La donna e il religioso in Montale

Tematiche: Letteratura

Gianfranco Contini disse a suo tempo, sorprendendo un po’ tutti, che le Occasioni erano un “canzoniere d’amore”, anche se le apparenze parevano non ammettere una definizione del genere: scrivendo allo stesso Contini (lettera dell’11-2-1935) Montale, a proposito di Costa San Giorgio, uno dei grandi testi di quella raccolta, prefigurava il giudizio dell’amico dicendo che quei versi erano “un carme d’amore (disperato)”. Forse non si fa nemmeno un paradosso se si estende la definizione di Contini a tutta l’opera poetica montaliana, la cui struttura a cattedrale, che ha al suo centro le cuspidi altissime delle poesie a Clizia della Bufera, si apre e si chiude con due testi dedicati alla primissima ispiratrice, l’Annetta-Arletta di In limine, che fa da introduzione agli Ossi di seppia, e del tardo Ah, che è l’ultima composizione dell’ultima raccolta, Altri versi (“Forse il libro”, dice lo stesso Montale, “potrebbe finire con questa poesia”: come infatti si è verificato). Da tempo la critica si sta occupando delle “donne” di Montale, e talvolta in maniera frivola, ma in sé questa non è davvero una questione frivola perché tocca i nodi profondi di un’opera troppo spesso ridotta alle sue componenti paesaggistiche, esistenziali, storiche, ideologiche. Ebbene, Montale è forse soprattutto un poeta d’amore, anche se di un amore impossibile, totalizzante e paralizzante: le presenze femminili, che appaiono, scompaiono, ricompaiono nell’opera montaliana sono le diverse incarnazioni di un unico fantasma, quello di una possibile salvezza nell’inferno del mondo e dell’esistenza.

Il problema del femminino coincide per gran parte col problema del “tu” che, com’è noto, è in Montale “un istituto”, secondo quanto i critici ripetono, da lui depistati”: voglio dire che, nella struttura diadica della poesia montaliana, giocata sull’opposizione-identità dell’io lirico e del tu appellativo, è quasi sempre la donna a incarnare il fantasma dell’altro”, in una specie di delega privilegiata all’oggetto d’amore delle possibilità di salvezza dalla prigione della temporalità e della storia. Essendo poi il tu, in una condizione di specularità tutta da indagare, il corrispettivo riflesso dell’io (“in me i tanti sono uno anche se appaiono / moltiplicati dagli specchi…Il male / è che l’uccello preso nel paretaio / non sa se lui sia lui o uno dei troppi / suoi duplicati”), ne consegue che la figura femminile incarna di volta in volta l’alter ego del poeta, così che le diverse donne, mentre si presentano nell’arco di sessant’anni di poesia con una loro precisa fisionomia, sono poi l’espressione di un’identica esigenza di individuazione e di verità. Anzi, è proprio soltanto la possibilità della riflessione speculare dell’io nel tu a istituire la significatività della figura femminile, a trasfigurarla cioè rispetto alla mera contingenza esistenziale e a farla portatrice di valori originali e autentici, nell’attivo scambio tra soggettività lirica e specificità concreta dell’oggetto: infatti certe pur prestigiose presenze femminili, come Esterina di Falsetto, o la Gerti del Carnevale e di Dora Markus, o la Liuba di A Liuba che parte, hanno un loro rilievo tutto oggettivo, non appartengono intimamente al poeta, non sono portatrici di affinità sostanziali e anzi, come Esterina, fanno parte di un mondo diverso, per questo, in definitiva, mantengono il loro vero nome, non raggiungendo quel livello di trasfigurazione-immedesimazione che faccia loro meritare, come alle più autentiche ispiratrici, l’attribuzione del senhal (Arletta, Clizia, Volpe, Mosca).

Se gli Ossi di seppia sono il diario di una prigionia esistenziale entro i termini invalicabili di una temporalità tanto più angosciosa in quanto è confrontata coi simboli intemporali della natura e del mare, essi conoscono pure la risorsa del “miracolo”, cioè l’impossibile possibilità di una frattura nel compatto intreccio di spazio-tempo-causalità che permetta, nell’attimo estatico, di intravedere almeno l’eventualità di uno scampo contro l’invivibilità dell’hic et nunc: sono le celeberrime figure del “fantasma che ti salva”, della “maglia rotta nella rete”, dell'”anello che non tiene”, dei “chiari reami di lassù”, del “girasole impazzito di luce”, del “segno d’un’altra orbita”. Ma presto, anche in questo libro che sembra tutto risolto nel confronto assoluto tra un io lirico sprofondato nell’angoscia e una natura totalitaria, si leva il vento di una possibile salvezza e il vento, che solleva l'”amaro aroma del mare”, è il segno inconfondibile della presenza femminile: con una scelta estremamente consapevole Montale colloca “in limine” agli Ossi la composizione di questo titolo, scritta tra le ultime e dedicata, senza nomi né senhals, a una delle prime ispiratrici. “Godi se il vento ch’entra nel pomario / vi rimena l’ondata della vita…”: così esordiscono gli Ossi di seppia, con questo vento vivificatore che porta segnali di possibile salvezza a chi si sente prigioniero “di qua dall’erto muro”, e il vento è compagno del tu per il quale il poeta prega, l’incarnazione femminile a cui è delegata la possibilità di uscire dall’orto-reliquiario (“Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te ho pregato…”). Ancora una folata di vento, nel componimento che s’intitola appunto Vento e bandiere, la presenza della donna (Arletta o altra), e questa volta nel suo netto profilo femminile, con le chiome scompigliate dalla raffica e le vesti modellate sul corpo: il vento che viene dal mare non ritrova lei nei luoghi ben noti al poeta, ma ne riporta il ricordo, ora che è lontana, in una situazione che già caratterizza nel modo più proprio questa figura femminile, e un po’ tutte le altre, essendo la donna, paradossalmente, presente in quanto assente, viva di una vita che è tutta interiore e memoriale, non dandosi mai in Montale la possibilità di un rapporto reale con la donna (ed è anche per questo che la figura femminile non è quasi mai descritta, se non per qualche dettaglio metonimico, i capelli, lo sguardo, il passo, e dunque naturalmente tende a ridursi all’assolutezza perentoria del tu).

Arletta-Annetta, una delle due presenze femminili degli Ossi, mai nominata se non a partire dal Diario del ’71 e del ’72, è da non molto identificabile in Anna degli Uberti, che Montale conobbe diciassettenne quando, nei primi anni Venti, veniva con la famiglia in villeggiatura a Monterosso, nella villa vicina a quella del poeta, di proprietà di un altro Montale, il “cugino Laurent”. Secondo quanto afferma documentatamente Giorgio Zampa, nella rigorosa biografia allegata all’edizione di Tutte le poesie nei “Meridiani” di Mondadori, Anna degli Uberti non mori affatto giovane, come il poeta afferma indirettamente a partire dai testi degli Ossi e direttamente nel Diario, ma si spense soltanto nel 1957, dopo una vita solitaria non priva di qualche stravaganza: il fatto è che il poeta la dà per morta, facendo così di lei e di un possibile amore un’eventualità allo stato puro, quell’assenza appunto che è l’unico spazio vero di una presenza significativa, essendo ormai la donna diventata una funzione dell’io lirico, un puro evento fantasmatico. Come si capisce dalle postreme poesie di Altri versi, Una visita e Postilla a ‘Una visita’, che precedono il testo-sigillo di Ah, tra il poeta e la donna ci fu una addio muto già nel 1922, quando egli andò a Roma nella casa di lei in occasione di un matrimonio e non riuscì a dire una sola parola alla ragazza che amava, ritirandosi alla fine della cerimonia con la certezza che quell’amore non aveva nessuna possibilità di sopravvivenza nella realtà: se Annetta-Arletta è diventata nella poesia montaliana “la donna morta giovane”, senza essere effettivamente morta, è perché essa si è fatta la prima incarnazione dell'”altro”, cioè di quella alternativa totalitaria che ha a che vedere con l’assoluto me­tafisico, tanto reale ed esistente quanto impraticabile da chi si senta confitto nella prigione dell’hic et nunc. La significatività della donna passa attraverso la sua scomparsa come avviene per le grandi figure femminili della poesia italiana, Beatrice, Laura, Silvia e Nerina: il cosiddetto “stilnovismo” montaliano è il preciso recupero del modello soprattutto dantesco della donna come strumento della “salute”, per cui l’amore è subito qualcosa d’altro e di più rispetto alle motivazioni psicologico-sentimentali, che pure ne formano l’indispensabile premessa. E la “salute”, in Montale come in Dante, è possibile soltanto come fuga e scampo rispetto ad un mondo moralmente o esistenzialmente sperimentato come invivibile, per cui la donna deve in ogni caso rappresentare una dimensione alternativa, non storica, fondamentalmente religiosa, che passa dunque attraverso quel filtro per eccellenza della sublimazione che è la morte.

Del resto, una delle strutture fondamentali dell’immaginario montaliano, e quindi anche della sua ideologia, è costituita dal senso di un’indistinzione fondamentale tra la dimensione dei vivi e quella dei morti, per cui, mentre da una lato al poeta manca ogni vera certezza di essere al mondo e gli uomini, i “sedicenti vivi”, sembrano a lui appartenere ad “una sola / ghiacciata moltitudine di morti”, dall’altro quelli che sono passati all’altra riva gli appaiono come gli autentici viventi, i soli coi quali si possono scambiare parole ricche di verità per il loro essere svincolati da ogni inganno mondano (e c’è tutta una dimensione “limbica” nella poesia montallana, dove s’incontrano i morti familiari, le donne amate e magari anche “i cani fedeli” e “le vecchie serve”: come si legge in Credo, uno degli ultimi testi di Altri versi, dedicato a Clizia: “Credo vero il miracolo che tra la vita e la morte / esista un terzo status che ci trovò tra i suoi”). Ebbene, Arletta comincia a vivere poeticamente soltanto dopo la fine di ogni sua possibile rilevanza sul piano esistenziale e l’essere immaginata come morta rappresenta assieme il congedo da una fanciulla reale, che può essere stata per breve tempo oggetto d’amore per il poeta, e l’incontro con un fantasma salvifico, le cui epifanie memoriali vengono a dare nuova intensità, nell’ultima parte degli Ossi, alle attese di “miracolo” circolanti in tutta la prima raccolta. Arletta appunto s’intitolava, nella prima edizione in rivista (Il Convegno, nov-dic. 1926), uno dei testi capitali degli Ossi, entrato nel libro nella seconda edizione del 1928, Incontro, il cui ambiente non è quello consueto delle Cinque Terre, ma quello cittadino della foce del torrente Bisagno, che sfocia in mare poco lontano dal porto di Genova: nell’imperversare dei riferimenti danteschi (il torrente “vivo di petre e di calcine”, gli “incappati di corteo”, l'”aria persa” e altre meno scoperte connotazioni infernali) la foce si trasforma in un luogo limbico, per cui la vita della città si raggela in una fissità mortuaria, dove le persone diventano “sargassi umani” e la strada lungo la sassaia mostra ombre d'”impallidite vite tramontanti”, “visi emunti / mani scarne, cavalli in fila, ruote stridule”. Ebbene, in questa regione dei vivi, che portano sopra di sé i segni della morte e della dannazione, si verifica ad un tratto l’evento “miracoloso”, che sospende l’agonia della temporalità deietta e permette, grazie ancora al sommovimento provocato dal “vento forano”, il contatto attimale con la donna data come morta, che in realtà è l’unica autenticamente viva in questa plaga infernale della “foce d’umani atti consunti”: accostandosi nella luce radente della sera alla fronda che cresce in un vaso alla porta di un’osteria, il poeta si sente “ingombro d’una vita / che mi fu tolta”, mentre la povera fronda si trasforma, tra le sue dita, nei capelli di lei. Il soffio vitale viene soltanto da “altrove”, da quella zona alternativa rispetto al qui-e-ora dell’esistenza che può essere anche, come nel caso di Arletta, la zona dei morti, col tipico rovesciamento degli attributi della vitalità dal “sedicenti vivi” a quei vivi autentici che sono i “sommersi”, portatori di autenticità e di memorie significative: e alla donna che torna a sommergersi dopo l’attimo rivelativo il poeta chiede di pregare per lui, perché possa sentirla accanto e cosi “scendere senza viltà” (e ciò è da intendere propriamente come richiesta del coraggio necessario a lasciare questo mondo delle apparenze per approdare, attraverso la morte, alle rive senza tempo della verità). La stessa condizione di limite tra un’esistenza reale avvertita come priva di vita e una possibile oltranza attingibile in una zona del tutto alternativa rispetto al qui-e-ora è configurata in Arsenio, il componimento forse più alto degli Ossi, l’ultimo ad essere stato composto (1927) ed entrato nella seconda edizione dell’opera: questo testo è chiaramente parallelo rispetto ad Incontro, fin dal nome del protagonista che, com’è stato osservato, presenta la stessa radice / Ar / presente nel nome della donna. Arsenio e Arletta sono più che mai personaggi speculari e in questo grande componimento, dominato dalla presenza dell’io lirico, a cui si affidano direttamente le possibilità di attingere l'”altra orbita”, le dissolvenze soggetto-oggetto si fanno fittissime, tanto che la presenza del “tu” è avvertibile solo in negativo, nella filigrana delle immagini suscitate dall’avventura dell'”io” proteso verso il segno salvifico della tromba marina: l’io-giunco, che trascina con sé, sulla spiaggia deserta sferzata dalla pioggia e dal vento temporalesco, le sue viscide radici, che non riescono a svellersi del tutto dalla terra, giunge a un passo dal proprio alter-ego che lo attende nel luogo dei morti davvero viventi, quel “tu” che corrisponde qui, ancora una volta, alla “donna morta giovane”, che gioca il suo ruolo di Euridice al contrario, essendo lei a trascinare il suo Orfeo e volgendosi il suo passo dall’alto verso il basso, da ciò che si suppone essere vita a ciò che si suppone essere morte. Non per nulla tutto il movimento di Arsenio è improntato al “discendere”, dall’alto della strada verso la spiaggia, dalla spiaggia verso l’onda, dall’onda verso l'”altra orbita”, nella ripresa totale di quel “scendere senza viltà” che sigillava Incontro: “Sul corso, in faccia al mare, tu discendi…”, “Discendi all’orizzonte che sovrasta / una tromba di piombo…”, “fa che il passo su la ghiaia ti scricchioli…”, “Discendi in mezzo al buio che precipita…”, finché l’io-tu di Arsenio (è assai caratteristico come il protagonista in prima persona sia dislocato dal poeta nella distanza del “tu”) arriva sull’orlo dell’ultima discesa, quella che lo congiungerebbe al suo doppio sublimato: “tremi di vita e ti protendi / a un vuoto risonante di lamenti / soffocati”. Ma il limbo dell’oltrevita, donde gli viene la voce soffocata di lei, non si apre e Arsenio interrompe il suo discendere, tornando non certo tra i vivi se è vero che il “tutto che lo riprende”, “strada portico / mura specchi”, lo “figge in una sola / ghiacciata moltitudine di morti”, mentre dell’avventura e del possibile definitivo “incontro”, gli rimane soltanto un “gesto”, una “parola”, che cadendogli accanto si fanno “cenno d’una / vita strozzata per lui sorta”, quella di Annetta appunto. L’altro grande testo arlettiano, ormai nello spazio cronologico delle Occasioni, è costituito dalla celeberrima Casa dei doganieri, che ancora una volta presenta un’esperienza del limite, nell’immaginazione di un possibile incontro con la donna là dove i mondi distinti del qui-e-ora e dell’altrove possono venire in contatto nella zona di confine rappresentata dalla casetta abbandonata della guardia di finanza, “a strapiombo sulla scogliera” di Monterosso, dove forse un giorno, prima che lei se ne partisse per sempre, erano entrati in una delle brevi passeggiate non lontano dalle ville di famiglia. Tra i due, separati dall’appartenenza a due diverse dimensioni dell’essere, esiste ancora un filo di collegamento e solo un filo, si direbbe, sfruttando l’altro significato del termine, li divide, anche se la distanza-vicinanza è vissuta tutta dalla parte dell’io (“Tu non ricordi…”, “Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria…”): ma, come sappiamo, Annetta-Arletta, più di tutte le altre donne montaliane, è diretta proiezione dell’io, quasi del tutto priva di consistenza personale e di attributi specifici, per cui il suo essere immaginata come morta, lungi dall’allontanarla in una distanza irrecuperabile, la fa intrinseca alla mente del poeta, che può giocare in suo nome i ruoli concomitanti della prigionia nell’esistere e della tensione “miracolosa” all’essere, in quello scambio biunivoco di vita e morte che trova espressione sintetica nell’ultimo verso di questa composizione, “Ed io non so chi va e chi resta”, dove si esprime appunto la totale incertezza circa la dislocazione dei due ambiti dei vivi e dei morti. Non per nulla il poeta vecchio, ripensando alla sua prima ispiratrice nel componimento esplicitamente intitolato ad Annetta (1972), definisce la donna “un genio / di pura inesistenza, un’agnizione / reale perché assurda”, evidenziando appunto, da un lato, la sottilissima consistenza reale della “capinera”, dall’altro, la sua appartenenza al mentale puro (“agnizione”), nella funzione a lei affidata di rappresentare quel varco verso l’oltranza che costituisce l’attesa metafisica degli Ossi ed è espresso, proprio nella Casa dei doganieri, nelle celebri figure: “Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui?” (e vale la pena di sottolineare come la presenza-assenza di Arletta trovi la sua più tipica espressione nella metafora della luce intermittente, del “barlume”, figura per eccellenza di quell'”intermittence du coeur” che prepara l’apparizione memoriale della donna e ne dice la consistenza di possibile alternativa metafisica, come appare esemplarmente nel testo arlettiano che fa da introduzione, addirittura, alle Occasioni, Il balcone: “La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi. / A lei ti sporgi da questa / finestra che non s’illumina”). Ma giova, a completare la presentazione della “donna crepuscolare”, riferire alcuni versi di Annetta, che nella distanza affettuosa del congedo preso nei riguardi della sua lontana ispiratrice, definiscono compiutamente il ruolo avuto dalla giovane fanciulla subito scomparsa dall’orizzonte reale del poeta, con un ultimo guizzare di quella luce intermittente (il “lampo”) che resta il segnale più autentico di lei: “Perdona Annetta se dove tu sei / (non certo tra di noi, i sedicenti / vivi) poco ti giunge del mio ricordo. / Le tue apparizioni furono per molti anni / rare e impreviste, non certo da te volute. / Anche i luoghi (la rupe dei doganieri, / la foce del Bisagno dove ti trasformasti in Dafne) / non avevano senso senza di te. / … / Ora sto / a chiedermi che posto tu hai avuto / in quella mia stagione. Certo un senso / allora inesprimibile, più tardi / non l’oblio ma una punta che feriva / quasi a sangue. Ma allora eri già morta / e non ho mai saputo dove e come / … /Lo stupore / quando s’incarna è lampo che ti abbaglia / e si spegne”.

A fare da ponte di collegamento tra l’esperienza naturalistica degli Ossi di seppia e l’apertura ai rapporti con l’altro delle persone e degli ambienti testimoniato dalle Occasioni, c’è un’altra figura femminile, che si affianca, con diverse caratteristiche, a quella di Annetta, assumendo il ruolo di protagonista in alcuni dei testi maggiori che chiudono gli Ossi, come Marezzo, Casa sul Mare, Crisalide, oltre che nei versi di In limine messi a introduzione della raccolta: si tratta della cosiddetta “peruviana”, adesso identificata in Paola Niccoli, donna molto bella e attrice di qualche talento, con la quale il poeta ebbe un rapporto un po’ meno labile che con Annetta, anche se la donna finisce sempre per restare in una sua lontananza irrimediabile, oggetto di un’ammirazione senza speranza da parte di chi si sente escluso da ogni reale partecipazione alla vita e all’amore (“Per me che vi contemplo da quest’ombra…”, “dall’oseuro mio canto mi protendo / a codesto solare avvenimento”). L attorno a questa figura femminile che Montale elabora la distinzione tra un io condannato all’insfuggibile prigionia esistenziale e un tu che può salvarsi, trovare il varco, nell’evidente dislocazione nel personaggio della donna di una parte del sé, secondo quel processo di sdoppiamento e proiezione che appare fondamentale nella strutturazione del femminino montaliano: è la celebre conclusione di In limine, “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te ho pregato …”, ed è il centro ispirativo di Casa sul Mare, “ti s’appressa / l’ora che passerai di là dal tempo; / forse solo chi vuole s’infinita, / e questo tu potrai, chissà, non io. / Penso che per i più non sia salvezza, / ma taluno sovverta ogni disegno, / passi il varco, qual volle si ritrovi”. Più evidente diventa il coinvolgimento emotivo nei componimenti delle Occasioni ispirati alla medesima donna, dove emerge la disperazione per il non riuscito tentativo di dare al rapporto una qualche concretezza, mentre lei, che per molto tempo ha soggiornato in Perù, diventa sempre più la “straniera” (ma quasi tutte le donne di Montale sono “straniere”, austriache o inglesi o americane, e perlopiù ebree), tanto che senhal della peruviana è qualche citazione in spagnolo tra mistica e mitica, “por amor de la fiebre” di Sotto la pioggia o l'”El Dorado” di Costa San Giorgio: disperato è il primo dei tre Mottetti dedicati a questa donna, Lo sai, debbo riprenderti e non posso, che termina con l’epigrafe “E l’inferno è certo”, mentre “carme d’amore (disperato)” definisce lo stesso poeta il grande e misterioso componimento di Costa San Giorgio, in cui il possibile spalancarsi dell’Eldorado (quello stesso atteso come “miracolo” dalle “nuvole in viaggio” di Corno inglese) si tramuta nella tragedia dell'”Idolo in croce” e del “torchio del nemico muto / che preme”.

Ma intanto è apparsa all’orizzonte dell’esistenza e della poesia di Montale, in quello stesso 1933 dei componimenti sopra ricordati, la vera “donna della salute”, destinata a ispirare gran parte delle Occasioni e della Bufera, oltre che a rappresentare il vertice di tutta l’opera del poeta: si tratta, come ora sappiamo, della giovane Irma Brandeis, un’americana di origine austriaca venuta a Firenze per motivi di studio, di famiglia ebrea, molto bella e molto seria, studiosa di patristica e di letteratura barocca, di forti sentimenti religiosi. Da alcuni anni Montale convive con Drusilla Tanzi, moglie separata del critico d’arte Matteo Marangoni, la Mosca, molto più anziana di lui, destinata ad essere compagna e poi moglie per tutta la vita: la Brandeis compare all’orizzonte del poeta a riproporre l’amore come assolutezza e unica possibilità di salvezza, nel momento in cui egli sta vivendo l’esperienza della “coniugalità”, in tutta la sua prosaica consistenza. Non si tratta del solito banale e volgare contrasto tra moglie e amante, anche perché né la Mosca è una moglie né la Brandeis un’amante, ma semmai della contrapposizione, elaborata per mezzo dei fantasmi del femminino, tra deiezione nel qui-e-ora e disperata speranza nel possibile varco verso l’altrove, per cui si ripropone in termini di rapporti interpersonali il contrasto tipico degli Ossi di seppia tra il soggetto confitto nella prigionia spazio-temporale e la certezza ontologico-metafisica di un altrove irraggiungibile, accertabile solo attraverso la sospensione intemporale del “miracolo”. La donna venuta da lontano, dal paese della libertà (tale è l’America per chi vive in pieno regime fascista) e dalla terra di tutte le promesse religiose (l’Oriente della Palestina, patria comune di tutti gli ebrei dispersi nel mondo), incarnerà tutte le istanze di oltranza e di salvezza che tramano fin dall’inizio la ricerca poetica montaliana, al di là della fenomenologia del negativo: per questo ella sarà Clizia, cioè “quella ch’a veder lo sol si gira”, secondo il verso forse dantesco messo in epigrafe al grande testo de La primavera hitleriana. Clizia il cui nome apparì solo nella Primavera è la personificazione di una metafora attiva fin dai primi testi degli Ossi, il girasole, fiore trapiantato nel salino ma che ha la virtù di inebriarsi della luce solare e di simboleggiare il passaggio dalla pesantezza materica dell’esistere alla leggerezza musicale ed “essenziale” dell’essere. Il poeta ha davvero trovato la sua Beatrice e per questo la presenza di Dante s’infittisce tra Occasioni e Bufera: non di un’esperienza psicologica si tratta, che riattivi il grande archetipo petrarchesco, ma di una ricerca di salvezza attraverso la donna e l’amore, secondo il modello stilnovistico e specificatamente dantesco. Adesso il poeta non si limita più a fantasmatizzare attraverso la donna, come avveniva con Annetta e soprattutto con la “peruviana”, la salvezza per il tu, secondo quel processo di divisione che confinava il soggetto nel limbo della deiezione esistenziale e indicava la via di fuga solo all’oggetto amoroso, ma investe la figura femminile delle funzioni di tramite tra la menzogna della storia e la verità dell’oltranza metafisica, così che la donna diventa in sé e per sé personificazione della salvezza, donatrice di salvezza agli altri, al suo fedele innanzitutto e anche agli uomini, nell’ora terribile che si addensa sul mondo e che si scatenerà tra poco.

Si è detto della definizione data da Gianfranco Contini alle Occasioni, che sarebbero appunto un “canzoniere d’amore”, ma si deve anche dire subito che di “amore” se ne vede poco o nulla, proprio perché non si è davanti ad una lirica del cuore ma ad una poesia del male esistenziale, tesa da un lato alla registrazione della fenomenologia del negativo nelle cose e negli eventi, dall’altro all’indicazione di qualche istantaneo segnale alternativo: la donna in tale contesto non è affatto una presenza oggettivamente predicabile, né tanto meno una causa di emozioni sentimentali, ma un’allusione nascosta sotto quei segnali che la rivelano occultandola. Così la Clizia soprattutto dei Mottetti vive soltanto nei “barbagli” che all’improvviso interrompono la rappresentazione deietta della temporalità, lampi improvvisi visibili solo al poeta, segni racchiusi in oggetti fortemente decontestualizzati (si pensi soltanto ai “due sciacalli al guinzaglio” sotto i portici di Modena, o al “frastaglio di palma / bruciato dai barbagli dell’aurora”): ancora una volta, come negli Ossi, la donna è presente in quanto assente e la sua consistenza è soprattutto mentale, trovando l’essenza della sua funzione nel presentarsi come privilegiata esperienza memoriale, visitatrice da un’altra sfera che indica alternative radicali a chi viaggia nella selva selvaggia del male esistenziale e storico. Per questo le liriche cliziane delle Occasioni e della Bufera sono tramate soprattutto di “segnali”, rappresentati non solo da metafore di contenuto, come il lampo, il bagliore, il brillio iridescente, il vischio, l’ala, lo sguardo, il trillo musicale, la farfalla, ma anche da figure del significante, anagrammaticamente ricavate dal nome dell’amata: in uno dei primissimi testi del cielo cliziano – ed è un’attribuzione resa possibile proprio dalle forme dell’espressione – Bagni di Lucca, il nome di Irma è leggibile in parole come “MARronI”, “mARMI”, “RAMeggI”, oltre che in quelle immagini del “ghiaccio” che, assieme a quelle del fuoco, sono legate al nome di famiglia della donna, Brand-eis, cioè appunto fuoco-e-gelo. Così, in questa strategia metonimica che rinvia alla donna solo per indizi criptico-figurali, altri elementi caratteristici alludono alla presenza-assenza di Clizia, come il vischio, il ramoscello invernale e natalizio le cui piccole infruttescenze rotonde rinviano, a loro volta, ad un caratteristico indumento della donna, la sciarpa a pois, che a sua volta diventa simbolo, con le sue palline come stelle, della bandiera americana, segno di libertà e di possibile liberazione (in Verso Capua: “e tu in fondo che agitavi / lungamente una sciarpa, la bandiera / stellata!”) e ne Il giglio rosso della Bufera, in un’immagine che sintetizza tutti questi elementi: “ai vischi che la sciarpa ti tempestano / d’un gelo incorruttibile e le mani”). Tra i segnali cliziani, poi, assumono un rilievo particolare i gioielli che, in un’ottica dantesca e medievale, alludono alle “virtù” contenute nelle pietre preziose, mentre assumono anche quelle connotazioni di lampeggiamento luminoso che li accostano alle metafore della luminosità balenante e del fuoco: tale è il “sigillo imperioso” del rubino che la donna porta alle dita in Palio, o le “giade” che lei porta “accerchiate sul polso” ne La frangia dei capelli, o i coralli, segno del “forte imperio”, che Clizia riflette nello specchio in Gli orecchini. Più diretto riferimento metonimico è quello ad alcuni particolari dell’aspetto stesso della donna, lo sguardo soprattutto e la fronte ombreggiata dalla frangia, tanto poveri di connotazioni fisionomiche quanto ricchi di allusività simbolica, in quanto rinviano a quelle caratteristiche di decisione, coraggio, fermezza di propositi che costituiscono le prerogative fondamentali di Clizia e ne segnano la funzione precipua nella ricerca poetica montaliana tra le Occasioni e Bufera (“Ma resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi / occhi d’acciaio”, Nuove stanze; “Oh ch’io non oda / nulla di te, ch’io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli”, Su una lettera non scritta; “La fronte dei capelli che ti vela / la fronte puerile, tu distrarla / con la mano non devi…”).

Il primo accenno metonimico alla figura e al carattere di Clizia è quello agli “occhi d’acciaio” di Nuove stanze, una composizione del 1939, l’anno successivo a quello in cui la donna, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, lasciò l’Italia per fare il suo ritorno definitivo in America: come a dire che, a cinque anni dal momento in cui era entrata nella vita e nella poesia di Montale, Clizia si fa presente con qualche segno del suo aspetto e del suo carattere quando si accinge ad essere definitivamente assente. E’ questo il vero destino di Clizia, che in tal modo perfeziona il destino di Annetta, quello cioè di realizzare un disegno di oltranza e di salvezza col sottrarsi ad ogni tipo di rapporto amoroso reale, diventando ipostasi di una sublimazione che trasforma l’erotico in escatologico: a differenza di Annetta, che propone secondo la sua natura “crepuscolare” una “discesa” verso un altrove limbico, a cui si accede attraverso la morte, Clizia propone un’ascesa sulle “lontane crode”, nelle regioni del gelo e della luce dove si nascondono le possibilità di un riscatto religioso non soltanto individuale. E’ così che Clizia si fa veramente Beatrice e, se nei testi anteriori al decisivo anno 1938 la sua presenza è ancora stilnovistica, da Vita nuova, in quelli posteriori, poeticamente tanto più importanti, essa è ormai la Beatrice della Commedia e del Paradiso, avendo realizzato con la sua scomparsa dalla vita del poeta ciò che ha realizzato la “donna della salute” dantesca con la sua morte, cioè la piena identificazione con la verità e con la missione del poeta. E’ cominciata la trasformazione di Clizia, per usare le parole stesse di Montale, in Visiting angel, in “messaggera che scende” (L’orto), come è annunciato negli ultimi testi delle Occasioni e nel tardo mottetto, altamente ispirato, Ti libero la fronte…dove l’apparizione di Clizia è appunto quella dell’angelo che porta un messaggio di difficile salvezza provenendo dalle alte regioni del gelo che ha lacerato le sue ali: “Ti libero la fronte dai ghiaccioli / che raccogliesti traversando l’alte / nebulose; hai le penne lacerate / dai cicloni, ti desti a soprassalti”. Con il 1938 Montale è entrato nel periodo più drammatico della sua vita: licenziato dal Vieusseux perché senza tessera fascista, si trova senza lavoro, la donna che amava è partita e la donna con cui vive lo trattiene presso di sé con gelosa possessività, impedendogli alla fine di realizzare quel progetto di espatrio in America che avrebbe potuto aprire la strada ad una brillante carriera universitaria nel “paese della libertà” e, forse, il matrimonio con Clizia. Ma è giusto, per la poesia se non per i poeti, che con le ispiratrici non ci si sposi, altrimenti l’assoluto si relativizza e il sublime si banalizza: del resto, se Montale non andò in America, non fu soltanto per le remore esterne che lo trattennero ma per intima incapacità di assumere decisioni radicali, lungo la direttrice di quella costitutiva indisponibilità alla vita e all’amore che la sua poesia dichiara fin dall’inizio (“Vissi al cinque per cento…”). Ma il 1938 è un anno drammatico non solo per la vita personale del poeta ma per quella di tutta l’Europa, che comincia proprio in quei mesi la tragica marcia verso la guerra: nel terribile squallore privato e storico Clizia tanto più viene ad assumere il ruolo di segno assoluto e unico di salvezza così che, se i grandi testi soprattutto del ’38-’39, Elegia di Pico Farnese, Nuove stanze, Palio, Notizie dall’Amiata, registrano con inaudita oltranza pessimistica il negativo dilagante a tutti i livelli, accolgono però anche i lampi di una presenza visibile solo al poeta, capace per un istante di aprire uno spiraglio nell’insensatezza e nel male dilaganti. Così nello squallore di un religioso ridotto ad un “amore di donne barbute”, a un “vano farnetico” di nere cantafavole, nell’atmosfera di un disfatto autunno in un paese del sud ancora preda di riti semipagani, ecco che la presenza della donna, portatrice autentica di un’alternativa religiosa non contaminata dalla “carne”, si rivela al suo fedele nel “calor bianco” del ferro battuto sull’incudine, nel piattello del tiro a segno che prilla nell’aria, nel lampo delle vesti che balena agli occhi della memoria (Elegia di Pico Farnese). Così nell'”ergotante balbuzie dei dannati” che dilaga sulla piazza del Campo, nel folle ruotare dei cavalli nella conchiglia del circuito, nel volteggiare frenetico delle bandiere, in quel tumulto di “fantasmi animati” che paiono rappresentare la vita e compongono invece un girone infernale, all’improvviso riappare il “sigillo imperioso” di lei e “la luce di prima si diffonde / sulle teste e le sbianca dei suoi gigli”, mentre il vero traguardo della corsa è “fuor della selva / dei gonfaloni, su lo scampanio / del cielo irrefrenato, oltre lo sguardo / dell’uomo – e tu lo fissi” (Palio). Così la stanza dalle travi tarlate è piena del sentore dei meloni, lo sperduto paese amiatino affondato nella nebbia del “tempo fatto acqua”, tra le “parole d’ombra e di lamento” che erompono dal gotico paesaggio in rovina, diventano lo scenario in cui si schiude luminosa l’icona che racchiude il volto di lei (Notizie dall’Amiata).

Gli ultimi testi delle Occasioni, ora citati, propongono esplicitamente i termini di un deciso investimento religioso della figura di Clizia: la “rissa cristiana” a cui si accenna in Notizie dall’Amiata – questo luogo che ha vissuto l’esperienza evangelica di David Lazzaretti – è, secondo le indicazioni dello stesso Montale, un riferimento alla medievale lotta del corpo e dell’anima, o degli “psichici” e dei “pneumatici”, in termini ereticali, e la presenza della donna significa una netta scelta dell'”anima”, nella trasformazione di ogni possibile elemento erotico del rapporto amoroso in pura alternativa soterica. Ma è nei testi di Finisterre, andati poi a formare la prima parte della Bufera, e soprattutto nelle Silvae, che la metamorfosi di Clizia da oggetto d’amore, sia pure sublimato, a figura di salvezza religiosa si realizza compiutamente, e in termini propriamente cristiani e cristologici: l’angelo visitatore diventa, secondo la definizione montaliana, “Cristofora”, portatrice del messaggio di Cristo attraverso il sacrificio, tanto che nel luogo dove dovrà venire “Cristo giustiziere” e dove “s’umilieranno corvi e capinere, / ortiche e girasoli” (e “capinere” e “girasoli” alludono agli eletti per eccellenza, Annetta e Clizia), il poeta scorge la figura della donna: “Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice: / scura, l’ali ingrommate, stronche dai / geli dell’Antilibano; e ancora / il tuo lampo mutava in vischio i neri / diademi degli sterpi, la Colonna / sillabava la Legge per te sola” (Sulla colonna più alta). Le ali dell’angelo sono “stronche dai geli dell’Antilibano” perché il messaggio è diventato cristologicamente, in quegli alti cieli di Galilea, sacrificio: nell’orrore imperversante della guerra, quando ogni comunicazione con la donna lontana si è interrotta e il poeta può anche immaginarla morta, l’ebrea-cristiana partita ai primi cenni della persecuzione razziale viene a rappresentare il ruolo della vittima cosciente e volontaria, che assume su di sé tutta l’atrocità del male dilagante nel mondo in vista di un possibile riscatto, per il suo fedele e per l’umanità. Il grande testo di questa “eretica” cristologia (quello appunto del “povero Nestoriano smarrito”) è ovviamente Iride, dove il “Volto insanguinato sul sudario”, “quella maschera sul drappo bianco, / quell’effigie di porpora» propone immediatamente l’ipostasi Clizia-Cristo, in una dichiarata prospettiva di continuazione attraverso la donna del Grande Sacrificio, “perché l’opera Sua (che nella tua / si trasforma) dev’essere continuata”: in Iride c’è in certo senso il “prima” e il “dopo” della donna della salute e il discriminare tra i due momenti è segnato proprio dalla partenza di lei, che trasforma un rapporto amoroso a due in una missione universale di salvezza, così che se lei ritorna nella memoria, dopo essersi dileguata allora in un “nimbo di vischi e pungitopi” per fiorire in altre luci, il poeta può dire davvero che non è più lei, che “è mutata la sua storia terrena»”, che non ha più “né ieri né domani”. Se la donna non ha più né ieri né domani, il poeta è esentato da ogni commemorazione memoriale e da ogni recupero dei progetti sentimentali, come è dichiarato con tutta evidenza da quell’altro testo capitale che è Voce giunta con le folaghe, ambientato nel cimitero di Monterosso e immaginato come colloquio tra l’ombra del padre, che incarna appunto i conforti della memoria (ma la memoria, oltre una certa misura, “è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé…”), e la “voce” di lei, che viene dall’Oriente con le folaghe per proporre il distacco da ogni pavida chiusura nelle fragili consolazioni regressive: in quel limbo del piccolo cimitero sul mare la “voce” “forse ritroverà la forma in cui bruciava / amor di Chi la mosse e non di sé” e in questa forma trasfigurata, come Beatrice nelle “eccelse rote”, proporrà la scelta, che è stata sua, del sacrificio cristiano.

Ma il vertice della missione cliziana, e assieme del ruolo del femminino in Montale, è toccato certamente in La primavera hitleriana, un testo iniziato nel fatidico 1939, a ridosso tra l’altro della visita di Hitler a Firenze, e portato a termine nel 1946, che rappresenta un po’ il terminus ad quem di tutta la grande stagione poetica vissuta sotto il segno di Clizia. E’ qui che la donna assume per la prima volta il suo nome diventando, secondo il simbolo degli “eliotropi nati / dalle sue mani”, “quella ch’a veder lo sol si gira”, la Clizia appunto del sonetto dantesco a Giovanni Quirini: “Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, tu / che il non mutato amor mutata serbi, / fino a che il cieco sole che in te porti / si abbàcini nell’Altro e si distrugga / in Lui, per tutti”. Nel momento in cui la donna riceve il suo battesimo ufficiale rivela anche compiutamente i termini estremi della sua missione: abbacinata ormai dal Sole in cui si volge, come Beatrice che figge lo sguardo in Dio, non ha dimenticato l’amore per il suo fedele ma lo ha totalmente trasformato in compito salvifico, per lui e “per tutti”. Nel tremendo gelo che invade la città quando il “messo infernale” la attraversa “tra una alalà di scherani”, nel “sozzo trescone d’ali schiantate” procurato dalla funebre pioggia di falene, entro i segni orrorosi rappresentati dai giocattoli di guerra e dai capretti uccisi nelle vetrine dei bottegai, preceduta dagli indizi che ne predicano la prossima irruzione (“le candele / romane, a San Giovanni”, “i pegni e i lunghi addii”, la gemma che riga l’aria, gli angeli di Tobia, gli eliotropi), Clizia scende dal suo Oriente e dai geli del suo Nord salvifico per indicare, nel suo approdo “ai greti arsi del suff, una radicale speranza di salvezza religiosa, in grado di riscattare l’umanità dal male che sta per sconvolgere l’antica civile Europa, dominata ormai dalla bestialità degli Iddii taurini: “Forse le sirene, i rintocchi / che salutano i mostri nella sera / della loro tregenda, si confondono già / col suono che slegato dal cielo, scende, vince – / col respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio, ai greti arsi del sud…”.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 10.4.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.