La guerra e il silenzio di Dio

Autori: Forte Bruno

“La verità è la vita – mi ripetevo più volte al giorno; senza verità non si può vivere”: queste parole di Pavel Florenskij – il “Leonardo da Vinci” del XX secolo, filosofo, teologo, scienziato, mistico e poeta russo, morto fucilato in una fredda notte dell’inverno 1937, vittima della barbarie staliniana – non mi hanno lasciato da quando le ho lette in questi giorni nelle sue memorie, appena pubblicate in traduzione italiana (Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondatori, Milano 2003, 305). Esse raccolgono un messaggio, su cui vorrei riflettere con voi. Il motivo della scelta è presto detto: gli eventi recenti hanno visto svolgersi sotto gli occhi di tutti il trionfo della menzogna, da quella truculenta di Saddam e del suo regime, a quella non meno inquietante di chi ha voluto ad ogni costo questa guerra senza render conto delle terribili conseguenze dell’uso della più sofisticata tecnologia militare su innumerevoli vittime innocenti. È proprio per questo che mi sembra urgente riflettere sulla verità: quando è la menzogna a trionfare, si ha bisogno della verità più dell’aria che si respira per continuare a vivere e dare dignità alla nostra esistenza, dalle scelte più umili e quotidiane, a quelle più impegnative e fondamentali, e sradicare così dal cuore l’odio e la barbarie che i nostri occhi hanno visto in azione, grazie anche al coraggioso servizio di tanti operatori dell’informazione. Per questo amore alla verità Florenskij ha pagato di persona, dapprima nel gulag delle isole Solovki e poi con la morte: proprio così le sue parole ci appaiono credibili, e ci aiutano a restituire alle coscienze ferite dalla conclamata sostituzione della legge della forza alla forza della legge una speranza per vivere, un orizzonte per impegnarsi ad amare.

[1] Sono qui riportati cinque articoli di Bruno Forte apparsi sul Mattino, che riprendono alcuni dei temi trattati dal teologo napoletano nella conferenza del 2 ottobre 2003.

Vivere per la verità, della verità, è tutt’altro che facile: è lo stesso Florenskij ad osservarlo. Dopo le parole sopra riportate così continua: “Senza verità non c’è esistenza umana. Era lampante, ma su queste e altre considerazioni simili il mio pensiero si bloccava, scontrandosi ogni volta contro qualche ostacolo invalicabile”. La verità è costosa, esigente: a differenza della maschera, che puoi costruirti a tuo piacimento, la verità si impone con la sua alterità, come ciò cui devi semplicemente corrispondere e obbedire. La verità ti parla con l’aura della sua trascendenza, con lo sfolgorio della sua esteriorità rispetto a ogni tuo calcolo o compromesso. Proprio così essa ha il carisma dell’inopportunità, ed è difficilmente amata da chi insegue il potere e cerca nell’immagine costruita ad arte la via del successo o la cattura del consenso. E proprio perciò la verità è così vilipesa. Una tradizione rabbinica afferma in proposito che l’Eterno piange tre volte al giorno. La prima volta lo fa per chi può studiare la Torah, la Legge rivelata – e dunque conoscere la verità – e non lo fa. Dio piange per la verità trascurata. La seconda volta lo fa per chi non può studiare la Torah e lo fa – per coloro cioè che vogliono servirsi della verità, invece di servirla. Dio piange per la verità manipolata. Infine, lo fa per i superbi che non si piegano davanti al suo volere: l’Eterno piange per la verità vilipesa, considerata come possesso e non come sovrana della mente e del cuore. Gli eventi di questi terribili ultimi anni di guerra, lo scenario della politica, l’informazione che accetta tante volte di farsi voce del padrone, devono aver fatto versare molte lacrime al Signore dell’universo…

C’è però una via per aprirsi alla verità: è ancora Florenskij ad aiutarci nella riflessione. A quanto prima citato, egli aggiunge una folgorante confessione: “Un giorno, di colpo, sorse spontanea una domanda: E loro? Con quella domanda il muro fu abbattuto. E loro, tutti quelli che esistono e sono esistiti prima di me? Loro: i contadini, i selvaggi, i miei avi, l’umanità in genere…”. Loro: gli innocenti che hanno pagato con la vita il gioco folle delle armi. Loro: i bambini che non vedranno più il padre o la madre. Loro: i genitori che non vedranno più un figlio. Loro: le culture diverse dalla nostra, che tante volte non riusciamo a capire, o peggio vorremmo ridurre alla nostra misura e al nostro interesse. Loro sono gli altri: e se nella vita provi a capire le ragioni degli altri, soprattutto di quelli che non hanno voce per esprimerle e farsi sentire, se provi a metterti nei panni del debole, dell’affamato e assetato di giustizia, del povero che non ha sicurezza alcuna, allora la verità si fa strada nel tuo cuore. Allora non ci saranno sofismi che tengano: allora il bene e il male cominceranno ad affacciarsi alla tua coscienza con l’ineludibile esigenza del vero, ed allora potrai e dovrai scegliere di fronte a Dio, alla storia e alla stessa tua coscienza senza maschere, senza alibi e senza difese. Ma quando questo avverrà, sarà resurrezione nel tuo cuore inquieto: allora, la luce inonderà la tenebra, la vita vincerà la morte, e la pace che nascerà sarà frutto di giustizia e di perdono. La Pasqua del Figlio di Dio morto in croce per amore degli uomini dice anche questo al mondo: la verità non è qualcosa che si possiede; è Qualcuno che ti possiede, se tu accetti di lasciarti raggiungere e sconvolgere la vita da lui. È l’Altro che viene a te, e proprio facendosi compagno del tuo dolore e della tua fatica di vivere, ti rende capace di amore e di speranza. Questo vuol dire – per tutti, credenti e non credenti, eredi dell’ethos dell’Occidente – il Crocefisso, quel suo corpo appeso ad una Croce. Non capirlo è ignoranza o malafede; capirlo e non agire di conseguenza, vuol dire far piangere l’Eterno; capirlo e vivere di questo – cioè della verità – è vivere veramente.

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            Agnes Heller è la pensatrice ungherese, vissuta in prevalenza negli Stati Uniti, nota per la sua proposta di “antropologia sociale” e per la lettura anti-economicista di Marx, tesa a valorizzare i bisogni radicali della persona umana e a riaprire la prospettiva morale. Nata nel 1929 a Budapest, la Heller è una singolare testimone del nostro tempo: ebrea, sopravvissuta alla barbarie nazista, scomoda per il regime del “socialismo reale” che l’accusò di “revisionismo”, con la sua ricerca – portata avanti negli spazi aperti dell’accademia americana – ha fatto da controcanto alle varie stagioni del secondo Novecento in nome di un’esigenza etica, fortemente radicata nella convinzione del valore fondante dell’essere personale. Nell’ambito di un convegno promosso a Pisa qualche anno fa, dove eravamo entrambi relatori, ebbi modo di chiederle direttamente della sua esperienza dei totalitarismi e di ascoltare personalmente da lei la testimonianza della maniera a dir poco prodigiosa in cui fu salvata dalle retate antisemite e dal conseguente inesorabile destino di distruzione. La sua famiglia viveva nascosta in una casa non lontana dall’uscita del ghetto di Budapest, circondato da tutte le parti. Agnes era poco più che una bambina: le retate delle SS si susseguivano, e le ore che separavano lei e i suoi cari dalla tragedia sembravano contate. Fu allora che spiando dalla finestra, si accorse che dei due soldati tedeschi di guardia all’uscita del ghetto, uno si era allontanato. Il ragionamento che fece in quel momento – d’impressionante maturità per l’età che aveva, ma comprensibile in chi dalla drammaticità degli eventi era stata resa più che precoce – fu semplice, fulmineo: se mi avvicino ora al soldato e lo guardo negli occhi, avrà pietà di una bambina, perché in assenza del controllo d’altri la sua umanità non avrà paura a manifestarsi. Fu questione di attimi: la cosa andò come Agnes aveva previsto. Il soldato, fissato negli occhi da una bambina spuntata dal silenzio del terrore, dopo un attimo di esitazione consentì a lei e ai suoi cari di uscire indisturbati dal ghetto, senza alcun segno di riconoscimento. Fu la loro salvezza. Da questa esperienza, la Heller mi diceva di aver tratto la convinzione alla base di tutta la sua opera: che, cioè, c’è un’umanità in tutti noi, una coscienza morale, e che questa coscienza – posta in condizione di potersi esprimere liberamente – non resiste alla trascendenza dello sguardo d’altri, soprattutto dello sguardo innocente. È sulla base di questo residuo etico, incancellabile nonostante ogni odio e violenza, che si deve scommettere sempre sull’uomo, consentendo all’umano che è in noi di imporsi su ogni altra logica, e soprattutto su ogni calcolo di interesse immediato.

Ho pensato a questa testimonianza leggendo le cifre agghiaccianti del numero dei morti presumibile come conseguenza dell’attacco all’Iraq: se solo i “body bags” predisposti (terribile parola – “sacco da corpi” – coniata per designare le buste di plastica a misura d’uomo, destinate a raccogliere i resti recuperati delle vittime) sono decine di migliaia, se gli esperti strategici parlano di alcune centinaia di vittime fra i soldati americani e di decine di migliaia (se non centinaia di migliaia) fra gli irakeni, in prevalenza civili, la guerra così decisamente voluta da Bush e dai suoi alleati e così barbaramente resa possibile dalla nequizia del regime di Baghdad appare in tutta la tragica immoralità del suo volto. Nessuno di quei morti può giustificare come “giusta” o “preventiva” una simile azione: la sproporzione fra scopo “giusto” voluto e prezzo di vite pagato è paurosamente evidente. Soprattutto, vorrei pensare a uno solo di quelle migliaia di innocenti che pagheranno con la morte la logica folle della legge del più forte, tiranno o presunto “giustiziere” che sia: e vorrei pensarlo nell’atto di guardare negli occhi Bush o Saddam, come Agnes Heller quel soldato “ariano”. Ma perché lo sguardo potesse avere effetto, bisognerebbe che i due fossero soli sulla scena del mondo, soli davanti alla voce della coscienza, e che nessuno dei due dovesse per questo temere di perdere la faccia. Ben vengano allora le parole di Chirac, che elogiano il valore della pressione militare esercitata dagli USA sul dittatore irakeno per costringerlo al disarmo, pur rifiutando nettamente il ricorso alla guerra; o quelle del Card. Etchegaray, che anche in Saddam riconoscono un interlocutore cui parlare con verità e limpidezza morale, facendosi voce di tutti gli innocenti che pagherebbero con la vita l’ostinazione di un rifiuto. Questi due protagonisti, entrambi francesi, della Francia che con la sua rivoluzione inaugurò l’epoca moderna, uomini dalle storie diversissime, dimostrano di convergere nell’unico ragionamento che si debba oggi fare per evitare pacifismi facili o strumentali nell’atto di rifiutare la guerra: il ragionamento che fece la piccola Agnes, capace di guardare nel cuore del soldato rimasto solo, aiutando la sua umanità ad esprimersi e la voce della coscienza a dirigerlo al posto del fanatismo dell’ideologia o del potere del più forte. Per evitare la guerra, bisognerebbe insomma che il gendarme del mondo e il dittatore spietato restassero soli, anche per un attimo, davanti allo sguardo di un bambino innocente che chiede loro la vita. Ma una frase di Agostino ci ricorda quanto difficilmente ciò possa avvenire, perché “troppo ambizioso è colui al quale gli occhi di Dio spettatore non bastano”…

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            Sono in molti ad essere stati colpiti dalle parole pronunciate dal Papa mercoledì 12 Dicembre 2002, durante la cosiddetta “catechesi del mercoledì”: riferendosi a un testo del profeta Geremia (cap. 14, vv. 19_21), ed in particolare alla domanda rivolta a Dio: “Perché ci hai colpito, e non c’è rimedio per noi?” (v. 19), Giovanni Paolo II ha detto: “Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità. Le domande a Lui rivolte si fanno tese … Ormai ci si sente soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. Il popolo, lasciato a se stesso, si trova come sperduto e invaso dal terrore”. Chi si sentisse scandalizzato davanti a simili espressioni, dovrebbe ricordare che il Papa sta commentando un testo profetico struggente, pronunciato in una situazione drammatica del popolo d’Israele da un uomo, Geremia, che è l’unico fra i profeti ad essere stato chiamato da Dio ad una consacrazione totale, alla rinuncia perfino ad una propria sposa e ad una propria famiglia, per essere strumento del Signore in mezzo alla sua gente. Geremia ama Dio di un amore appassionato e geloso, e sente il Suo silenzio davanti alla violenza e al dolore degli uomini come una ferita aperta, come una sfida paradossale alla sua fede innamorata e totale. In questo senso, non è difficile cogliere un’analogia fra il grido del Profeta e il grido ripetuto di questo vecchio Papa che chiede pace e giustizia per i più deboli, e non perde occasione per dire no alla logica folle della guerra come via di soluzione dei conflitti. È come se – davanti alla sordità dei potenti della terra – il Papa si appellasse al giudizio di Dio e col Profeta riconoscesse nel divino silenzio un drammatico giudizio sui mali del mondo. Si comprende allora come questo lamento – lungi dall’essere voce di disperazione o addirittura di sfida – sia voce dell’amore di chi sente tutto il peso del peccato del mondo e legge nel misterioso linguaggio dell’Eterno un appello dolente a ritornare a Lui: “A questo punto ecco la svolta: il popolo ritorna a Dio e gli rivolge un’intensa preghiera. Riconosce il proprio peccato con una breve ma sentita confessione della colpa: ‘Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità… abbiamo peccato contro di te’ (v. 20). Il silenzio di Dio era, dunque, provocato dal rifiuto dell’uomo. Se il popolo si converte e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo”. Col linguaggio forte dei Profeti, Profeta lui stesso del Dio sofferente davanti al male del mondo, Giovanni Paolo II rivolge l’invito più inquietante alla coscienza dell’Occidente e dell’umanità intera, quello ad abbandonare l’assurda pretesa dell’ “occhio per occhio – dente per dente”, per entrare nell’unica logica degna dell’uomo immagine di Dio, quella che vede come sola via alla pace la giustizia e il perdono.

Ma non è questo un invito utopico? Non si mette fuori del mondo chi ragiona così? E non è alla fine rinunciatario e perdente chi si fa agnello davanti ai lupi? Un pensatore ebreo, André Neher, che al silenzio del Dio biblico ha consacrato forse la sua opera più bella (L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Genova 1983), ci aiuta a trovare risposta a queste domande: “Lo studio del silenzio nella Bibbia – egli scrive – conduce, al di là di una semplice fenomenologia del silenzio, verso il punto sensibile dove si scontrano due concezioni teologiche… L’una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull’altra riva, di fronte all’Alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terra ferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso… L’altra, che introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di un’insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale, non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale…». Questo “Dio dell’arcata spezzata” restituisce all’uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo attento al valore dell’opera presente a prescindere da ogni risultato o ricompensa promessi, totalmente libero nella dignità della sua scelta: “Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l’uomo, ma, al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio con il silenzio… Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento ineluttabile, l’appuntamento dell’universo opaco del silenzio”. È nel rischio della libertà che si gioca insomma la vita di ogni uomo davanti al tempo e davanti all’eterno: chi in Dio non cerca facili rassicurazioni, ma la nuda roccia della verità, sa che il bene va fatto anche quando apparisse improduttivo o perdente. Di fronte al silenzio di Dio e alla sua inquietante ambiguità, l’essenziale è la semina, l’atto che si compie in obbedienza a Lui, lasciando nelle Sue mani l’intero avvenire: “L’essenziale – scrive ancora Neher – non è nel raccolto, l’essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza. La speranza è nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio”. Al silenzio di Dio può corrispondere allora solo un atto di amore gratuito e totale che porti a rischiare ogni cosa pur di piacere a Lui e costruire la vita e il mondo secondo la Sua volontà. Come dire: occorre giocare tutto sulla convinzione che la pace è opera di giustizia, e che senza giustizia e perdono non ci sarà mai la pace e il bene per tutti. Ma chi dei grandi dell’Occidente sarà disposto ad ascoltare questo grido di dolore, di speranza e di fede, in Dio e nell’uomo?

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            “La storia non è giustiziera, ma giustificatrice”: queste parole di Benedetto Croce mi sono tornate in mente di fronte a quanto sta accadendo dopo la caduta di Bagdad e la fine del regime sanguinario di Saddam Hussein. Il fatto che la vittoria abbia arriso in tempi così rapidi agli alleati anglo-americani porta molti commentatori a correggere il tiro rispetto alle critiche avanzate prima nei confronti delle scelte di Bush e dei suoi partners o a caricare la dose in loro favore, quasi che l’esito – peraltro abbastanza scontato, data la schiacciante superiorità della macchina bellica americana – renda morale ciò che non lo era e assolva la violazione compiuta del diritto internazionale e la profonda ferita inflitta alle Nazioni Unite, all’alleanza atlantica ed all’Unione europea da quanto è avvenuto. C’è perfino chi vorrebbe ridimensionare la forza della denuncia del Papa, specie di quel suo finale appellarsi al giudizio della coscienza, della storia e di Dio, di fronte a cui ha posto chi ha voluto ad ogni costo la guerra. La verità, però, non va contrabbandata con il successo storico: come affermava esattamente quarant’anni fa Giovanni XXIII aprendo l’enciclica Pacem in terris, “la pace, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”, cioè obbedendo alla forza della verità, che continua ad avere tutta la sua autorità anche quando chi ha agito contro di essa sembra trionfare. E la verità è che questa guerra – così come è avvenuta e si sta svolgendo sotto gli ultimi colpi di coda dello sconfitto – ha confermato il giudizio sulla sua immoralità, sulla sua illegalità e sulla sua sostanziale inutilità e pericolosità.

A denunciare l’immoralità del conflitto che si va concludendo sta il numero di vittime che esso ha prodotto specialmente fra la popolazione civile, inerme ed incolpevole: se possono considerarsi relativamente poche le vite umane sacrificate fra i soldati della coalizione – mai dimenticando che ognuna di esse ha un valore infinito ed ha pagato un prezzo senza ritorno –, non altrettanto può dirsi dei soldati iracheni e dei civili, sterminati dalle armi “intelligenti” in una misura che i sofisticati strumenti di informazione della superpotenza si rifiutano esplicitamente di quantificare, perché ben si sa quale effetto negativo avrebbe sull’opinione pubblica mondiale la conoscenza di questa quantificazione. Peraltro, la sproporzione fra gli scopi che venivano sbandierati da chi ha voluto il conflitto e il costo in termini di sofferenza e di morte che il loro conseguimento avrebbe comportato, data anche la quantità e la qualità del materiale bellico impiegato, aveva motivato la denuncia dell’immoralità di questa guerra ben prima che essa cominciasse. Non c’è alcuna consolazione nel poter affermare “l’avevamo detto”, anche se ancor più scandaloso appare quel che è successo, se misurato sulla sola constatazione che la spesa costata per mettere in piedi e portare a compimento questo conflitto sarebbe bastata a sfamare le masse affamate dell’umanità per un tempo considerevole, garantendo a milioni di esseri umani quel diritto alla sopravvivenza e alla dignità della vita che è di fatto loro negato. Se possono rallegrarsi i produttori d’armi per i profitti realizzati e per quelli prevedibili in vista del riarmo, non altrettanto possono fare le innumerevoli vittime che continueranno a morire di fame e di ingiustizia nel mondo. E questo è un dato che nessuna vittoria può cancellare o far dimenticare.

L’illegalità di questa guerra appare chiara dalla palese violazione del diritto internazionale di cui essa è frutto: calpestata l’autorità dell’ONU, l’unico organismo cui può essere affidata la ricerca di soluzioni durevoli ai conflitti secondo diritto e giustizia, ignorate tutte le voci di dissenso espresse non solo ai livelli più alti di autorità morale, ma anche da intere nazioni e da immense folle uscite allo scoperto per chiedere la pace secondo le vie del dialogo, esautorati gli ispettori internazionali proprio quando il loro lavoro cominciava a dare frutti, si è voluta sostituire alla forza della legge la legge della forza. La giustifica del nobile fine di abbattere un tiranno non regge se misurata sul numero dei tiranni tollerati o addirittura sostenuti contro ogni legalità e democrazia in tante parti del mondo. È soprattutto però sul piano politico che questa “guerra del petrolio”, come è stata battezzata da molti, rivela il profondo disprezzo del diritto da cui è nata: a una logica di partecipazione e di corresponsabilità fra le nazioni, cui si sono appellati la maggioranza dei paesi membri delle Nazioni Unite e dello stesso Consiglio di Sicurezza, si è preferita una logica egemonica che imponesse con la violenza al resto del mondo la volontà del più forte. L’alternativa fra partecipazione ed egemonia è stata risolta a favore della seconda, col rischio che questa scelta infelice, dalle conseguenze disastrose per il futuro del “villaggio globale”, potrà essere perseguita anche nella ricostruzione dell’Iraq e soprattutto nello sfruttamento delle sue ricchezze. Potranno i toni più moderati di Blair fermare la volontà della superpotenza di rifarsi dell’ “investimento” compiuto?

Infine, se questa guerra doveva portare al mondo più pace, e dunque più giustizia e libertà, essa si è rivelata inutile e pericolosa: l’odio antiamericano e in generale antioccidentale delle masse arabe è a livelli mai prima raggiunti; gli stessi che – come in stragrande maggioranza gli Europei – amano e rispettano gli Stati Uniti e la loro civiltà democratica, sono in larga misura dissenzienti dalla politica egemonica che ha ispirato il conflitto e che vorrebbe guidarne la finale risoluzione; il terrorismo si è alimentato di una nuova fiamma, che sta purtroppo già dando frutti in schegge tanto impazzite quanto incontrollabili; la libertà dell’Iraq appare più un’utopia che una realtà, atteso il clima di odio e di violenza che la fine del regime barbaro di Saddam lascia dietro di sé, e che le armi americane hanno solo esasperato ed accresciuto, come dimostra emblematicamente l’omicidio dell’Imam sciita amico degli Americani da parte dei suoi stessi correligionari. Un nuovo Afghanistan sembra profilarsi, in una situazione di insicurezza che richiederà per essere superata tempi e mezzi tutt’altro che secondari. Soprattutto, le coscienze ferite di tante donne e uomini – in cui è stata minata la fiducia nella giustizia e nelle armi del dialogo e della riconciliazione – richiedono cure quali nessuna politica egemonica riuscirà mai ad offrire. Più che mai, allora, il mondo ha bisogno di profezia: lo aveva capito Giovanni XXIII offrendo a tutti gli uomini di buona volontà l’enciclica Pacem in terris, che richiamava come capisaldi necessari della pace la verità, la giustizia, la libertà e l’amore. Ne è stato sempre convinto Giovanni Paolo II, che continua ad essere profeta della pace nonostante tutto e contro ogni logica giustificazionista post-bellica. Quanti ancora saremo disposti a capirlo con loro, impegnando ogni possibile energia per costruire la pace nella giustizia e nel perdono, davanti al tribunale della coscienza, a quello della storia e – soprattutto – davanti all’ineludibile giudizio di Dio?

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È un panorama dolcissimo quello che si vede dalla stanza dove sto scrivendo, qui in Israele, sul Monte delle Beatitudini, a poca distanza da Tiberiade: il “mare di Galilea” si stende ai piedi della collina, circondato da alture ricoperte ancora in gran parte di verde, nonostante il caldo dell’estate. Il golfo su cui si affaccia l’antica Cafarnao – riportata alla luce dagli scavi di eccezionali archeologi italiani, tutti francescani – è poco più di una larga insenatura della costa, eppure – per l’armonia delle sue forme, per il gioco delle colline e dei monti in lontananza, per la luce bellissima del cielo e i colori pastello della terra e del mare – mi ricorda la bellezza del golfo di Napoli.

Partecipano al corso che sto tenendo religiose che vengono da vari paesi del Medio Oriente, da Israele, dall’Autonomia palestinese, dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania e dall’Iraq. Quasi tutte arabe di madre lingua, vivono il servizio del Vangelo nelle situazioni più calde e difficili di quest’area tormentata, accanto ai più poveri e sofferenti dei figli di questi popoli fra loro così vicini, eppure così lontani. Se a Haifa la maggior parte degli ammalati curati dalle suore sono ebrei, a Betlemme gli anziani della casa di accoglienza gestita dalle religiose di fronte alla tomba di Rachele sono tutti palestinesi, come pure i poveri che bussano ogni giorno alle porte del dispensario o i bambini che esse accolgono nel baby hospital sostenuto dalla Caritas. Ad Amman l’ospedale delle missionarie accoglie ora soprattutto rifugiati iracheni, che aumentano di giorno in giorno da quando la guerra – ufficialmente finita – ha ceduto il posto al caos e alla violenza più disperanti che si possano immaginare. In mezzo a queste persone, all’ombra del Santuario delle Beatitudini, la storia ti appare veramente da un altro punto di vista: quello dei più deboli, dei tanti civili innocenti che pagano le politiche di egemonia della superpotenza americana o la brutale logica militare di Sharon o la follia cieca dei terroristi palestinesi. Questo spettacolo di violenza inaudita abbraccia i poveri di tutte le parti, dai tanti israeliani che hanno perso il lavoro o vivono nell’angoscia quotidiana degli attentati, agli arabi ridotti alla miseria più nera, agli iracheni spinti da quanto sta accadendo a rimpiangere perfino Saddam.

Eppure, in questo luogo di pace, accanto a questa storia di violenze e di dolore ne vedo un’altra scriversi nel silenzio: è la storia della carità che vince le differenze, del perdono che riconcilia i nemici, dell’amore che sana le ferite dei cuori. La suora araba che cura gli ebrei, o l’indiana che serve con amore materno i piccoli palestinesi, o l’italiana e la maltese che hanno speso tutta la loro vita per gli uni e per gli altri, per gente di lingua e cultura diversa e spesso di fede diversa, lanciano con l’eloquenza silenziosa dei loro gesti quotidiani d’amore un messaggio più forte di quello delle bombe o degli odi contrapposti, un messaggio umile, che almeno per una volta ha diritto ai riflettori della prima pagina. È l’annuncio credibile di una “possibilità impossibile”, di un “possibile-impossibile” amore, che possa portare i nemici a riconciliarsi, gli offesi a perdonarsi, le vittime delle due parti a riconoscersi solidali in umanità e nel bisogno della pace. Se c’è una possibilità che la “road map” porti a un futuro diverso, essa passa attraverso questa capacità di giustizia per tutti e di perdono, dato e ricevuto da tutti. L’altra storia, quella dei piccoli e dei poveri e quella della carità di chi li ama senza condizioni o discriminazioni, come solo Dio rende capaci di amare, è cattedra ineccepibile, alla cui scuola dovrebbero andare i grandi e i potenti della storia scritta sulle prime pagine: saranno questi in grado di apprenderne la lezione? Dalla risposta a questa domanda dipende il futuro di pace che gli abitanti di questa terra santa e tormentata potranno costruire insieme o non costruire affatto.

NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 2.10.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.