La figura femminile nella poesia di Clemente Rebora

Autori: Lollo Renata
Tematiche: Letteratura

Può sembrare in apparenza laterale, per non dire secondaria, un’indagine sulla figura femminile nella poesia di Clemente Rebora, tanto è prevalente nei testi la dimensione filosofica e morale o l’incandescenza mistica. Ma non sempre gli schemi, anche criticamente consolidati, possono adeguarsi e corrispondere appieno alla profondità vitale, sempre dinamica, di un itinerario poetico. Così conviene affrontare i testi anche da angolazioni meno prevedibili per cogliere meglio la loro ricchezza e la loro capacità di interna e reciproca illuminazione. Forse nessun altro tema come quello del rapporto con la figura femminile appare legato alla biografia; al punto che anche l’assenza e la dissimulazione della sua complessità finisce per aprire fondamentali spiragli conoscitivi nell’ambito referenziale non meno che in quello dei risultati formali. Si pensi inoltre a quanto Rebora abbia cercato la poesia per “vivere”, rifiutando la “falsificazione letteraria” e si comprenderà come una indagine su questo tema (quale che sia lo spessore puramente quantitativo dell’informazione) lasci sperare in risultati comunque degni di interesse.
Nella poesia reboriana, la figura che per prima diviene oggetto di trasposizione lirica è quella materna. Con accenti intensi e sobri, il frammento II delinea la “mamma zolla aria luce” insieme al “Papà, tronco puro severo” ai “Fratelli miei rami e mio nido” alle “Sorelle, mie foglie e mie gemme”, come ambito di una gioiosa dissoluzione d’amore desiderata e insieme impedita da un dovere intimo che rimanda “i consensi più in là”. E’ sempre la madre, nel fr. XII, che, “contro l’ignoto male/ sbarra a difesa il suo amore”, che, “triste d’aver troppo, volle/ Alla sua gioia il sacrificio appena,/ Ma a noi perdona i soffici fastidi”. Da questa consapevolezza di amore erompe l’intensa e delicatissima espressione: “Quanto fu bello che nascessi nostra/ O mamma, così mamma/ Da non poterti sapere!” rinforzata dai versi di poco posteriori: “Se quale nel ventre immediato ti fui/ m’accogliesse il tuo affetto!” a testimoniare un bisogno di protezione non meno importante del bisogno di effondere la propria eccezionale disponibilità affettiva. Quando scrive questi versi, Rebora ha circa 28 anni: vive in famiglia coi genitori, quinto di sette figli, in una Milano primonovecentesca aperta alla cultura e al progresso economico. La sua formazione è razionalista; si è laureato in lettere nel 1910 a venticinque anni, con una tesi su Giandomenico Romagnosi discussa con Gioacchino Volpe.
E’ inquieto e non si adatta ad una vita fondata sull’ordine tradizionale del lavoro, della carriera, di una famiglia propria. Non gli si conoscono infatti fino a questa età sentimenti importanti per una donna. Ci sono le sorelle, le nipoti, e qualche dolorosa delusione tenuta gelosamente nascosta. Come interpretare altrimenti il fr. LIV: “E’ un inganno di voi che giù nel senso/ ho confitto, o annidate trecce fonde:/ di voi che, s’altro miro, vedo ancora”?
La difficoltà nel vivere un rapporto sereno con la donna per la sproporzione fra l’intensità dell’investimento sentimentale tramato da bisogni di assoluto (non compresi e tanto meno soddisfatti nell’ambiente originario) e le effettive possibilità di viverlo nei limiti esistenziali si percepisce anche nel fr. XVII: “Il compagno alla compagna/ La compagna al compagno,/ Volea ciascuno gridare/ Ciò che non era mai detto,/ E passar da ogni varco/ E popolare la reggia/ E confondersi insieme/ Nell’acciecante verità enorme,/ Ma rotolarono sillabe,/ Ma ragionarono il mondo:/ E riser tutto il di per non sapere,/ Mentre ogni re sciupava/ la sua farfalla”.
Il Rebora dei Frammenti lirici, ne abbia o meno piena coscienza, sta già cercando altrove. Questo non significa che la donna sia un pretesto: ma è insieme sublimata e temuta. E’ una realtà rischiosa, come non possono negare nemmeno le dissimulazioni e gli spostamenti di prospettiva del ricordo, fissato a grande distanza di tempo, dal poeta sacerdote nel Curriculum vitae del 1955: “Innamorando vagheggiai lontano/ un viso amato: e misi in salvo il sogno/ quasi fuggendo dal trattar profano”.
C’è quindi, fino alle avvisaglie della prima guerra mondiale, una poesia che illumina la relazione materna di un uomo che conserva il bisogno di essere bambino. Condizione non matura e forse perfino regressiva di fronte alla ben diversa maturità della ricerca intellettuale e poetica. Ma, a ben vedere, risvolto negativo, condizionamento forse ineliminabile di uno spirito d’infanzia che troverà il suo sbocco più adeguato nelle scelte religiose degli anni a venire, per il momento impensabili. La spia di una tensione alla trascendenza passa certo per la cultura illuministica e (ancor più) idealistica della propria formazione: ma anche per la (collegata) volontà di rimanere senza legami, realizzata radicalmente fino ai 29 anni. La donna appare quindi veicolo all’oltre soltanto se sublimata: e questo nasconde, ma non troppo, una paura della contaminazione dalle non indifferenti conseguenze.
I Frammenti lirici sono quindi il frutto maturo e complesso di un equilibrio precario fra il bisogno di armonia e la necessità di distruggere le false armonie esistenti (il lavoro alienato, la famiglia spiritualmente restrittiva, l’ordine apparente del perbenismo diffuso) per procedere a tentoni nella ricerca; fra il bisogno del soggetto di essere, totalmente coinvolto nella tensione alla verità (dentro di lui ma altro da lui) e una cultura immanentistica sentita come un vicolo cieco. Il linguaggio reboriano traduce intensamente queste opposizioni, rivelandosi l’indicatore privilegiato del travagliato spirituale di un ambiente e di un periodo oltre che della persona stessa del poeta. Fondamentalmente in questo itinerario l’uomo appare solo, senza vittimismi né compiaciuti abbandoni a forme narcisistiche, anzi con un vivo desiderio di comunicare e di voler bene. La forza stessa della ricerca appare compenso a se stessa, diviene la sua “beatitudine solitaria” che lo apparenta a Nietzsche a Beethoven, a Cristo, secondo le sue stesse confessioni.
Ma attorno al luglio 1914, in pieno clima di attesa delle ostilità imminenti, anche la biografia reboriana, esteriormente poco trasgressiva se si accentuano le difficoltà di carriera scolastica dopo l’ottima laurea del 1910, subisce una brusca modificazione. Si inizia infatti la convivenza fra Rebora ventinovenne e la pianista russa Lidia Natus, moglie separata di un italiano, Pompeo Antonio Rivolta. C’è un vivo sentimento e una forte passione in entrambi: ma mentre Lidia accetta ciò che accade in lei, Clemente sente il bisogno di giustificarsi, ammette una propria caduta, vive disperati sensi di colpa. Del diverso stato d’animo sono testimonianza le lettere. Scrive Clemente all’amico Antonio Banfi il I agosto 1914:
“Di me non ho lena a dirti; ne ho già scritto ad amici – e conoscenti! e parlato a viva voce con molti che amo, per bisogno di scaricare un poco l’esuberanza della mia fatalità implacabile. Ti dirò solo, che sono da mesi una natural lava scorrente, e da venticinque giorni, tutta una natura, che domani precipiterà. Me ne infischio! Non ti posso chiarire: ho violentato il mio destino all’amore pieno; troppa vergogna avevo della mia “beatitudine” solitaria, della mia vita-tipo (figurati passare per un individuo che ha voluto la vita “alta luminosa intensa” come dicono: paragoni a parte, esser qualcosa come un piccolo Cristo o Beethoven o Nietzsche! Scombussolarli tutti invece, ossia me stesso. E la guerra tuona ovunque! Per me è sempre stato così; che novità?). Come mi è difficile – e delizioso – godere, avere i “conforti” d’una passione folle; io era abituato a ben altre ebbrezze! Ma insieme benedico la donna che travolgo nel mio vortice fiammeo – andremo in malora? – e se domani una pallottola di rivoltella mi togliesse questa nitida vasta tensione, addio, mia bella addio!”
Lidia confessa a Giovanni Boine i sentimenti per Clemente in una lettera del 13 dicembre 1914:
“Io Le scrivo non solo quello che posso pensare – ma Le scrivo quello che provo, che provai con Clemente. Non Le so dire quanta, infinita, indicibile gratitudine io gli porti perché m’abbia accettata così com’ero allora – perché abbia affrontato delle responsabilità enormi […] perché lui – Clemente – non avendo amato prima da vicino nessuna altra donna – mi conobbe in un momento in cui io viveva (vegetava) come una sonnambula – senza capire affatto, perché vivessi così, senza domandarmi nemmeno, se fu possibile, necessario di trascinare quella vitaccia…Ma noi donne (salvo rarissime eccezioni) abbiamo, purtroppo, uno spirito d’adattamento, meravigliosamente, stupidissimamente (in certi casi) sviluppato: se a me avessero detto qualche mese fa (come lo dicevano, anche per degli anni) che la musica – va bene – è una cosa abbastanza bella, ma – già – inutile, essere Maestra o Professoressa di piano è un mestiere come un altro e non ci si distingue per nulla da una dattilografa, che, anzi, quella è più da stimare perché la musica è una cosa di lusso – invece una brava signorina di studio porta un aiuto maggiore – coadiuvando in una cosa comune, grande, (non isolata, astratta come la musica!) che è la ruota del Commercio, e, quindi il Progresso, – poco per volta – mi sarei perfettamente persuasa che è così – e mi sarei adattata come lo cominciavo già a fare…Di queste e delle peggiori ne ho sentito in Italia ed a Milano – specialmente – fino sopra i capegli […] La mia arte, tutto quello che c’è, che c’era in me di più grande, bello, puro, isolato – laddove io sono e fui la più forte – perché la meno prendibile e più sola – e nessuno mi vi poteva raggiungere o toccare od oltraggiare – tutto quello dava terribilmente fastidio agli uomini che mi circondavano, loro cercavano di ferirmi se non completamente distruggere – perché sentivano che è un osso duro da rosicchiare – ma almeno rendere insensibile più che fosse possibile la mia anima cosciente […] darmi quasi continuamente del cloroformio per assopirmi; – liberarmi da tutto quello che, secondo loro era inutile in me – che dovrebbe essere una brava massaia, aggiustare la biancheria, rammendare le calze, ecc…e mi facevano soffocare, morire quasi il più bello, il più puro Oh, la vita che non riconosce nulla! […] E lui m’accettò così […] Solo per un barlume d’intuizione; non una donna fatta – una creatura colla quale tutto si può discutere, tutto si può dire – che, certo – tutto capisce perché è già in alto – è già alla portata di tutte le cose – no, no, – m’accettò, venne da me – così com’era allora tutta da fare, o da rifare, o da svegliare in quello che fu addormentato a furia di schiaffi, botte, miserie ed insulti…E sopportò una posizione falsa per più d’un mese, e dispiaceri e qualche canzonatura di quell’uomo vile che prima mi teneva fra le sue mani; e sacrifizi materiali e morali…Tutto, tutto accettò…”.
Anche nella poesia appare il conflitto reboriano. In Movimenti di poesia la passione è vissuta con forti sensi di colpa: “E tu, perversa/ Lucciola buona/ Che mi tenti nell’ombra/ E non m’abbacini ancora,/ Liscia alga di luce/ Sensualmente velata / Che i lacci tendi/ E ignori i miei baci! […] So che la bocca succhierà un veleno/ Di minacciosa dolcezza/ Ma bello e più fervido/ D’ogni salute, d’ogni certezza:/ Di te, troppo agevole/ Forza solitaria;/ So che la gente avvinghiata/ Al pretesto del mondo/ Negherà la mia grazia,/ O in un rider di labbra a dente duro/ Gioirà con sussurro:/ Anche tu, nella biscia dell’ora,/ Anche tu sopra viottoli scaltri,/ Anche tu come gli altri!” Pochi mesi dopo, al principio del 1915, in una delicata poesia in cui il fiore del ciclamino adombra Lidia, il poeta rappresenta il sentire di lei: “Il bulbo segreto fluiva/ Le più divine gocciole al fiore,/ Sin che dal getto compiuto/ – Le alucce recline – / Fu concavo sguardo smarrito/ In purpurea effusione./ Ma un’ansia d’intorno all’ebrezza/ Implorava nel vento, implorava:/ “Perché l’altezza,/ Se da te m’allontana?/ Tanto spazio non sana,/ Non il bulbo del sole/ Dove tu non sei più!”
La vicenda privata coesiste inoltre con la tragedia bellica: Rebora è chiamato al fronte e, alla fine del 1915, dopo mesi ininterrotti di servizio militare in zona di operazioni sul Podgora, subisce un trauma nervoso causato dallo scoppio di un 305 e deve lasciare il fronte. Comincia per lui un periodo sofferto di ricoveri ospedalieri, di cure mediche dietro “apparenza di floridezza”, di depressione profonda. Chi gli è vicino (e nessuno come Lidia) testimonia l’apprensione per le condizioni di salute, che migliorano solo molto lentamente. Tra una cura e l’altra, prima della definitiva riforma del 1918 con la diagnosi di “mania dell’eterno” compie con Lidia brevi viaggi, ne segue l’attività di concertista, scrive lettere di intensa partecipazione ai fratelli e in particolare a Piero suo futuro biografo, che si trovano ancora sotto le armi. Vive nel desiderio di testimoniare l’orrore della guerra e la grandezza degli umili: e nelle pause che la crisi nervosa gli consente scrive poesie e prose liriche di estrema e quasi allucinata tensione emotiva e formale. In questo contesto anche la figura femminile diviene disperatamente concreta, salvezza impossibile come nella poesia Voce di Vedetta morta:

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Soffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai!

A Lidia, la perversa lucciola buona di Movimenti di poesia, si può forse attribuire la sofferta ispirazione di alcuni versi dei Canti Anonimi, usciti nel 1922: “Ogni affetto è disagio:/ L’uomo un plagio,/ La donna un contagio.// Anche chi ama ti grava,/ Se per sentirsi in due/ Si fa guanciale delle ore tue./ Qualunque cosa tu dica o faccia/ C’è un grido dentro:/ Non è per questo, non è per questo!/ […] Eppure la cosa capita/ Non redime la cosa sofferta;/ E la parola senza bacio/ Lascia più sole le labbra”. Può esserle anche attribuita la delicata referenza alla ”dormiente beata” di Cà delle Sorgenti del 1920: “Spogliarmi fu quasi preghiera:/ E bisbigliava la Dora,/ Che sa di notte svestirsi/ Fino alla vena sua pura./ Scivolai nel tepore/ Di coltri e di sogni / E già dal guanciale passava/ Sull’omero mio da sola/ La testolina dormiente;/ Ampliandosi il petto,/ lo giacqui alitato così,/ Custode del mondo/ Lo sguardo fluì”.
Sembrerebbe dimenticato qui il duro giudizio del 1914: appare un momento di accettazione, che si esprime poeticamente a legame ormai concluso. Dalla fine del 1919, di comune accordo e senza rompere l’amicizia, Rebora e la Natus si erano infatti separati e Lidia era partita per Parigi con Massimo Campigli. La ricerca reboriana tende per tutto il decennio 1919-1929 a un distacco dai legami per una disponibilità a esigenze interiori sempre più pressanti: lo studio di Mazzini, dei mistici ebraici, della cultura orientale si accompagnano a una attività educativa, fuori dalla scuola ufficiale, esercitata per mezzo di incontri personali, di insegnamenti in scuole private, di conferenze. Qui il significato salvifico e la funzione spiritualmente materna della donna emergono con una nettezza che già prelude a Maria. Lidia non viene dimenticata: nel 1925 Clemente raccoglie per lei e le invia a Parigi dieci brevi liriche di tempi diversi, dove si leggono idealmente le tappe del loro cammino fino alla separazione che è vista come un superamento. La sublimazione della donna più vicina e concreta che Rebora avesse incontrato nella sua vita aiuta a capire il progressivo idealizzarsi nel simbolo della donna in generale, nel decennio ricordato che precede la conversione. La donna-Beatrice è salvezza per l’uomo in ricerca di verità, è orientamento all’assoluto e al divino. Lo può testimoniare fra le moltissime una lettera a Bice Jalm Rusconi del 10 settembre 1926, in cui si può riconoscere anche una prolungata e personale frequentazione dei testi biblici:
“Occorre perciò aiutarci a vincere la paura: paura d’essere mortali, infelici, incompresi, sacrificati, sconfitti, incatenati a una fatalità matrigna; questa mi pare la prima condizione per diventar capaci di quell’energia che rivela “le vie del Signore”, e avvia la nostra umanità operante in una direzione divina. Può darsi che, qui e ora, alcuni – magari per una generazione o due – debbano servire di concime all’albero della Vita; la tentazione di voler essere prima del tempo fiore e frutto ci spinge a foggiarne d’artificiali, che poi si dimostrano sterili e infecondi. Può darsi che, come lo sposo nella parabola delle vergini, la vivificazione superiore venga stanotte oppure fra cento notti: tenersi vigili e pronti, puri e disposti ad accoglierne la fecondazione, attirarla mediante l’amore – ecco quanto si può intanto fare da quasi tutti: svincolare forze accantonate in operazioni di offesa e difesa, liberarle verso ciò che vale davvero […] Per questo alimentare la fiducia, lavorandovi nelle minime relazioni della quotidianità, è già un nutrire i tessuti e i nervi che ci rendon meno invalidi all’opera; nutrire invece sfiducia è intossicare la circolazione della vita. C’è tutta una farmacopea del mondo morale, sotto due grandi categorie: vivificare, mortificare. […] Io prego interiormente sempre: sono sulla giusta via di verificazione, per quanto mi spetta? – o mi disperdo e mi affatico in operazioni laterali in interessi particolari o generali che comunque non mi sono destinati? E qui è l’aiuto della divina amicizia che si palesa nell’ispirazione e nel suggerimento soprattutto della donna sgombra di debiti femminci: indicare dove la vita più chiede e secondare l’azione quale conviene alle forze e al carattere dell’uomo che si sente chiamato a compirla”.
L’approdo al cattolicesimo dà forma definitiva all’esigenza dell’oltre, della totalità in cui perdersi. E’ un approdo radicale, che comporta scelte di vita. Rebora diviene, tra il 1931 e il 1936 religioso e sacerdote rosminiano, dedicandosi con tutto se stesso al più umile servizio ministeriale.
La figura di Maria in cui si sublima e si raccoglie la maternità diviene il riferimento dei suoi sentimenti, la via ancora umana per cui essi sono guidati all’incontro totale con l’amore divino. Le scarse parole poetiche del ventennio 1929-1949 nominano la “Mamma”: “Oh facci buono/ Il cuor, Maria, come tuoi bambini,/ Fin che c’è tempo sempre più vicini!” ; “Verginalmente a sé prega Maria;/ Silenzio è intorno nella notte immensa”. E più si approfondirà il riferimento a Maria nelle poesie mature degli anni 1953-1956, in particolare nell’Inno L’Immacolata (con non improbabili ascendenze bizantine) dove Maria è definita “Regina della storia”.
I ricordi del passato sono, nel tempo sacerdotale, non soltanto coperti dal silenzio, ma repressi con violentissimi sensi di colpa. La vicenda con Lidia Natus è del tutto censurata: non se ne può far cenno nemmeno quando, nel 1947, si ripubblicano le antiche poesie di Rebora. Ma, come è stato recentemente studiato, negli ultimi anni di vita la poesia rivela qualcosa di più profondo che il poeta, forse, non avrebbe accettato di vedere all’interno degli schemi culturali in cui era inserito. Scrive nel 1955 il già ricordato Curriculum vitae, poemetto in versi cui sarà attribuito nel 1956 il premio Cittadella. In quest’opera il poeta riesamina i momenti del proprio passato in cui più si manifestava per lui la presenza di Dio. Il tempo di guerra, da lui vissuto come il tempo vergognoso della caduta e della viltà viene ora, a distanza di quarant’anni, giudicato con lo stesso impietoso rigore:
“Di superbia ubbriaca si avanzava/ la guerra, come suol, femmineggiando;/ d’ogni parte, a ghermirmi, la lusinga:/ Perso nell’ideal, strada non fai…/ Cogli di gioventù l’ora propizia…/Afferra per i1 ciuffo/ la fortuna che ha la nuca calva…/Come Adamo, sedotto, a farla mia/ Precipitando a morte proclamai:/ Scelgo la buona sorte…/e nella frode del piacer caduto,/ sussurrava la gente scaltrita:/ Adesso conosci la vita.//Ed ecco il fischio dell’andata al fronte:/ Sibilla profetava:/ Giovani avanti al rischio benedetto!/Però, in trincea, chiuso l’orizzonte,/ Moloch faceva pasto grasso./ Perso nel gorgo, vile fra gli eroi,/spatriato quaggiù, Lassù escluso,/ ruotando giacqui mentr’era pugna atroce”.
Dopo questi versi si apre improvviso uno squarcio di speranza:
“Ma ov’era in covo il serpe del peccato,/ appesa stava un’icona materna. / E d’un m’accorsi: c’era Uno in Croce:/ si struggeva a guardarmi”. Sembra che proprio dove si commetteva la colpa ci fosse un segno di salvezza: forse un’immagine di Maria. Questa immagine è chiamata “icona” per l’unica volta nelle poesie reboriane e fa pensare alla spiritualità orientale, russa. A conclusione della lettera di Lidia a Boine sopra riportata c’è una informazione che fa riflettere:
“Dio La aiuti ad essere sereno, e La faccia guarire – se crede – quando metterò a Natale il lumino alla mia (antichissima) immagine (santa greca) d’una Madonna che da secoli è conosciuta per miracolosa – e che mi fu regalata dalla Nonna – pregherò anche per Lei – perché il Suo Natale Le passi sereno, dolce”. Forse Lidia non era solo il peccato, la tentazione da fuggire, il male da espiare tormentosamente. Forse Lidia pregava e voleva bene. In casa sua c’era un’icona, che ha lasciato tracce. E si può andare ancora più in là. In un’altra lettera a Boine del 3 dicembre 1914 dice di sé: “Lei mi dirà, e chi è dunque, e chi è lei, dunque – questa piccola Russa – dal viso d’una Madonna bizantina?”.
Permettendo questi accostamenti e queste relazioni, la poesia rivela in fondo che niente del vissuto è fuori della misericordia o estraneo alla grazia. Lidia ha dovuto essere superata perché Rebora incontrasse la fede e l’obbedienza radicale. Ma quello che ha dato con i suoi sentimenti, quello che comunque era in lei dono e amore è incastonato nella vita di Clemente. Al punto di poter dire che non solo Lidia ha l’icona da cui è partito un messaggio materno di speranza per il Rebora frantumato del tempo di guerra, ma Lidia è l’icona. E’, con tutta la sua umanità contraddittoria, un fondamentale tramite di grazia. La cosa non era culturalmente sopportabile in quegli anni: ma la censura cosciente non ha potuto impedire alla poesia di aprire uno spiraglio importante sulla verità dell’inconscio. E non solo la poesia acquista in tensione lirica e poliedricità di messaggi: con questi approfondimenti può venire ancora meglio compresa la sofferta e non comune testimonianza umana di Clemente Rebora.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 24.3.1983 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.