dato immediato della coscienza, realtà dotata di una propria evidenza per chiunque sappia risalire al cuore delle sue decisioni e riflettere sulla sua vita interiore.

L’altro punto, messo a fuoco da Bergson nella lettera a Brunschwicg, riguarda la parte che nell’atto libero compete alla ragione. Se l’impressione del collega è che Bergson ne parli il meno possibile, per altri le formule usate nel Saggio («vogliamo sapere per quale ragione ci siamo decisi e vediamo che ci siamo decisi senza ragione, forse contro ogni ragione») fanno della libertà un cieco arbitrio e una spontaneità cieca, quasi che il Nostro fosse un Sartre ante litteram. Bergson, concentrando nella decisione l’atto libero, polemizzava con forza contro la sua frantumazione (morcelage) in tappe separate: operazione questa che finiva col dare del soggetto volente una rappresentazione simbolica spazializzata incapace di superare le aporie del determinismo e di uno spiritualismo spurio. «Voi mi direte – ribadisce Bergson a Brunschwicg che noi ci sentiremo tanto più liberi se abbiamo una coscienza più chiara delle ragioni che ci hanno determinato. E qui, ancora una volta, io sarò dello stesso avviso. Ma queste ragioni non ci hanno determinato che al momento in cui sono divenute determinanti, cioè nel momento in cui l’atto era virtualmente compiuto, e la creazione di cui io parlo è tutt’intera nel progresso mediante il quale queste ragioni sono diventate determinanti» (ibid.).

In Materia e memoria si chiarirà nel modo più esplicito possibile che la posizione di Bergson è al di là del razionalismo e dell’irrazionalismo volontaristico. «Abbiamo creduto – scrive Bergson di veder scaturire l’azione dai suoi antecedenti grazie a una evoluzione sui generis, in modo tale che in questa azione sia possibile ritrovare gli antecedenti che la spiegano, a cui essa aggiunge, tuttavia, qualcosa di assolutamente nuovo, poiché è un progredire su di essi come il frutto progredisce sul fiore. Ma in questo modo la libertà non è affatto ricondotta, come pure è stato detto, alla spontaneità sensibile. Tutt’al più potrebbe essere così nell’animale, la cui vita psicologica è soprattutto affettiva. Ma nell’uomo, essere pensante, l’atto libero può dirsi una sintesi di sentimenti e idee, e l’evoluzione che porta ad esso un’evoluzione ragionevole» (Matière et mémoire, 322).

La rivolta bergsoniana contro gli automatismi, la superficialità, in una parola contro la banalizzazione e lo svuotamento di ciò che vi è di grande nell’uomo non poteva essere più radicale. L’intenzione esplicita del Nostro è di fare della sua filosofia, rigorosa e demistificante, una metafisica dell’esperienza, a partire da quella interiore, e un appassionato appello alla libertà, al risveglio delle coscienze. In tale prospettiva la libertà è insieme processo di maturazione e scelta – che non si compie una volta per tutte, ma si rinnova senza sosta attraverso ogni decisione – fra relâchement e tension (Lo sforzo intellettuale, in L’énergie spirituelle, 930)*, fra dispersione alienante e sforzo di interiorizzazione, io superficiale e io profondo. Il modo in cui l’uomo vive la sua libertà – conquista difficile, e perciò preziosa – è la sua vera carta d’identità. Un uomo ha la consistenza ontologica e morale che ha la sua libertà. Al termine del suo lungo itinerario speculativo, nelle Due fonti, Bergson continua ad esplorare la libertà, questa volta nella sua dimensione più alta: quella sovra-razionale della morale aperta e della religione dinamica.

* A trentatré anni di distanza dal Saggio – in un testo del 1922, edito però solo nel 1934 – Bergson non poteva trattenersi dal rendere a se stesso questa testimonianza: «Noi ci facciamo carico di ogni sforzo. Come qualcuno ha potuto ingannarsi su questo? Poiché richiamavamo l’attenzione sulla mobilità che è al fondo delle cose, si è preteso che noi incoraggiassimo non so quale rilassamento dello spirito». L’illuminante passo è nello scritto Sull’impostazione dei problemi, parte seconda del saggio introduttivo al volume Il pensiero e il diveniente (Oeuvres, 1328).

NOTA: testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.