La paideia cristiana di Agostino

INDICE CAPITOLO VII

  1. Senso della vita e formazione cristiana nel De ordine
  2. La possibilità dell’insegnamento e il Maestro interiore nel De magistro
  3. Le Confessiones
  4. Curiositas, ragione strumentale e sapienza
  5. La prima istruzione cristiana (De catechizandis rudibus)
  6. Comprendere la Parola e annunciarla
  7. Osservazioni conclusive
  1. Senso della vita e formazione cristiana nel De ordine

Non è certo un caso che in uno dei dialoghi di Cassiciàco Agostino abbia subito affrontato, e in modo tematico, il problema del valore della cultura per la formazione del cristiano. Il primo scritto pedagogico di Agostino è il De ordine («L’ordine»),di poco posteriore alla conversione, evento biograficamente databile nell’agosto del 386. Alla conversione Agostino fa seguire alcune decisioni di grande rilievo: la scelta della castità come stato di vita; le dimissioni dall’insegnamento anche a causa di una lesione polmonare da cui era afflitto; il ritiro con gli amici diletti e i familiari nella villa che l’amico Verecondo mise a sua disposizione, in campagna, a Cassiciàco, a una trentina di chilometri da Milano. A Cassiciàco la giornata è intensa: si alternano i lavori di campagna, i momenti di preghiera, la lettura e lo studio, la conversazione, l’approccio alle Scritture, la meditazione personale. Agostino esprime in quel ritiro l’improvvisa, ardente creatività che sgorga dalla sua nuova condizione con una produzione di grande interesse.

La stesura del De ordine, inframmezzata a quella del Contra Academicos e dei Soliloquia, potrebbe essere collocata con una certa approssimazione tra il novembre e il dicembre del 386. L’andamento di questo come degli altri due dialoghi di Cassiciàco rivela la spontaneità e i ritorni propri del discorso parlato, per cui molti studiosi si sono pronunciati per la loro storicità, pur concedendo un ristretto margine alla finzione letteraria. L’autore aveva allora trentatré anni. L’argomento del dibattito è la razionalità nell’universo e quella che più direttamente dipende dall’uomo, dal modo in cui questi imposta e risolve il problema della vita.

 

1.1. La radice di ogni alienazione: la perdita della dimensione interiore

Il De ordine si caratterizza in primo luogo per le fresche, acute osservazioni su concreti aspetti e momenti del processo educativo. Per Agostino è una fonte psicologica di irrazionalità e alimenta un disordinato soggettivismo l’incapacità a cogliere una veduta d’insieme in un certo ambito di fenomeni e, ancor più, sul senso stesso della vita. Avere la vista limitata è come percepire solo un quadratino per volta e intestardirsi a notarne le imperfezioni, invece di cogliere l’unitaria bellezza dell’intero mosaico. Se poi qualcosa urta la nostra immaginazione, questa lo ingrandisce a dismisura e si sente autorizzata a proclamare l’irrazionalità del mondo e della vita (I, 1, 2). La prima e più radicale forma di alienazione è quella dell’uomo che perde se stesso. L’uomo si smarrisce perché non ha conoscenza di sé. «Erroris maxima causa est, quod homo sibi ipse est incognitus» (I, 1, 3). Non può vivere una sua propria vita autonoma e personale chi non lavora a mettersi in chiaro con se stesso e non si impegna a individuare e a cauterizzare «le piaghe dei pregiudizi correnti prodotte dalla banalità quotidiana». Lo spirito, divenuto estraneo a se stesso, si frantuma in molteplici direzioni e si degrada a una reale mendicità perché la sua natura lo stimola a cercare l’unità, ma la dispersione nella molteplicità glielo impedisce (I, 2, 3). Invece, «il filosofo è con Dio poiché ha coscienza della propria interiorità (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intellegit)» (II, 2, 5).

Il dialogo ha una sua particolare efficacia nel mettere in moto gli spiriti. «Anche coloro che sono profani di studi filosofici – nota Agostino – possono insegnare qualche cosa quando si sentono per così dire legati dalle catene del dialogo in compagnia di persone che discutono» (I, 5, 13). Tuttavia Agostino non si fermava al dialogo: voleva che gli studenti facessero seguire a esso adeguate letture. Cosa ancor più significativa, i giovani «avevano ricevuto l’ordine che, oltre la lettura, imparassero a riflettere e abituassero lo spirito ad abitare in se stesso» (I, 3, 6): bisogna raccogliersi in silenzio perché l’oblio non inghiotta quello che di vero e di bello abbiamo pure intravvisto o compreso, perché il filosofare diventi meditazione, emendazione della vita e dell’intelletto, ascesa a Dio e amore di Dio (I, 8, 23).

Nel processo educativo interagiscono fattori e fini diversi, ma su di un problema si esige un chiarimento di fondo, in via pregiudiziale: quello del complesso rapporto tra autorità e ragione. Il pensiero di Agostino sull’argomento è, già qui, in quest’opera «prima», delineato con grande forza. «All’apprendimento siamo condotti necessariamente da un duplice principio: l’autorità e la ragione. In ordine di tempo viene prima l’autorità, secondo la realtà è prima la ragione (tempore auctoritas, re autem ratio prior est). Una cosa, infatti, è il principio che si suppone come stimolo all’attività e altra ciò che si valuta come fine. L’autorità dei dotti è ritenuta più efficace per coloro che ancora non sono istruiti e la ragione più conveniente per le persone colte. Ma la persona colta non è stata sempre tale e chi non è istruito non sa con quale metodo può apprendere. Ne consegue che soltanto l’autorità può dischiudere le porte a tutti coloro che aspirano ad apprendere. Chi è entrato attraverso quella porta segue, senza incertezze, le regole della vita razionale, grazie alle quali è divenuto idoneo ad apprendere e a valutare in che misura fossero fondate le nozioni apprese prima della verifica razionale e che cos’è la stessa ragione che, risvegliata all’inizio dall’autorità, egli ormai segue e intende» (II, 9, 26).

1.2. Autenticare il rapporto educativo e le ragioni di una vita più alta

Le linee di una vigorosa educazione morale e civile dei giovani e il profilo dell’educatore sono tracciati nel secondo libro. L’educatore è tale se unisce ricerca e testimonianza, cultura e vita; si medita una verità tanto più perfettamente quanto più la si possiede, vivendola. Ai giovani bisogna comunicare la gioia della libertà interiore e della generosità perché solo allora essi comprendono le ragioni di una vita più alta. Si deve essere padroni di sé per meglio donarsi agli altri. Sono d’ostacolo al recupero e all’attuazione di se stessi nell’amore totale per Dio e il prossimo la sfrenatezza, il torpore nell’accidia e soprattutto l’avidità. «Si convincano i giovani – scrive Agostino – che l’amore delle ricchezze è il più sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione (amorem pecuniae totius suae spei certissimum venenum esse credant)» (II, 8, 25).Gli educatori, dal loro canto, stiano attenti a non porre sulle spalle dei giovani pesi che essi stessi non vorrebbero portare. «Si guardino da ogni eccesso nell’usare le sanzioni e, nel perdonare, da ogni difetto. Non puniscano se non giova al meglio, non siano indulgenti se può volgere al peggio. Considerino come familiari coloro su cui è dato loro il potere. Sentano talmente di essere a loro servizio da vergognarsi di esercitare un potere su di loro e usino tale potere come se provassero diletto a servirli». Ai giovani e ai loro educatori Agostino rivolge un appello umanissimo, che rispecchia non solo il suo ideale educativo, ma la sua stessa personalità di maestro ed amico. «In ogni condizione di vita, luogo e tempo abbiano degli amici e si adoperino per averli. Rendano omaggio ai degni, anche se non lo sollecitano. Non si preoccupino dei superbi e non lo siano. Vivano in modo saggio e conveniente. Onorino, meditino, cerchino Dio nel fondamento della fede, della speranza e della carità. Desiderino ardentemente per se stessi e per quanti è possibile un effettivo progresso negli studi, una coscienza buona, una vita pacifica» (II, 8, 25).

A scuola Agostino mirava innanzitutto a suscitare nei giovani l’amore appassionato della verità. Nella commossa chiusa del dialogo Agostino ringrazia la madre, Monica, le cui preghiere gli hanno ottenuto da Dio «il dono di questa disposizione d’animo: di non preferire assolutamente nulla alla scoperta della verità e di non volere, non pensare, non amare altro che essa». Cercare la verità in spirito, essere ex veritate è l’augurio che Agostino rivolge ai suoi amici e discepoli ed è la via con cui si perviene al Bene più grande, che un giorno conseguiremo e che ora non si ama mai troppo (II, 20, 52).

Più avanti, in una lettera, Agostino osserverà che «nessuno può essere amico di un uomo se non lo è stato in primo luogo della verità: amore questo che, se non è disinteressato, non è assolutamente amore (nemo enim potest veraciter amicus esse hominis, nisi fuerit primitus veritatis: quod si gratis non fiat, nullo fieri pacto potest)» (Ep., 155, 1, 1).

Si comprende, quindi, come egli si sentisse deluso e ferito in ciò che aveva di più caro quando vedeva che tra gli studenti non mancavano quelli che erano mossi da meschini calcoli. «Tu sai – dice rivolgendosi a uno dei giovani interlocutori di Cassiciàco – che nella mia scuola io ero preso sempre da violento voltastomaco (graviter me stomachari solitum),quando vedevo i ragazzi lasciarsi guidare non dall’intrinseca utilità e bellezza degli studi, ma dall’insulsa, stupida sete di ostentazione. Pur di accaparrarsi un credito che non meritavano, alcuni non si vergognavano nemmeno di declamare discorsi altrui. Era proprio un’indecenza, una roba da far piangere» (I, 10, 30). La morbosa passione di primeggiare a ogni costo ingenera, infatti, disposizioni d’animo ostili nei confronti dei compagni e dei maestri. Quando Agostino si accorge che due suoi discepoli traggono una specie di perverso piacere l’uno dalla situazione di disagio dell’altro, le sue parole si fanno accorate e l’appello al primato della bontà fa tacere ogni altra considerazione. «Vi prego, se un qualche rapporto di amore o di amicizia vi lega a me, se capite quanto vi ami, quanto vi apprezzi, quanto mi preoccupi della vostra condotta, se sono degno di non essere dimenticato da voi, se, infine, e Dio mi è testimone, non mentisco quando dico che non desidero per me nulla di più di quanto desidero per voi: vogliatemi bene. E se spontaneamente mi chiamate maestro, ricompensatemi: siate buoni (Et si me magistrum libenter vocatis, reddite mihi mercedem: boni estote)» (I, 10, 29).

Agostino, che conosce il misterioso intreccio dei sentimenti umani, ha anche presente il rischio di un’oscillazione pendolare fra atteggiamenti opposti, senza che si giunga ad attestarsi sul crinale da cui dominare l’uno e l’altro versante. «Per il fatto che tento di allontanarvi dall’insana rivalità e dalla sciocca ostentazione, non diverrete per questo più indolenti nello studio. Non vi congelerete certo nel torpore dell’inerzia, sol perché siete stati privati del pungolo di una rinomanza priva di significato. Non vorrei che da voi le passioni scomparissero solo per cedere il posto ad altre passioni» (I, 10, 30).

1.3. Cultura e fede

Il De ordine celebra, senza infingimenti e insieme con equilibrio critico, la capacità formativa delle discipline liberali. «Io, se posso dare un consiglio ai miei, secondo il mio pensiero e il mio sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere se vogliono avere intelligenza dei problemi» (II, 5, 15). Ma anche un programma modesto e rudimentale, quale Agostino vuol tracciare in quest’opera, «rende gli amatori della verità più solleciti nel desiderarla vivamente, più costanti nel ricercarla assiduamente, più disposti ad aderirvi con serenità» (I, 8, 24). La filosofia riconduce la molteplicità delle conoscenze a un’unità armonica e tutt’altro che artificiosa, senza della quale avremmo un’erudizione pesante, inutile, farraginosa. Nelle sue due operazioni fondamentali, l’analisi e la sintesi, la ragione cerca l’unità. «Quando analizzo voglio renderla pura, quando sintetizzo voglio renderla integra. Nell’analisi si scartano gli elementi estranei, nella sintesi si congiungono le parti omogenee, nell’un caso e nell’altro si tende a far sì che l’unità risulti quanto più possibile» (II, 18, 48). Il livello ontologico delle diverse realtà costituisce il criterio di valore per una gerarchia delle discipline che entrano a far parte dell’insegnamento. Tutte le conoscenze che riguardano il mondo aiutano a capire il posto dell’uomo nella creazione e la natura originale dello stesso soggetto conoscente. Dal mondo esteriore, dalla natura degli esseri a noi dati sensibilmente, si passa all’interiorità dello spirito. «Ritorno in me stesso e indago chi sia io che indago tali cose», dirà in seguito Agostino (Enarr. in Ps., 41, 7). Dall’interiorità dell’anima si ascende a Dio, causa che ha creato l’universo, luce che fa percepire la verità, sorgente a cui si beve la felicità. La filosofia ha la capacità di unificare interiormente la cultura e l’educazione proprio perché il suo problema ha un duplice oggetto: l’anima e Dio(«duplex quaestio est: una de anima, altera de Deo», II, 18, 47).«Il primo fa in modo che noi conosciamo noi stessi; il secondo che noi conosciamo la nostra origine. L’uno è a noi più dilettevole, l’altro più caro». E l’ordine degli studi per giungere alla sapienza, esige che si cominci dall’anima per giungere a Dio (II, 18, 47). Il mondo è per l’uomo, ma l’uomo è per Dio ed è la legge di progressione del valore che comanda la scelta dei contenuti e dei fini dell’educazione.

Lo studium sapientiae,la filosofia, è intesa da Agostino come un esercizio liberante della ragione che per sua forza si apre alla fede nella convinzione, suffragata dal suo stesso itinerario spirituale, che «la legge razionale è valore che, attuato, ci conduce a Dio» (I, 9, 27)e che le verità rivelate, le quali integrano e oltrepassano le conquiste della sola ragione, liberandoci dall’incertezza e dall’errore, «non si confondono con le verità razionali, come alcuni dicono, ma non entrano neppure in dissidio con esse, come altri vorrebbero (nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi predicant)» (II, 5, 16).Contro questa seconda tesi Agostino è assai esplicito. «Le Scritture non insegnano a evitare e a schernire gli amatori della saggezza in senso assoluto, ma gli amatori della saggezza di questo mondo. Chiunque pretende che la filosofia si deve evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza» (I, 11, 32). Per la sua profonda umanità e universalità, la filosofia può e deve essere esigenza di tutti: l’intelligenza e la dignità morale di chi cerca la verità con tutta l’anima sono beni che oltrepassano le barriere dei ceti sociali e del sesso. Tuttavia la filosofia, come ricerca rigorosa e organica, esige studi preparatori nelle più diverse discipline. «Chi osa irrompere nello studio di certi problemi senza criterio e metodo scientifico diviene non studioso, ma curioso, non dotto ma credulone, non critico ma incredulo» (II, 5, 17).

Come per Platone, anche per Agostino la cultura è tutt’altra cosa che «i giardini di Adone» (Fedro, 276 b), che fioriscono in otto giorni e appassiscono ugualmente presto; si impone invece l’assoluta indispensabilità di un lavoro serio, come quello del vero contadino, che esige una scavatura profonda, dei semi scelti, una fatica continua. «Si deve seguire questo lungo cammino o rinunciare a tutto» (II, 18, 47).Certo, se prendiamo il termine filosofia nel senso originario, anche una donna come Monica, «timorosa dinanzi all’immensa selva di nozioni» (II, 17, 45), è pienamente idonea a creare la sapienza. Essa lo può, infatti, perché vive già su quella vetta a cui ci sospinge l’amore della sapienza. Il primato della bontà e della santità, fine ultimo a cui tutti sono chiamati, Agostino lo afferma chiaramente all’interno di ogni attività e azione umana, così come avverte costantemente l’assurdità e il carattere disumano di una cultura avulsa dal bisogno di verità, chiusa nel menar vanto delle sue produzioni e della sua perfezione formale. Per esserne stato tentato egli stesso, Agostino conosce molto bene l’insidia che in ogni epoca rischia di perdere non pochi uomini d’ingegno e di raffinata sensibilità: l’idolatria delle belle forme, la contrazione e l’estenuarsi dell’umano nell’estetico, il concepire la vita stessa come arte. Ma in tale preoccupazione i cristiani non erano soli, né erano i primi, essendo stati preceduti per lo meno da due tra i maggiori pensatori dell’età classica: Platone e Seneca.

Agostino negli ultimi anni della sua vita, osserverà che «le arti liberali tanti santi le hanno ignorate e tanti che le possiedono non sono santi» (Retract.,I, 3, 2); quando poi a esse sono congiunti i contenuti di «mendaci follie e ventose sciocchezze», allora non dovrebbero nemmeno dirsi liberales, cioè degne di formare uomini liberi. Sarebbe errato però considerare queste osservazioni – che in fondo Agostino avvertì sempre come vere, in ogni periodo della sua vita – come se fossero in contrasto con la consapevolezza lucida e drammatica che egli ebbe, attestata dall’esistenza stessa della sua immensa opera, che la mediazione culturale non si salta ed è anzi assolutamente necessaria in una società in cui l’annuncio religioso si confronta di continuo con le idee che in essa circolano, perché gli orientamenti degli spiriti sono tanta parte della condotta della vita. Anzi questa percezione divenne più acuta proprio col passare degli anni, sì che la distinzione, proposta da Franz Xaver Eggersdorfer e poi da Henri-Irénée Marrou, nella pedagogia agostiniana fra un periodo filosofico, a cui appartiene il De ordine,e un successivo periodo teologico, non può essere accolta senza ingenerare pericolosi fraintendimenti. In verità, non esiste nel convertito Agostino un solo momento in cui egli non identifichi la ricerca della verità e quella di Dio, né si ha conoscenza di una conversione filosofica anteriore o separata da quella religiosa.

  1. La possibilità dell’insegnamento e il Maestro interiore nel De magistro

Il De magistro(«Il maestro») è stato scritto nel 389, a Tagaste, dopo il rientro dall’Italia. Gli interlocutori sono due, Agostino e il figlio sedicenne Adeodato, il cui ingegno e la cui precoce maturità ispiravano al padre una specie di terrore (Conf.,IX, 6, 14).Sono di Adeodato i pensieri che effettivamente gli sono attribuiti e il dialogo si svolge quasi alla vigilia della sua morte prematura. L’andamento è aporetico: padre e figlio imboccano volutamente «la via lunga» (8, 21), rivoltando da ogni parte qualsiasi affermazione per saggiarne la validità, «attraverso tanti giri tortuosi» (10, 31), a causa delle difficoltà degli argomenti e nella convinzione che «è rischioso ritenere per acquisita una conoscenza che non è tale (incognita pro cognitis habere periculosum)» (De magistro,10, 31).Il problema in discussione, se è possibile l’insegnamento, si snoda attraverso questioni che gli sono strettamente connesse: se esiste davvero una comunicazione di idee mediante le parole, se quando diciamo le stesse parole intendiamo le stesse cose, se c’è corrispondenza rigorosa e costante tra linguaggio e pensiero. Il continuo intrecciarsi di tematiche di gnoseologia, filosofia del linguaggio, pedagogia suggerisce la possibilità di letture diverse del testo agostiniano. La prima parte della breve, densa opera è un’indagine sui presupposti linguistici dell’insegnare; la seconda è volta a reperire il fondamento metafisico e teologico della dottrina, solo ora formulata in modo esplicito, della interiorità del vero e del Maestro interiore.

2.1. La parola e il pensiero

Ci si chiede: le idee sono racchiuse nelle parole o chi parla rischia piuttosto di incorrere in malintesi in qualche modo inevitabili? Fin dalle prime battute Agostino, mentre slarga il concetto stesso di linguaggio fino a includervi ogni tipo di espressione, fa risaltare sia la connessione tra pensiero e parola, sia la possibilità sempre rinascente di una loro disequazione. Senza dubbio, «chi parla esprime esteriormente mediante un suono articolato un segno della propria intenzione» (1, 2). Non potremmo, infatti, pensare, dire a noi stessi le cose che pensiamo, se non formassimo in noi un linguaggio interiore, se non ci affidassimo in qualche modo a una parola interiore («quia ipsa verba cogitamus, nos intus apud animum loqui», 1, 2). Anche se tace, chi pensa parla interiormente. Pensiamo per mezzo di parole, che ineriscono alla memoria ed è mediante le parole che stimoliamo a pensare noi stessi e gli altri, sì che pensare e parlare è, in un certo senso, un insegnare a se stessi e agli altri, un’attività rievocatrice che obbliga ognuno – sia che interroghi, sia che risponda – a riflettere sulla propria esperienza. La parola è segno, in un certo senso privilegiato, che usiamo di continuo per esprimere idee e designare oggetti. Le parole si situano semanticamente su piani diversi e tuttavia le rigide partizioni grammaticali non hanno una loro intrinseca giustificazione. Da un punto di vista logico ogni parola diventa, nel discorso di cui fa parte, generatrice di conoscenza, come il nome; sì che, se si guarda, come si dovrebbe fare, alla loro funzione, «tutte le parole sono nomi (omnia verba nomina)» (De magistro,6, 17). «Ogni parola è nome e ogni nome è parola» (5, 12).

Che la parola sia stata istituita per la comunicazione tra gli uomini è un’affermazione costante di Agostino (De ord.,II, 12, 35);ma è sempre da verificare se la possibilità della parola di unire gli uomini venga compromessa dalla dissomiglianza delle parole nei confronti del pensiero. In una discussione due avversari si scontrano su una stessa espressione, perché ciascuno di essi la intende in un senso totalmente differente. In tal caso non è in questione la verità dei pensieri significati, ma il significato stesso dei segni (De magistro, 13, 59). Quando quel che sembra un dialogo è invece l’intrecciarsi di due monologhi paralleli, allora vuol dire che ci si scambiano parole piuttosto che idee: «Se poi si insinua la volontà di mentire, allora le parole servono non a manifestare, ma a nascondere intenzionalmente agli altri quello che si pensa» (13, 42).

2.2. La realtà e la parola che la designa

Il problema del rapporto tra parola e pensiero induce a considerare quello tra verbum e res, tra la parola e la realtà da essa designata. Nella parola la res viene investita dalla luce della consapevolezza del soggetto che tende ad afferrarne il senso, il valore, il modo di essere e di agire. Il segno verbale, l’universo simbolico non è necessariamente estraneo al reale, pur avendo un suo carattere semantico e allusivo: tuttavia occorre non cadere nell’ingannevole certezza del linguaggio puramente denominativo e chiedersi se la parola sia di per sé «insegnativa» del reale o piuttosto sia uno strumento per la comunicazione di conoscenze acquisite per altre vie. «È certamente un argomento inoppugnabile e si può sostenere con tutta verità che quando si dicono delle parole, o sappiamo che cosa significano, o non lo sappiamo: se lo sappiamo, esse, più che insegnarci, ci fanno ricordare; se invece non lo sappiamo, esse non ci fanno ricordare, ma forse ci spingono a cercare» (11, 36). E il discente, il quale non ha ancora quelle conoscenze che va cercando, riesce a risalire dal segno del linguaggio alle cose significate? Il pericolo che si fermi alla meccanica riproduzione del segno e ritenga di ciò che apprende non il concetto, ma la veste verbale, è fin troppo ricorrente. Indubbiamente le parole, che sono segni e suoni, tendono a significare cose e idee. «Le parole ci sono per essere usate e noi le usiamo per insegnare» (9, 26); tuttavia, chi insegnasse solo parole, sarebbe un chiacchierone («loquax amator verborum»)e non un insegnante. Infatti si usano i segni per insegnare e non si insegna per il gusto di parlare, di usare dei segni («significamus ut doceamus, non docemus ut significemus», 10, 30). Altro è parlare, altro è insegnare («aliud loqui,aliud docere», 10, 30).«La parola di per sé non mi mostra la cosa che significa» (10, 33). Leggere nel libro di Daniele (3, 94), nell’Antico Testamento, «le loro sarabare non sono state bruciate» non ha alcun senso per me ed è soltanto un suono se non so che con tale nome sono stati chiamati certi copricapi (10, 33). La parola mi può indurre a credere, ma non mi dà l’intelligenza delle cose e il vero sapere. La critica del verbalismo non poteva essere più decisa: «per quei segni che vengono chiamati parole non possiamo imparare nulla» (10, 34).

Nell’insegnamento non possiamo limitarci a spiegare parole con parole, segni con altri segni, e quelli meno noti con quelli più noti, in una specie di interminabile rincorsa, il cui esito è perlomeno dubbio. Là dove è possibile, è assai meglio mostrare le cose. A chi domandasse che cosa significhino le tre sillabe «parete» o che cosa sia «camminare» si può rispondere, nel primo caso, mostrando col dito la cosa stessa (3, 5) e, nel secondo, alzandosi e mettendosi a camminare (3, 9). Se conversiamo con un sordo e, ancor più, se gli stessi sordi comunicano tra loro, si vede che per mezzo dei gesti si riesce a «indicare tutte le cose che si vogliono o almeno moltissime» (3, 5). Lo stesso accade ai mimi. Di più: l’estensione diretta del fare può perfino rendere superflua la mediazione del segno. È il caso dell’uccellatore, che invece di spiegare al passante ignaro e incuriosito l’uso dei suoi strumenti di caccia, si mette subito all’opera, mostrandone direttamente l’impiego (10, 32). I vantaggi del metodo intuitivo su quello esclusivamente verbale sono evidenti: «Con la conoscenza degli oggetti, si effettua anche la conoscenza delle parole; al contrario con l’udire solo parole, non si apprendono neanche le parole, ma il loro suono frastornante (sonitum strepitumque verborum)» (De magistro, 11, 36).Tuttavia anche la possibilità di mostrare le cose direttamente e di indicarle col gesto, col disegno, con l’azione o attraverso ciò che a esse è simile, comporta le sue difficoltà, sebbene meno evidenti delle difficoltà del metodo verbale. Le cose o le azioni come ci vengono direttamente mostrate, in quanto oggetto immediato della nostra percezione, ci offrono proprietà molteplici in cui sono mescolati insieme l’essenziale, il primario e il secondario, l’accidentale. L’atto con cui altri ci mostra qualcosa, senza l’ausilio della parola, e la nostra percezione sensibile nella sua immediatezza, non ci aiutano di per sé né a distinguere tra loro le proprietà dell’oggetto, né a collegarle secondo il loro reale valore. Così, a esempio, il semplice mostrare col dito una parete – che può essere alta o bassa, larga o stretta, colorata in un modo o nell’altro – può indurre l’allievo a ritenere come specifico e proprio ciò che è inessenziale o casuale. La genialità del De magistro sta proprio nell’aver colto contemporaneamente le insufficienze del metodo verbale e del metodo intuitivo, con una perspicacia ancor oggi insuperata.

La conclusione a cui perviene la prima parte del testo agostiniano è chiara. La parola – di cui Agostino si ripromette di esaminare un’altra volta «l’utilità, la quale, a ben considerarla, non è trascurabile» (14, 46) – è insieme necessaria e insufficiente; così come l’intuizione sensibile. Infatti un atto di conoscenza che non si fermi al mero constatare, non si compie senza la parola, mediante la quale il pensiero si formula e si esprime. Ma «le parole sono vuote, se nell’udirle l’intelligenza non abbia effettivamente la possibilità di portarsi ai concetti, di cui esse sono segni» (8, 22). Per la conoscenza e per l’insegnamento, se si tratta di proprietà sensibili, ci volgiamo alle proprietà dei corpi, attraverso i sensi di cui l’intelligenza si serve come di strumenti, e all’azione evocatrice della memoria, che serba in sé le immagini di quello che una volta fu percepito. Per ciò che conosciamo con l’intelligenza e il ragionamento, per gli intelligibili, entra ancor più direttamente in gioco l’attività del soggetto pensante. Senza l’attività concettualizzatrice di colui che apprende, senza l’esercizio rigoroso della sua capacità giudicante – per la quale i concetti stessi gli appaiono veri o falsi – non c’è vera conoscenza, ma tutt’al più la mera assunzione di notizie o di schemi mentali. Si può «incamerare il pensato» – quali che siano gli ambiti a cui esso si riferisce, i suoi contenuti e gradi di elaborazione con cui si presenta – senza che ci sia un vero e proprio«pensare» come atto personale. Si hanno allora un sapere ed un insegnamento che opprimono l’intelligenza invece di liberarne il dinamismo, mentre l’insegnamento dovrebbe mirare in primo luogo ad avviare il processo di autoformazione di colui che apprende. Afferrare e capire un discorso significa rendersi conto di ciò che ha in mente chi ha parlato; ma c’è anche il problema di cogliere il suo valore di verità, di sapere se ha detto il vero (13, 45). I docenti hanno forse il compito di comunicare agli allievi esclusivamente i loro pensieri o, in primo luogo, quegl’insegnamenti che formano la struttura stessa, la logica interna, il livello specifico di conoscenza di una disciplina? La domanda è di quelle che vanno al nocciolo di una questione. «Chi è tanto stolto e curioso – si chiede Agostino – da mandare il proprio figlio in una scuola a imparare ciò che pensa il maestro? Quando i docenti spiegano con le parole quelle discipline che dichiarano di professare, i cosiddetti discepoli esaminano per proprio conto il valore di verità di ciò che è stato detto, contemplando secondo le proprie forze la verità interiore: ebbene, solo allora imparano» (14, 45).Secondo Agostino non c’è educazione senza autoeducazione, non c’è un reale apprendere senza l’atto personale di intendere e giudicare. Ciò non vuol dire che Agostino neghi l’utilità dell’insegnamento, né tanto meno la concreta situazione di chi apprende, perché a causa della natura sociale dell’uomo nessuno può fare a meno, per diventar se stesso, dell’altrui esperienza. Un’autoeducazione fuori dalla storia appare ad Agostino cosa assurda e astratta (Retract., I, 8, 2).

2.3. La legge dell’interiorità del pensiero e la dottrina del Maestro interiore

Agostino rinnova originalmente il tema socratico della maieutíca e quello platonico dell’anamnesis, ponendo a fondamento del suo socratismo cristiano «la legge dell’interiorità del pensiero» (Étienne Gilson), la dottrina dell’illuminazione. Il punto di partenza è la concezione della verità come disvelamento e non produzione. «L’attività razionale non produce la verità, ma la scopre. Prima ancora di essere trovata,la verità esiste per se stessa e, quando vien trovata, ci rinnova» – afferma Agostino nel De vera religione (39, 73), un’opera dello stesso periodo o di poco posteriore1. La mente intuisce e usa nella ricerca e nella dimostrazione del vero i principi regolativi della sua stessa attività, le interiores regulae veritatis (De lib. arb., II, 12, 34). Esse sono presenti in noi, ma non sono da noi; sono interiori e trascendenti. Sono in noi non come una pagina dove si legge, ma come una forza che capacita alla lettura. Per esse la nostra mente è partecipe di una legislazione, la cui sorgente è il Logos, l’Intelligenza creatrice, il Verbo. In tal modo la trascendenza di Dio si coglie nel punto massimo di interiorità. «Non uscir fuori di te, torna in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità. E se trovi mutevole la tua natura, trascendi te stesso! Oltrepassandoti, ricordati che tu trascendi un’anima razionale. Tendi dunque là donde si accende il lume stesso della ragione» (De vera religione, 39, 72)2.

La dottrina della illuminazione delinea la partecipazione umana al Verbo, cioè a quella vita che è la luce degli uomini. Quella che Giuseppe Faggin ha felicemente chiamato la «essenziale curvatura teologica» della pedagogia agostiniana qui si manifesta in pieno. Per Agostino «l’uomo, in quanto dotato di intelligenza, è naturalmente un essere illuminato da Dio» (De diversis quaestionibus octoginta tribus, q. 54). Abbozzata nel De vita beata (IV, 35), suggerita nei Soliloquia, questa dottrina si dispiega in tutto il De magistro, toccando il punto più alto proprio nella conclusione. Il monito del Vangelo di Matteo (23, 10), unus est Magister vester, «uno solo è il vostro Maestro», è la risposta alla ricerca del fondamento per cui tutti gli uomini sono condiscepoli d’un solo e medesimo Maestro, in virtù del quale diviene possibile la loro comunione in una stessa verità. Lo sviluppo sinfoniale che le opere maggiori danno alle intuizioni del De magistro attesta l’essenziale unità del pensiero agostiniano e il singolare valore di un testo metafisico, gnoseologico e spirituale relativamente breve. Dio è più presente all’uomo di quanto l’uomo possa esserlo a se stesso ed è il divino Maestro interiore che, pur ammonendo e sollecitando dal di fuori, attraverso le più diverse situazioni ambientali e sociali, regge la mente stessa e insegna sempre dal di dentro, nel cuore della ragione, nelle profondità dell’anima. Il Verbo di Dio, che si è rivelato agli uomini nella persona di Cristo, è «il Maestro della scuola comune» (Sermo, 299, 1; Sermo, 23, 11, 2; Ep., 144, 1; Ep., 166, 9). Tuttavia l’influsso divino nell’umana conoscenza del vero non è la conoscenza stessa: questa è effetto della nostra attività, mentre quello ne è la causa prima. Il carattere personale del giudizio di conoscenza è, pertanto, una delle tesi centrali del pensiero agostiniano. L’uomo, quand’anche gli vengano dette cose vere, le conosce solo con il puro occhio interiore («novit contemplatione sua secreto ac simplici oculo», De magistro, 12, 40). Vero discepolo è solo colui che si fa nel suo intimo discepolo della verità («intus est discipulus veritatis», ivi, 13, 11). L’attività dello spirito si potenzia, quindi, non nel rifiuto delle necessarie mediazioni storiche, ma attraverso l’acuta avvertenza del loro carattere introduttivo e preliminare.

Il De magistro non è un dialogo sulla impossibilità del dialogo e dell’insegnamento, ma un’indagine sulle condizioni originarie che lo rendono possibile e fecondo. Compito precipuo e insostituibile del docente-educatore è, infatti, non sottomettere a sé chi è affidato alla sua responsabilità, ma «renderlo capace di vista interiore (intus discere idoneus)» (De magistro, 12, 40). Tutto dev’essere sempre ricondotto al livello più profondo della coscienza personale, là dove si origina il dialogo tra l’anima che cerca e l’interlocutore divino che la rende bisognosa e capace di Verità.

  1. Le Confessiones

A quarantatre anni, dodici dopo la conversione, Agostino scrisse le Confessioni per lodare Dio e per aprirsi al genere umano al cospetto di Dio. Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le Confessioni sono altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione (X, 3, 3 e 5, 7) e una fonte di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità abissali del suo spirito. Mai prima un uomo si era trovato di fronte alla sua anima come in questo libro, in cui le esperienze originarie sono rese evidenti. «Agostino trova, infatti, frasi di mirabile semplicità per dire in poche parole ciò di cui gli uomini fino ad allora non avevano avuto coscienza. Egli pensa nella forma di un processo che avanza interrogando, di un interrogare che apre il campo, di un interrogare, cui non si possono dare risposte semplicistiche»3.

3.1. L’infanzia e la fanciullezza

Con animo trepido Agostino indaga i doni che una nuova esistenza reca con sé ed insieme le prime manifestazioni difettose («Ho visto e considerato a lungo il piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava pallido il fratello di latte», I, 7, 11), che bisogna tollerare con indulgenza, non perché siano inconsistenti, ma perché destinate a scomparire col crescere degli anni. L’apprendimento del linguaggio avviene in maniera «naturale», mentre le vie dell’apprendimento a scuola sono «penose», moltiplicando inutilmente la fatica e la sofferenza dei figli degli uomini, senza che neppure i genitori se ne rendano conto. Agostino denuncia le barbare usanze disciplinari che imperversavano nelle scuole (I, 9, 14-15) e altrove precisa che «lo stesso imparare, a cui i fanciulli sono costretti con castighi, è castigo così grave che talvolta essi preferiscono sopportare il castigo stesso anziché imparare» (De civ. Dei, XXI,14). Arriva persino a scrivere: «Se uno dovesse scegliere tra la morte e il ripercorrere l’infanzia, chi non preferirebbe morire?» (ibid.). Della scuola del suo tempo si condannano non solo i castighi corporali, ma anche la costrizione nel metodo d’insegnamento.

Nella contestazione alla scuola del suo tempo, Agostino avverte – ed è fatto singolare – la privazione del gioco come misconoscimento di un diritto del bambino e del fanciullo. L’esigenza di una riforma dell’insegnamento è chiaramente invocata in nome di principi indotti dall’osservazione di fatti evidenti, irrefutabili. «Nessuno fa bene ciò che fa malvolentieri» (I, 12, 19)osserva Agostino – e «per imparare vale più la libera curiosità che la pedante costrizione» (I, 14, 23).Un insegnamento formativo fa leva non sulla paura, ma sull’interesse effettivo di colui che apprende, sulla sua libera curiositas. L’amore per il gioco e per le vittorie esaltanti nelle gare, il gusto delle favole e delle narrazioni poetiche («piangevo la morte di Didone che avveniva per amore di Enea», I, 13, 21),una vivissima curiosità, la disobbedienza quasi esclusivamente per amore del gioco: sono tratti di una fanciullezza che non è solo quella di Agostino.

Nel preadolescente la passione per gli spettacoli, la smania di imitare gli attori, il desiderio di riuscire a primeggiare nella recitazione come nello sport si accompagnano a una più acuta sensibilità per l’uso della parola («le parole, questi vasi eletti e preziosi», I, 16, 26). È l’età degli studi medi, della grammatica e della letteratura, nella vicina Madaura, a trenta chilometri da Tagaste. Gli insegnanti di Agostino erano indifferenti ai problemi umani dei testi presi in esame ed estranei alle attese dei ragazzi. Particolarmente ostico, alle medie, fu per Agostino l’apprendimento del greco (I, 14, 23), così come, nella scuola elementare, un insegnamento nozionistico e meccanico gli aveva fatto aborrire persino «la verità bellissima dei rapporti tra i numeri». Occorre, invece, far leva il più possibile sul naturale aprirsi della mente del discente, senza per questo elevare i suoi impulsi e interessi a criterio esclusivo del lavoro formativo. L’educazione, infatti, è sintesi feconda di spontaneità e obbligo, di libera curiosità e disciplina, di immediatezza e integrazione equilibratrice (I, 14, 23).Pensando al perché da fanciullo amasse il latino, Agostino ne indica il motivo nel fatto di averlo imparato naturalmente, attraverso il quotidiano commercio con le altre persone, «con un poco di attenzione, senza bisogno di intimidazioni e torture, anzi fra carezze di nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla luce i suoi pensieri (cum me urgeret cor meum a parienda concepta sua)» (I, 14, 23).

3.2. L’ideale umanistico: la sintesi di forma e contenuto

A Cartagine, che era pur sempre la vera capitale dell’Africa, dove frequenta la scuola di retorica, Agostino legge uno scritto di Cicerone, l’Hortensius: «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire (ille vero liber mutavit affectum meum),suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri» (III, 4, 7).

Era la prima conversione di Agostino: dal mondo esteriore, dalla corsa al successo e ai piaceri all’interiorità della coscienza, alla passione più alta di tutte, quella della verità e della ricerca del significato. Nel giovane retore nasceva allora il filosofo.

Ai suoi occhi sperimentare con intima gioia l’immanente eticità della cultura, la sua straordinaria capacità catartica era già «un cominciare ad alzarsi per andare verso Dio»; ma la via che conduce all’incontro con Dio attraverso Cristo sarebbe stata assai più lunga e difficile. Anche prima della conversione, Agostino non si limitò affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»: egli insegnava non tanto ad acuere linguam, quanto la ricerca della vera sapientia. Egli avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché portava nell’insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c’era pure qualche sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.).

Tra i molteplici motivi di grande rilevanza pedagogica che le Confessioni offrono occorre ricordare la felice concezione che Agostino ebbe del rapporto tra retorica e filosofia. Infatti nell’antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica, ma con la filosofia, che poneva al di sopra della eloquenza la serietà e l’impegno del pensiero. Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive assai intensamente la tensione drammatica e la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso a espressioni drastiche – sempre originate dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all’estetismo e a quella specie di ignoranza fastosa che è l’erudizione fine a se stessa – Agostino era troppo colto e di animo elevato per ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura. Egli confessava: «dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento (versus et carmen etiam a vera pulmenta transfero)» (III, 6, 11). In realtà, la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l’universalmente umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vero perché esposto eloquentemente, né falso perché le parole escono confusamente dalla bocca: ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché è forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi: possono essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10). L’ideale a cui tendere rimane quello di fondere in sintesi armonica forma e contenuto, retorica e filosofia, coscienza estetica e coscienza etico-religiosa. I più grandi umanisti – da Petrarca a Pico della Mirandola, da Marsilio Ficino a Erasmo da Rotterdam – non avranno altro programma e nutriranno le stesse aspirazioni. In ogni caso nelle Confessioni quella sintesi è stata realizzata a un livello altissimo, poiché in essa la massima artisticità serve a dar voce alla più autentica e profonda interiorità4.

3.3. Un’intuizione decisiva: il rapporto tra scienza e fede

In polemica con i manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni fisici – Agostino denuncia «l’audacia sfrontatissima» di quei credenti che osano incorporare al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica, piegando la Scrittura a un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce e molto ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali ed è pertanto assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. «Quando sento parlare questo o quel fratello cristiano che è inesperto nelle scienze e in esse ha idee sbagliate, io – incalza Agostino nelle Confessioni – considero le sue opinioni con pazienza; né vedo come gli nuoccia l’ignorare accidentalmente la posizione e la condotta di enti corporei, creati da te, allorché su di te, Signore, creatore di tutto, non abbia opinioni sconvenienti. Gli nuoce, invece, il pensare che la scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e l’affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora» (V, 5, 9). È questa una lucida, radicata convinzione di Agostino che egli ripropone in testi diversi. «Attribuire alla Scrittura dati scientifici è delirare, è far ridere» giunge a scrivere nel De Genesi a litteram (I, 19). Enel Contra Felicem: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: “Vi mando il Paraclito perché vi insegni come camminano il sole e la luna”? Egli voleva fare dei cristiani, non degli astronomi» (I, 10).

Agostino scriveva queste cose undici secoli prima di Galilei e lo scienziato pisano trarrà proprio da Agostino citazioni quanto mai calzanti a sostegno della sua tesi sull’autonomia delle conoscenze scientifiche e sull’intendimento specificamente religioso della Bibbia, la quale non ha lo scopo di determinare «le costituzioni e movimenti de’ cieli e delle stelle». Nella Lettera a madama Cristina di Lorena, del 1615,Galilei riprende il principio agostiniano della rigorosa distinzione di ambito, di finalità e di metodo tra scienza e fede, facendo sue le parole che dice di aver inteso dal cardinal Baronio, secondo cui «l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo». Galilei concordava perfettamente con Agostino quando nella Lettera a monsignor Piero Dini, del marzo 1615, affermava che bisogna andare con molta circospezione «intorno a quelle conclusioni naturali che non sono de fide,alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie». La Scrittura, insomma, non deve venir impegnata da fallibili interpreti su questioni risolvíbili dalla ragione umana e delle quali si possano una volta o l’altra «aver dimostrazione in contrario». Se i giudici di Galilei avessero avuto la consapevolezza profonda che Agostino aveva della Scrittura, messaggio di salvezza che non prefissa i risultati alla ricerca umana, non si sarebbero certo arrogati un’autorità in un campo in cui non erano competenti a giudicare5.

  1. Curiositas, ragione strumentale e sapienza

 4.1. Il conoscere fra ricerca del vero e curiosità

Qualcuno ha insinuato che «con il progredire dell’età la posizione di Agostino sul valore e sulla funzione della cultura classica si è fatta intollerante ed esclusivista». Il documento-base su cui fondare una tale asserzione sarebbe la Lettera 118 indirizzata a Diòscuro, un letterato greco che risiedeva in Africa e che Agostino aveva conosciuto a Milano quando insegnava retorica. Un attento esame della Lettera 118, scritta nel 410, quando Agostino aveva cinquantasei anni, porta invece a conclusioni perfettamente coerenti ai giudizi espressi una decina di anni prima nelle Confessioni. Agostino rimprovera a Diòscuro non l’amore per il sapere, ma al contrario la superficialità e la sconvenienza di cui ha dato prova pensando che quesiti intricati, troppo numerosi, talora insulsi e peregrini, possano essere esaminati e sciolti in gran fretta, su due piedi, da un uomo torchiato da «pressanti occupazioni» e in quel momento malato. L’intento dichiarato di Diòscuro è di «non voler passare per ignorante e stupido» agli occhi di alcuni amici; la qual cosa appare ad Agostino francamente puerile, ridicola, inutile, frivola. La dignità della cultura non può confondersi con la vanità letteraria ed esige ben altre motivazioni. «Non t’accorgi – incalza Agostino – che si fa beffa di te proprio il tuo Persio, scagliandoti quel suo verso: Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter? (Il tuo sapere è forse nulla, se altri non sa che tu sai?)». Nella risposta di Agostino l’excursus filosofico è ampio e penetrante perché riguarda problemi fondamentali e non oziose questioncelle; tuttavia rifiuta di entrare in dettagli eruditi o di azzardare ipotesi interpretative, in primo luogo perché non ha tempo e poi perché, alla sua età, preferisce «trattare e risolvere un problema considerandolo in se stesso» (5, 34).Interessanti infine ci sembrano la constatazione secondo cui «ormai nessun errore osa più alzare il capo per trascinarsi dietro folle di ignoranti senza coprirsi del nome cristiano» (5, 32) e l’invito a combattere con tutte le forze della ragione in difesa di quella verità a cui la fede ci ha innalzato, una volta che i deboli e i vacillanti siano stati messi al riparo.

Il tema etico-pedagogico che emerge dalla Lettera 118 ricorre nelle Confessioni, come in altre opere di Agostino e in particolare nel De Trinitate, ed è quello della curiositas. La curiosità tende a presentarsi come se fosse una sola cosa con il desiderio di conoscenza e con l’atto stesso del conoscere («curiositas affectare videtur studium scientiae», Conf., II, 6, 13),la caratteristica che meglio attesta la singolare specificità dell’uomo nel mondo. La capacità dell’uomo di stupirsi e di interrogarsi è cosa molto bella e grande e, come tutto ciò che è propriamente umano, comporta una costitutiva ambivalenza, la possibilità di un uso positivo e di uno sviluppo perfettivo o del loro contrario. Quando si verifica in concreto la possibilità del negativo, l’originario, schietto desiderio di conoscenza non è più espressione di libera curiositas, tramutandosi in vizio morale dell’intelligenza e della ragione, in vana sed peritura curiositas. Sono modalità di quest’ultima il puro sperimentare che abolisce per principio ogni distinzione tra bene e male, la disordinata bramosia di provare e di conoscere qualsiasi cosa («experiendi noscendique libido», Conf., IX, 35, 55), l’attrazione verso il patologico e lo stravagante, il ricorso alla superstizione e alla pseudo-scienza (ad esempio, l’astrologia).

4.2. Le conoscenze relative ai bisogni dell’uomo e l’orizzonte della ratio superior

Al contrario, le manifestazioni del bisogno dell’uomo di conoscere cose e situazioni e di orientarsi tra esse non sono di per sé riconducibili alla curiosità; lo diventano, quando certe forme di conoscenza tendono a chiudersi in un’autosufficienza ingannevole, in un assurdo processo di esclusione di ciò che è altro e di assolutizzazione del proprio ambito di ricerca. Nell’esercizio della sua razionalità l’uomo si applica innanzitutto a conseguire conoscenze particolari, su oggetti determinati e per fini pratici. È questa l’attività propria della ragione strumentale o ratio inferior, la quale, come l’intelligence bergsoniana, esplica il suo officium, la sua funzione, in temporalibus rebus (De Trinitate, XII, 2, 2 e 3, 3). E tra le cose temporali in cui la ragione strumentale può mostrare le sue grandi potenzialità rientrano le istituzioni umane. Le istituzioni umane, meravigliose e mutevoli da popolo a popolo e in ognuno dei popoli, sono molteplici, abbracciando campi assai diversi, dalla struttura di una lingua alla produzione artistica, dagli ordinamenti economici e sociali alle tradizioni popolari, dal tipo di legislazione all’uso dell’una o dell’altra tecnica (Agostino era entusiasta dell’invenzione della stenografia). Sarebbe assurdo un qualsiasi atteggiamento di chiusura o di disinteresse verso questo mondo umano. «Il cristiano non ha alcuna ragione per sfuggire le istituzioni umane che giovano all’esercizio stesso del vivere. Egli deve, al contrario, nella misura dei bisogni dell’uomo, farne oggetto del suo pensiero e impossessarsi delle conoscenze relative» (De doctrina cristiana, II, 25, 40).

Le funzioni della ratio inferior possono essere di diversissima natura e qualità; e tuttavia anche delle conquiste utili, affascinanti e preziose – se cercate soltanto per il dominio pratico delle cose – si deve ricordare l’ambivalenza sempre in agguato. Chi delle sue stesse conquiste non conosce il limite intrinseco, rischia di non farne l’uso migliore. Mancando una più alta e umana integrazione, esse rischiano di mutilare l’uomo, diventando il tutto della sua esperienza, il suo stesso orizzonte. Fermarsi alle conoscenze particolari o alle leggi dei fenomeni, tendendo anche a una doverosa sicurezza metodica, e non risalire alla natura e alle condizioni originarie di esercizio dell’intelligenza («non enim quaerunt, unde habeant ingenium, quo ista quaerunt», Conf., V, 3, 4), significa smarrire quel senso della primalità del soggetto conoscente sul dato da esperire, senza di cui non si dà processo di unificazione interiore. Certamente può l’uomo «multa vera de creatura dicere (molte verità dire sul creato)» (Conf., V, 3, 5); ma egli non cerca nemmeno più, e quindi non trova, né se stesso, né la Verità autrice della creazione e illuminatrice della mente, se non pone in esercizio l’altra dimensione del suo spirito, la più profonda: la ragione schiettamente noetica, la ratio superior, che «ci unisce e sottomette alla verità intelligibile e immutabile», l’intelletto che ci fa intuire le verità più alte, i valori più universali. Il retto uso della ratio inferior costruisce la scienza, quello della ratio superior la sapienza. «Le scienze servono a evitare la superstizione, ci fanno conoscere aspetti oggettivi della realtà creata e quanto è stato acquisito nel corso dei tempi dall’ininterrotta ricerca degli uomini» (De doctrina cristiana, II, 27, 41).Tuttavia la scienza senza la sapienza non basta e può diventare pericolosa, fuorviante; essa è, invece, a suo modo benefica, se dominata dall’amore che edifica (De Trinitate, XII, 14, 21).Senza dubbio «una parte della nostra attenzione razionale, cioè dello stesso spirito, deve essere diretta verso l’uso delle cose mutevoli e corporee, senza di che non si può vivere questa vita» (De Trinitate, XII, 13, 22) e non ci si può orientare in essa. L’errore sta nel trasformare uno strumento in un orizzonte esclusivo, una parte nel tutto, nel porre il nostro unico fine in beni finiti e strumentali «deviando su di essi il nostro bisogno di felicità (in ea detorquendo beatitudinis appetitum)» (De Trinitate, XII, 13, 21): «In Dio la scienza è identica alla sapienza, nella mirabile semplicità della sua natura» (De Trinitate, XV, 13, 22); per noi non è la stessa cosa essere, conoscere ed essere sapienti. L’armonia, meglio ancora la simbiosi di scienza e sapienza è un compito, un dover essere, un traguardo per ogni epoca storica e per ogni uomo. Agostino insiste con particolare forza nel richiamare sia la distinzione che l’auspicato «matrimonio» tra la ragione volta al dominio dei fenomeni e la ragione noetica (De Trinitate, XII, 12, 19), affinché il misconoscimento dell’una o dell’altra funzione non comprometta l’unità della persona. L’uomo è l’unico animale che deve continuamente diventare ciò che è, conquistare sempre di nuovo la sua unità interiore e il suo giusto ruolo nel mondo. L’ideale educativo non esige l’esclusione o il conflitto dei valori, ma la loro logica, vigorosa integrazione perché uno è lo spirito umano nella distinta molteplicità dei suoi atti e delle sue attività, l’armonia è la legge suprema della vita spirituale e vi è una naturale gerarchia di livelli e di gradi degli esseri e delle stesse attività dello spirito. L’unità a cui tendere non è mai irrelata, senza articolazioni e tensioni dialettiche in un pensatore come Agostino, così attento alla complessità della vita umana.

Dissipati gli equivoci di cui si alimenta l’interpretazione della paideia agostiniana come «monocentrismo culturale»6 caratterizzante un’epoca di decadenza, è bene ricordare che nella critica della curiositas Agostino ebbe illustri predecessori. Basti qui ricordare la brillante critica eraclitea della polimazia. Tuttavia in Agostino questo aspetto della sua concezione ha un particolare rilievo, perché serve a esprimere l’aperta rottura con le illusioni e gli errori che parassitavano la cultura classica. L’acquisizione rigorosa di ciò che andava condannato e superato nella tradizione culturale greco-romana facilitava nello stesso tempo il riconoscimento grato, ampio e generoso della eredità positiva che la coscienza cristiana accoglieva dal passato, per rifonderla e darle nuova vita. Accadeva così che nella cultura cristiana e nella stessa educazione, nell’età della patristica, si realizzava – secondo l’immagine suggerita da Henri-Irénée Marrou – una situazione analoga alla pseudomorfosi di certi minerali che mutano la loro stessa composizione chimica, pur conservando la primitiva forma cristallina; sì che reale è con il cristianesimo l’irruzione del nuovo e reale è la continuità storica, la persistenza delle strutture della cultura classica. Di più: Agostino, denunciando errori ed illusioni della cultura antica, individuava le tentazioni ricorrenti di ogni cultura: l’estetismo, il culto dell’arte per l’arte, il dilettantismo, l’erudizione fine a se stessa e staccata da ogni palpito di vita, la tendenza a trasformare la cultura in una specie di «religione della cultura», l’idoleggiamento del passato. Agostino, se lo si legge attentamente, esprime con chiarezza l’equilibrio dinamico del cristiano tra scienza e sapienza, tra ragione attiva e ragione contemplativa (De Trinitate, XII, 12, 19), tra la conoscenza e il dominio pratico delle cose di questo mondo e i valori che costituiscono la meta stessa dello spirito umano, che li fa suoi nell’atto di amarli e di realizzarli, senza tuttavia poterne mai esaurire l’infinita essenza. «Quanto facciamo razionalmente nell’uso dei beni temporali, lo facciamo senza cessare di contemplare i beni eterni da conseguire, passando attraverso quelli, unendoci a questi» (De Trinitate, XII,13, 21).

  1. La prima istruzione cristiana (De catechizandis rudibus)

Un diacono di Cartagine, Deogratias, scrive ad Agostino per fargli conoscere le difficoltà che incontra nell’iniziare i nuovi convertiti alla conoscenza del messaggio cristiano. La risposta di Agostino fu un prezioso opuscolo, il De catechizandis rudibus,in cui sviluppa una teoria della catechesi per coloro che sono principianti (rudis significa appunto principiante, inesperto, novizio) con finissime osservazioni psicologiche e metodologiche. Nella prima parte Agostino confida alcune sue esperienze e illustra, unitamente al contenuto della catechesi, scandito nella narratio e nella exhortatio, il metodo che giudica migliore; nella seconda propone due schemi di catechesi, un modello lungo e uno breve. Nell’Indiculus di Possidio, compilato con tutta probabilità sulla scorta di un indiculus originario della biblioteca personale di Agostino, il De catechizandis rudibus è elencato al primo posto dopo le Confessioni; la composizione risale, in effetti, intorno all’anno 400 e fu portata a termine in un tempo breve.

5.1. Adeguarsi agli interlocutori e non scoraggiarsi

Il primo problema è chi sono i principianti, per adeguare alle loro esigenze il tipo di iniziazione cristiana. Se numerosi, occorre rivolgere loro una specie di discorso; se pochi, è preferibile una semplice conversazione. E qual è il loro grado di istruzione? Se si tratta di gente «il cui spirito è aperto ai grandi problemi» (15, 23), è bene parlare brevemente, fuggendo ogni apparenza di ricercatezza, evidenziando la sublime semplicità della Scrittura. A quelli di media cultura, talvolta tentati di essere pretenziosi, si farà gustare la solidità del messaggio biblico e l’utilità di andar oltre la lettera per afferrare lo spirito di esso. Bisogna accostarsi alla parola di Dio da spiriti vigilanti e non da sonnambuli o da esteti (5, 9 e 6, 10). «Sappiano che debbono preferire i discorsi più veri a quelli più eloquenti, così come è meglio avere amici saggi piuttosto che belli e che per Dio non vi è altra voce che il sentimento del cuore (noverint etiam non esse vocem ad aures Dei nisi animi affectum)» (9, 13). Il catechista fa bene a preoccuparsi se non riesce a rendere attivamente partecipe l’uditorio, ma sbaglia di grosso se cede allo scoraggiamento.

Tre sono i motivi che spiegano un tale stato d’animo. Il primo è la differenza tra ciò che intuiamo e ciò che riusciamo a dire. Ciò che la mente capta d’un balzo, non esce dalla bocca se non con perifrasi lente e sinuose (2, 3) e se «piace istruire in modo originale, dispiace invece discorrere banalmente» (2, 4). Intuizione ed espressione si implicano a vicenda, ma non sono coincidenti. È opera di un amore umile il rivestire i propri pensieri della forma adatta a farli comprendere dagli altri. È questo il metodo stesso dell’incarnazione. Fu l’amore che indusse il figlio di Dio ad assumere la carne umana; sarà l’amore che permetterà al maestro di discendere in basso senza umiliarsi, rendendo anzi nello stesso tempo sempre più solida la conoscenza di ciò che è nel profondo: «quanto officiosus descendit in infima, tanto robustius recurrit in intima». Una seconda ragione proviene dal fatto che sappiamo da tempo ciò che dobbiamo dire. La risposta di Agostino all’obiezione è che «ai fanciulli bisogna adattarsi con amore di fratello, di padre, di madre, perché quando ci saremo stretti al loro cuore, le cose che prima ci sembravano vecchie e noiose sembreranno nuove anche a noi» (12, 17). Delle grandi verità non si sa mai abbastanza e si possono cercare sempre più adeguate motivazioni. Non ci accade forse di trovare la nostra città più bella e quasi rinnovata quando la rivisitiamo insieme a un amico (12, 17)? Insegnare una verità è per il catechista riscoprirla a un più profondo livello. L’apatia dell’ascoltatore costituisce la terza causa di scoraggiamento. Spesso il tedio dell’uditore dipende dallo scarso entusiasmo di chi gli parla: «qui non ardescit non incendit (chi non arde non incendia)».

Ci si deve chiedere: che sappiamo noi di preciso di quello che avviene nell’intimo di colui che esteriormente può pure apparirci distratto? È comunque possibile ravvivare l’interesse, e nei modi più diversi. Prima di tutto si deve tener conto della stanchezza fisica di chi ascolta in piedi. Perché non invitarli a sedere, come si fa nelle chiese d’oltremare? Come i principianti debbono convincersi che la fede è una scelta di vita e non una convenzione puramente umana, così il catechista non deve lasciarsi assorbire da altre preoccupazioni al punto da non dare importanza al fatto che è all’annuncio delle verità che bisogna credere per essere cristiani. Non si deve esser così sciocchi da credere che un pezzo di pane sia una carità più preziosa della parola di Dio. «È necessario fugare con discrezione e delicatezza l’eccessivo timore che impedisce al principiante di esprimere il suo giudizio, facendogli capire che si trova in una società fraterna, aiutandolo a rendersi conto della sua intelligenza, sollecitandolo con opportune domande. Occorre dargli la sicurezza che può parlare liberamente, se gli pare che qualche punto debba esser discusso» (13, 18). Se la bocca dell’ascoltatore si apre non per lodare, ma per sbadigliare, vuol dire che ha bisogno di esser rianimato con battute «condite di onesto buon umore attinenti all’argomento trattato» o raccontando qualche cosa che parli al suo cuore e «soprattutto che riguardi lui personalmente, in modo che, toccato nei propri sentimenti, si faccia più attento» (13, 19). Perché la noia non sopraggiunga, «il discorso sia breve, soprattutto quando è una digressione» (ibid.).

5.2. Umiltà, simpatia e spirito di letizia

Tre virtù debbono caratterizzare in modo eminente l’azione del catechista: l’umiltà, la simpatia che nasce dalla benevolenza, la letizia (hilaritas). Chi è umile è nella verità e, sapendo che le sue parole non sono mai all’altezza dell’eterna luce del Verbo, non cessa mai di muovere alla ricerca della più grande fedeltà a essa, non si chiude mai in una pretesa autosufficienza. L’umiltà scaccia la «lurida iattanza», la tentazione di «farsi temere e amare dagli uomini senz’altro motivo, se non di trarne un qualche compiacimento» (Conf., X, 36, 59). Chi siede in cattedra può anche commettere uno sbaglio, ma conserva la sua autorità se sa serenamente correggersi; «precipitarci alla difesa del nostro errore significa, al contrario, commetterne uno più grande» (De cat. rud., 11, 16). Spesso, tornando sopra un nostro discorso, vi troviamo cose che noi stessi ripudiamo e non ci rendiamo conto del come, quando le dicevamo, abbiano potuto essere da noi accettate. Come siamo disposti a rimproverare noi stessi in silenzio, così dobbiamo, quando è necessario, riconoscere i nostri errori in pubblico. Chi può dire di non aver mai pronunciato una parola che avrebbe preferito non aver detto? «Una lode del genere sarebbe da rivolgere piuttosto a un perfetto somaro che non a un uomo veramente saggio, che sa di poter sbagliare e che si sforza di appartenere al numero di coloro che progrediscono perché si pentono di quel che hanno detto di non buono, o sconsiderato o inopportuno» (Ep., 143, 2-3).Chi non reca di continuo un contributo alla critica di se stesso non va molto avanti7.

Il secondo connotato dell’educatore è la benevolenza magnanima verso coloro che sono affidati al suo amore. La potenza della simpatia che si radica nella volontà di bene è così grande che suscita una vera comunione di intenti, di sentimenti, di volontà tra docenti e discenti. «Ci compenetriamo gli uni negli altri: e di conseguenza essi pronunciano, per così dire, per bocca nostra, le cose che ascoltano e noi apprendiamo da essi, in certo modo, le cose che insegniamo» (De cat. rud., 12, 17). In virtù di una disposizione d’animo abitualmente desiderosa di rendere il servizio più alto a chi è affidato a noi, occorre saper trovare le vie più idonee per dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e nei modi più adeguati. «Se è vero che a tutti dobbiamo uguale carità, non con tutti dobbiamo adoperare la stessa medicina. La carità infatti agli uni dà vigore, con gli altri si fa debole; cura di edificare gli uni, bada a non offendere gli altri; si piega verso gli uni, si drizza contro gli altri; per gli uni è carezzevole, per gli altri severa; a nessuno è nemica, a tutti madre» (15, 23). Il bisogno di essere amati è troppo grande nel cuore degli uomini: «un cuore intorpidito si risveglia quando sente di essere amato e uno che ardeva si accende ancora di più quando sente di essere riamato» (4, 7).«Nessun invito ad amare è maggiore che farsi avanti amando; è troppo duro il cuore che, non volendo accingersi ad amare, non voglia neppure ricambiare l’amore» (IV, 7). L’affetto dei discepoli è ricompensa grande per i docenti e tuttavia «di molto più grande amore si infiamma l’inferiore quando si accorge di essere amato dal superiore: là infatti è più gradito l’amore, ove non sgorga dall’arsura della necessità, ma trabocca per benefica abbondanza» (4, 7). Il miracolo dell’amore infinito di Dio esige un rapporto assoluto con l’Assoluto, un amore di Dio e del prossimo senza misura, che impegni tutto l’uomo. L’amore cristiano non è un sedativo e non sfuma nel sentimentalismo. È cibo ed è fuoco. «La carità deve avere a fondamento la stessa divina severità» (5, 9),precisa Agostino e questo pensiero sarà ripreso e svolto ampiamente da Søren Kierkegaard.

Meritatamente celebri sono i passi in cui Agostino esalta il valore della hilaritas nel rapporto educativo e come clima che rende efficace l’azione didattica. La letizia nasce dalla stessa gioia dell’elargire disinteressatamente: «Veramente siamo ascoltati più volentieri quando anche noi godiamo della nostra opera di insegnamento. Vibrando della nostra medesima gioia, allora anche il nostro eloquio riesce più facile e persuasivo» (2, 4).Se «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor., 9, 7) le ricchezze materiali, a maggior ragione ama il donatore gioioso di ricchezze spirituali. Agostino aveva scritto stupendamente nelle Confessioni: «nutre veramente l’anima solo ciò che la rallegra (quippe animus pascitur unde laetatur»)» (XIII, 27, 4).

5.3. Che cosa insegnare e con quale ordine

Alla domanda «che cosa bisogna insegnare e con quale ordine», Agostino risponde collegando il contenuto della catechesi alle partizioni proprie della scuola di retorica, la narratio e la exhortatio. Coloro che cercano la verità cristiana debbono essere tenuti lontani dalle complicazioni, dalle astrattezze, dalle pretese di una prematura sistematicità: la dottrina cristiana deve essere esposta non in forma teorica, ma in concomitanza con i fatti, esemplificata sugli avvenimenti, verificata in essi. Bisogna dare l’idea di insieme del messaggio cristiano sotto forma di una narrazione che sviluppi il tema centrale dell’amore di Dio attraverso i mirabiliora, cioè i punti culminanti e le svolte decisive che costituiscono l’ossatura della storia della salvezza: «Bisogna abbracciare l’insieme per sommi capi e in genere scegliere le cose più mirabili, che si ascoltano con più diletto e che costituiscono la stessa articolazione del racconto. Così i punti a cui vogliamo dare maggior rilievo risaltano meglio per la omissione delle altre parti («ita et illa quae maxime commendari volumus aliorum submissione magis eminent») (3, 5). I momenti di maggior valore devono essere messi in luce, ripresi, sviluppati, offerti all’osservazione e all’ammirazione degli ascoltatori, come si fa con un rotolo di pergamena non mostrato in fretta e non rinchiuso subito nella sua custodia (3, 5). Il filo conduttore nel quale sono infilate le perle preziose della storia della salvezza è sempre e solo l’annuncio che «Dio è amore». Sta al catechista far sì che l’epopea dell’amore di Dio risplenda e desti l’amore nel cuore degli ascoltatori.

L’exhortatio è più direttamente rivolta a suscitare il mutamento di mentalità e di atteggiamento pratico. Nel momento in cui ci si rapporta a Cristo, nasce per ognuno l’impegno all’imitazione, a seguire Cristo, a divenire suoi discepoli. I pre-catecumeni devono esser sollecitati ad approfondire le verità finali (giudizio e resurrezione), a vivere la speranza cristiana, a superare positivamente la possibilità dello scandalo8. Gli scandali possono venire da chiunque, ma soprattutto dai cattivi cristiani. Il convertito deve esser preparato a non porre nessun uomo al posto di Dio, a imitare gli uomini buoni, a sopportare i cattivi, come fa Dio stesso, ad amare tutti. «Tu non sai che cosa sarà domani colui che è cattivo oggi. Non amare certo la sua ingiustizia, ma amalo perché egli apprenda la giustizia» (27, 55). L’autore propone infine due esempi di istruzione-tipo per uomini di media cultura. Il primo, abbastanza dettagliato, va dalla creazione alla descrizione dello stato attuale della Chiesa. Agostino mette in rilievo il valore della libertà, i doveri civici che impegnano la coscienza cristiana (21, 37), il senso di appartenenza alla Chiesa. La catechesi di tipo breve è incentrata sul tema dell’immortalità, sul rapporto tra il primo e il secondo Adamo così come tra l’Antico e il Nuovo Testamento, sulla connessione tra preannuncio e compimento, profezia ed evento.

  1. Comprendere la Parola e annunciarla

Nelle Retractationes (II, 4, 1)Agostino ci informa di aver sospeso la revisione delle altre opere per completare il De doctrina christiana interrotto a due terzi (al Libro III, 25, 35),aggiungendovi un quarto libro. La prima parte dell’opera risale all’inizio del suo episcopato, nello stesso tempo delle Confessioni tra il 397 e il 400; la seconda parte fu composta una trentina d’anni dopo, nel 426-427. Nelle Confessioni Agostino ricordava d’aver messo da parte il libro sacro perché non aveva saputo comprenderlo (III, 5, 9) e di essersi così trovato inerme di fronte alle critiche razionalistiche dei manichei. Ora, divenuto vescovo, vuole evitare che la stessa cosa accada ad altri e col suo scritto intende venire in aiuto ai volenterosi e capaci di apprendere («volentibus et valentibus discere», De doctr. chr., Prologus,1).

 6.1. Due principi: il «per homines hominibus» (storicità – socialità) e la liberazione delle verità prigioniere

Nel De doctrina christiana Agostino ci dà contemporaneamente una sinossi della visione cristiana della vita, «i principi dell’ermeneutica teologica» (Wilhelm Dilthey), un programma di studi profani introduttivi alla conoscenza diretta della Bibbia e, nell’ultimo libro, una vera e propria pedagogia della predicazione. Va tuttavia rilevato che l’intera opera agostiniana è permeata da una viva sensibilità educativa anche quando l’attinenza alla pedagogia degli argomenti trattati sembra essere indiretta. Il termine doctrina è infatti la traduzione letterale del greco paideia, che sta a significare educazione, formazione, cultura. In Cicerone e Quintiliano doctrina denota il processo educativo che sviluppa e umanizza la natura; Agostino aggiunge che quel processo educativo, nella prospettiva cristiana, aiuta a risanare e a santificare.

Questo libro è«uno dei più originali che Agostino abbia mai scritto»9. In esso si esprime per la prima volta la coscienza della translatio imperii dalla civiltà classica a quella cristiana10, non nella rottura rivoluzionaria, ma nella continuità della cultura. Nel prologo Agostino si difende da possibili fraintendimenti. Egli era tanto lontano dal «fondamentalismo» del partito pagano che divinizzava la cultura tradizionale, quanto da quei cristiani che, per reazione, tendevano a demonizzarla. L’illusione dei carismatici di saltare l’istruzione o di aggirarla, come se fosse di per sé impedimento alla fede, Agostino la considera del tutto ridicola (De doctrad. chr., Prologus, 5).L’interpretazione illuminata della Scrittura è sempre dono di Dio, ma nessuno può arrogarsi per principio la pretesa di avere per sé questo dono libero e misterioso senza doversi confrontare e discutere con gli altri11. La conditio humana trova la sua fondamentale struttura nel principio: per homines hominibus. Dio si dà «agli uomini mediante gli uomini». L’uomo non può esistere se non tra e con gli uomini. Così nascono il linguaggio, l’esperienza, la comunicazione della fede, la cultura, l’insegnare, l’apprendere. L’ordine della salvezza non abroga tale struttura; anzi «la condizione umana sarebbe avvilita se Dio si rifiutasse di indirizzare la sua parola agli uomini mediante il ministero degli uomini (abjecta esset humana conditio si per homines hominibus Deus verbum suum ministrare nolle videretur)» (Prologus, 6).Senza il principio per homines hominibus verrebbe meno evidentemente il comandamento supremo della carità e non si spiegherebbe nemmeno la realtà della Chiesa, in cui Dio attraverso gli uomini distribuisce il sacramento e la parola. La confutazione delle obiezioni dei carismatici e dei fideisti pone in evidenza anche la necessità di una cultura cristiana nei «tempi cristiani». «Infatti altro è sapere appena quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, altro è saperlo in tal modo da mettere le ragioni della propria fede a profitto dei buoni e da difenderle contro i cattivi» (De Trinitate, XIV, I, 3).

La paideia cristiana è nuova rispetto a quella antica, ma si avvale dei metodi di quella ed è desiderosa di impiegarne le ricchezze a suo vantaggio. La tradizione antica svolge una preziosa funzione preparatoria con le sue tecniche e i suoi grandi apporti nell’ambito scientifico, estetico e filosofico. L’esperienza personale di Agostino ha anche qui un valore persuasivo: da Socrate, Platone, Plotino, Cicerone, Seneca gli sono venuti non pochi stimoli a cercare Dio e una vita più degna; il De oratore di Cicerone offre ottimi suggerimenti anche a chi annuncia la parola di Dio. Quali che siano gli errori, le manchevolezze e persino le perversità della cultura antica, in essa non tutto è pagano e molti elementi sono addirittura precristiani: le verità che essa intravede, dando voce a esigenze universali altissime della coscienza umana, vengono a trovarsi in spontanea sintonia con l’annuncio evangelico. I cristiani debbono liberarle dalla schiavitù dei sistemi di cui sono prigioniere e dalla loro mescolanza a errori e indegnità. In ciò Agostino è l’erede di una mentalità e di una prassi che risalgono già al primo filosofo cristiano, Giustino, alla scuola di Alessandria, alla patristica greca, al contemporaneo Gerolamo. «Se per caso i filosofi, ed in special modo i platonici, hanno espresso idee vere, e conformi alla nostra fede, occorre non solamente non averle in sospetto, ma reclamarle per il nostro uso» (II, 40, 60). Nel Prologo al Vangelo di Giovanni è detto che il Verbo è «la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (I, 9); è dunque il rapporto costitutivo dell’anima al Verbo divino che rende possibile alla ragione naturale in quanto tale, anche prima e fuori dei «tempi cristiani», la conquista di non poche verità. «Ogni cristiano deve comprendere che la verità, ovunque si trovi, appartiene al Signore» (II, 18, 28). Perché è il Verbo di Dio il solo vero maestro che illumina ogni uomo che viene in questo mondo12. Pertanto il cristiano, ovunque la scopre, ha il diritto-dovere di appropriarsene e di ricondurla alla divina sorgente originaria, facendola giustamente servire all’annuncío del Vangelo. È la pratica corrente della Chiesa, è quanto hanno sempre fatto multi boni fideles nostri, i maestri venerati Cipriano, Vittorino, Lattanzio, Ilario tra i latini e tanti altri, tra i greci (II, 40, 61). E non ha fatto la stessa cosa proprio lui, Agostino, nei confronti del neoplatonismo (Conf., VIII, 9, 15)? Nei «tempi cristiani» in cui si vive, il recupero di ciò che di vero e giusto seppe conquistare la ragione naturale deve congiungersi allo sforzo di esplicitare e sviluppare le potenzialità culturali e formative della visione cristiana della vita. Su questa linea il De doctrina christiana prolunga il De ordine, sebbene con una più chiara consapevolezza e con un’intelligenza metodologica più scaltrita.

6.2. L’intelligenza della fede non ha mai fine

Agostino ha conseguito in progresso di tempo una più profonda penetrazione della Bibbia e vuole il classico cristiano per eccellenza a fondamento della vita spirituale e della formazione culturale13. «Tutto ciò che si può apprendere fuori della Bibbia, se dannoso vi è condannato, se utile vi è incluso, insieme a ciò che non si trova in alcun altro luogo» (II, 42-63). La vita intellettuale e morale è cristiana solo se consacrata ad alimentare in noi l’amore di Dio, sorgente di ogni essere, luce di verità, bene sommo e l’amore del prossimo che gli è inseparabilmente congiunto. La cultura, in quanto ricerca della verità e formazione di quei poteri che fanno di un essere una persona, non ostacola lo slancio dell’anima verso Dio, ma s’inserisce in esso, ne è espressione e sostegno. Una cultura intrinsecamente finalizzata all’amore di Dio e del prossimo è una cultura che unifica e non disperde, è una sintesi sempre da attuare di verità e carità, di ricerca e di servizio in una tensione dinamica che si alimenta con le sue stesse conquiste. «Se tu dici che non c’è altro da sapere, sei perduto» (In Joh., 14, 5). Il mondo della creazione non è senza voce («nihil vacat, omnia innuunt, sed intellectorem requirunt», In Joh., 24, 6), le profondità dell’anima umana non cesseremo mai di esplorarle e la realtà di Dio, pur essendo la più intima a ciascuno di noi, è superiore a tutto ciò che di più alto ogni uomo possa pensare («interior intimo meo, superior summo meo», Conf., III, 6, 11). In Agostino l’orientamento dello spirito umano all’Unico Necessario non limita mai, ma slarga gli orizzonti della ricerca. Per l’africano la ricerca non ha mai fine: il credente è felicemente obbligato a inseguire senza posa «Colui che è» e non può mai essere posseduto pienamente. Si cerca per trovare e si trova per cercare ancora con più ardore («sicergo quaeramus tamquam inventuri et sic inveniamus tamquam quaesituri», De Trinitate,IX, 1, 1; «quaeritur ut inveniatur dulcius, et invenitur ut quaeratur avidius», De Trinitate,XV, 2, 2)14.

Quali che siano i limiti della cultura personale di Agostino15 – questione che rischia di diventare oziosa e fuorviante se non si premette il semplice rilievo che non occorre farsi della cultura un concetto innocentemente enciclopedico e che si può essere un grande genio e non saper tutto – certamente nessuno può accusare Agostino di essere superficiale e di aver preparato con la sua immensa opera e con la sua stupefacente genialità, l’impoverimento culturale e il declino dello spirito speculativo nei secoli dominati dai barbari16 Come si è visto, non può essere interpretato fattore di decadenza e di rinuncia alla cultura la critica agostiniana della curiositas, svolta coerentemente dalle prime opere (De ord.,I, 11, 31; II, 5, 17; II, 15, 42; II, 12, 37; De ver. rel., 39, 52 ecc.) alle ultime. C’è, però, persino chi giunge a ravvisare un motivo di accusa nel fatto che Agostino abbia pensato di dotare l’Occidente di manuali scientifici, indispensabili a una formazione di base dei cristiani bisognosi di cultura. Il De musica fu l’unico dei manuali progettati portato a termine e non è certo opera da poco. In ogni caso non si capisce perché i manuali non possano essere in sé uno strumento di progresso in campo didattico; essi, infatti, diventano pericolosi solo il giorno in cui, invece di essere un punto d’appoggio o una tappa nella iniziazione della cultura, diventano tutta la cultura. Non era certamente pessimista sul destino della cultura, malgrado la durezza dei tempi, quell’uomo che, prossimo a morire, secondo Possidio, «ecclesiae bibliothecam omnesque codices diligenter posteris custodiendos semper iubebat (ordinava sempre di custodire con cura per i posteri la biblioteca della chiesa e tutti i codici)» (Vita,31,6).

6.3. Il duplice amore, criterio d’interpretazione e fine della Scrittura

In funzione della paideia cristiana Agostino formula dei criteri metodologici per leggere correttamente e capire la Bibbia, dandoci così il primo manuale di esegesi apparso nell’antichità cristiana e, in subordine, una teoria del linguaggio che sembra adempiere il proposito espresso nella chiusa del De magistro (14, 46). Molti studiosi hanno posto in risalto gli aspetti originali e le anticipazioni di Agostino teorico dell’interpretazione e filosofo del linguaggio. Dal punto di vista dell’educazione cristiana vanno segnalati come punti particolarmente significativi la teoria del rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, quella della pluralità dei sensi scritturistici e l’insistenza sulla preparazione linguistica (greco, latino, ebraico) per una conoscenza diretta del testo sacro. Il principio generale di esegesi è enunciato con estrema chiarezza: «l’idea fondamentale è di comprendere che la pienezza e il fine della Legge, come di tutte le divine Scritture, è l’amore, l’amore dell’Essere, di cui noi dobbiamo godere, e degli esseri che di lui possono godere con noi» (I, 35, 39). Non comprende la Scrittura e neppure una sua singola parte chi non sa trarre da essa un insegnamento di carità nei riguardi di Dio e del prossimo (I, 36, 40). Il grande comandamento dell’amore è l’unica chiave interpretativa per leggere un testo nato per orientare la vita degli uomini nell’atto stesso di narrare una storia, colma di grandezze e di miserie, e di mostrarci «la sembianza di Dio» (Sermo, 22, 7). La parola di Dio è «per homines nobis indicata» e questa dimensione storica (De doctrad. chr., II, 2, 3 e 5, 6),unitamente alla ineffabilità di Dio, ci obbliga a prender coscienza della forza e della inadeguatezza del linguaggio. Anche nella Bibbia il significato letterale resta fondamentale; quello allegorico nasce dalla potenzialità di riferimento del sensibile al non sensibile, potenzialità insita nelle parole e, ancor più, nei fatti stessi inseriti nella storia della salvezza (Contra Faust., VI, 4; De doctrad. chr., II, 40, 61, 62 ecc.). Anche nell’Antico Testamento vi sono uomini di Dio spirituali e liberi, come i patriarchi e i profeti; ma il letteralismo è di per sé disorientante e comporta esiti antropomorfici, come Agostino aveva sperimentato quando aveva tentato di superare la crisi manichea (Conf., V, 14, 1; VI, 4, 2). Cristo non vanifica l’Antico Testamento, ma il suo rivestimento (velamen), di modo che attraverso Cristo si comprende e quasi si scopre ciò che senza di lui resterebbe oscuro e coperto (De ut. cred., III, 9). Non solo il paganesimo, ma anche la religione ebraica sono, sia pure in modi diversi, sotto la schiavitù del segno; la christiana libertas distrugge i signa inutilia dei pagani, annullando l’idolatria, e aiuta gli ebrei a scoprire ciò che semplifica, unificandola, l’intera rivelazione (De doct. chr.,III, 6, 10 e 7, 11). Pascal sintetizzerà assai bene il pensiero di Agostino nel celebre frammento: «Gesù Cristo, a cui i due Testamenti mirano, l’Antico come alla sua aspettativa, il Nuovo come al suo modello, tutti e due come al loro centro» (fr.740, ed. Brunschvicg).

Costante in Agostino è l’affermazione del pluralismo ermeneutico, fondato sulla inesaustività della parola biblica: «potest autem et aliter intelligi (ma si può capire anche in altro modo)» (De Gen. a lib. imper., IV, 17).La possibilità dei sensa plura è intesa come ricorso a modi diversi di spiegare testi diversi e come possibilità feconda di trarre dalle medesime parole della Scrittura non uno, ma due o più significati purché si armonizzino con altri passi del testo sacro (De doct. chr., III, 27, 38). «Dio adattò la Sacra Scrittura all’intelligenza dei molti che vi avrebbero trovato significati molteplici e veri» (Conf., XII, 31, 1). La polivalenza legittima di un medesimo testo ci dispone a cogliere apporti molteplici e convergenti e ci aiuta a comprendere meglio anche i passi oscuri della Bibbia. La facilità stanca, un eccesso di chiarezza ci rende indifferenti (De doct. chr., II, 6, 7). La comparazione, invece, suscita interesse. Sono conosciute con più piacere le cose che sono state cercate con una certa difficoltà (II, 6, 8) e trovate da noi stessi (II, 7, 9).

Il De doctrina christiana,l’opera che s’indirizza a giovani laici dotati intellettualmente, delinea un abbozzo di programma di studi profani introduttivi alla conoscenza diretta della Bibbia. Se a tutti i fedeli si domanda un’adesione intelligente e generosa a Cristo, a chi percorre la via degli studi, quale che sia la professione che poi eserciterà, si chiedono uno sforzo leale e un grado di approfondimento supplementari, tali da metterlo in grado di illustrare e difendere la visione cristiana della vita. Per raggiungere questo scopo c’è bisogno del soccorso di numerose scienze profane. Il programma di cultura comprende la conoscenza delle leggi del linguaggio umano e, in particolare, il possesso delle lingue in cui la Bibbia è stata scritta o è più conosciuta: il greco, l’ebraico, il latino. Giovano la storia civile, in cui si inserisce quella degli eventi della salvezza, la storia naturale e una certa conoscenza delle arti meccaniche. Si dà un certo rilievo anche alle matematiche – comprendenti aritmetica, geometria, musica e astronomia – ma senza percepire appieno la portata scientifica di quello che pure era il settore più valido nella tradizione. Il persistente sovrapporsi dell’astrologia, che pretende fondare sui movimenti celesti le pratiche di divinazione, all’astronomia, in quanto scienza dei movimenti degli astri, preoccupa fortemente Agostino. Un altro gruppo di scienze è costituito dalla retorica, dalla conoscenza dei pensatori classici, spesso così vicini alla fede cristiana, e dalla dialettica, o disputationis disciplina, considerata come logica, cioè come scienza delle leggi formali del ragionamento.

6.4. Parlare di Dio al popolo

Che cosa occorre per parlare di Dio al popolo? Devono forse i cristiani elaborare un nuovo trattato di retorica? A ben servirsene, bastano le regole della retorica classica. Certamente esse sono utili e anzi particolarmente indicate nella discussione, e tuttavia non appaiono indispensabili a chi si fa annunciatore del messaggio di Cristo. É bene apprenderle quando si è giovani, ma il loro studio non avrebbe senso per un uomo maturo. ad agostino ripugnava la pedissequa osservanza delle regole e dei procedimenti di eloquenza. Egli insisteva sull’efficacia formativa dell’ascolto diretto e sull’assimilazione personale dello stile dei grandi in cui più ci riconosciamo. «Uno spirito acuto e ardente assimila più facilmente l’eloquenza, leggendo o ascoltando gli oratori che studiando i loro precetti. Costoro applicano i precetti, di fatto, perché sono eloquenti, ma non li impiegano per essere eloquenti. Chi parla bene, per parlar bene non pensa alle regole dell’eloquenza e non vi pensava nemmeno quando componeva il suo discorso» (IV, 3, 4). Ciò che conta è congiungere all’amorosa contemplazione della parola di Dio la pratica assidua dei grandi scrittori e oratori cristiani. «Del resto i fanciulli stessi non avrebbero bisogno della grammatica, in cui si impara il linguaggio corretto, se si desse loro la possibilità di crescere e di vivere tra uomini che parlano correttamente» (IV, 3, 5). E si sa che le preferenze di Agostino andavano a Cipriano e ad Ambrogio17.

Ci vuole arte e desiderio di comunicare un’esperienza di vita per dire cose da molto tempo conosciute e toccare i cuori. La città è più esigente in fatto di stile che non la provincia. Comunque è meglio dare sempre qualcosa di solido, veramente buono, che non cercare di commuovere teatralmente o con parole vuote (IV, 4, 6; 5, 7). La Scrittura è già di per sé eloquente; la sua elevatezza incomparabile di stile e d’espressione deriva in primo luogo dal suo contenuto. L’eloquenza è inseparabile dalla vera sapienza. In molti passi Agostino manifesta ammirazione per il latino biblico, considerato lingua vivente, elo trova più esplicito, più penetrante che non il latino classico, lingua pura ma morta (II, 14, 21; Ep.,132, 1; De cat. rud., 8, 12, 3).Erano considerazioni queste nettamente anticonformiste. Colui che si assume l’ufficio di interpretare e insegnare le Scritture – osserva Agostíno – ha il dovere di essere chiaro il più possibile. Se non sa rendere il senso di un passo farebbe bene a tacere. È preferibile usare, se è necessario, parole della lingua familiare e farsi capire, anche se ne dovesse soffrire la purezza della lingua (De doct. chr., IV, 10, 24). Il linguaggio è immerso nel divenire ed è il prodotto di abitudini sociali; non possono quindi darsi modelli assoluti di perfetto e immutabile purismo (II, 4, 5 e 13, 19; Conf., I, 12, 19-13, 21). L’imperativo della più assoluta chiarezza è tanto più obbligante perché in chiesa chi ascolta non fa domande. Meglio riservare a discussioni private o tra studiosi l’esegesi di passi oscuri della Scrittura. La chiarezza è efficace se congiunta alla suavitas e se non scade mai nella superficialità, nell’ovvio, nelle abituali stereotipie che tolgono all’uomo ogni ragione di stupore, velando pesantemente con le facili evidenze le profondità dell’anima, di Dio, della Scrittura.

L’ex-professore di retorica sa che vi sono tre generi di oratoria: il semplice, l’ornato e il patetico, secondo che si voglia dimostrare, affascinare, persuadere; o, in termini cristiani, spiegare, edificare, convertire (IV, 12, 27 e 26, 56). Ai tre generi di eloquenza corrispondono altrettanti tipi di stile: il semplice, il moderato e il sublime. In queste distinzioni Agostino si rifà esplicitamente a Cicerone, ma l’annotazione personale si avverte subito. A considerare la materia, un discorso in chiesa è sempre di genere sublime; ma non tutto va trattato granditer. Uno stile troppo elevato rischiadi diventare rapidamente tedioso (IV, 18, 35); va bene, ma solo al momento giusto, quando la commozione erompe e fa scorrere le lacrime (IV, 23, 52-26, 56). La miglior cosa è mettere insieme i tre stili, perché ciascuno ha i suoi pregi e i suoi inconvenienti. L’esordio comunque dev’essere sempre di stile moderato. Paolo non si preoccupava dell’armonia degli elementi di una frase; Agostino confessa invece di tenerne conto, facendo sgorgare le clausole ritmiche dalle stesse idee, per render più facile l’assenso interiore. La parola di Dio non può essere comunicata efficacemente se non è il cibo, la gioia, la norma di vita di colui che l’annuncia. E se qualcuno veramente non può parlare, l’essenziale è che la sua vita tenga il posto della eloquenza («sit eius quasi copia dicendi forma vivendi», IV, 27, 59-28, 61 e 1 Cor., 1, 17).

  1. Osservazioni conclusive

Qualcuno ha scritto che «il programma culturale di Agostino, se segnava le linee della paideia medievale, rappresentava anche il declino della cultura classica»18. A nostro avviso tale giudizio, che sintetizza un luogo comune assai diffuso, tende a collegare alla paideia agostiniana un processo estremamente complesso, che si svolge in un ampio arco di tempo e che era tutt’altro che fatale: la decadenza romana e l’eclisse, mai totale del resto, della cultura greco-romana. L’operazione non è legittima e per più di una ragione.

É vero che i materiali della cultura di Agostino sono in gran parte antichi, mentre lo spirito che l’anima non lo è più; ma ciò non autorizza a svalutare la nuova Weltanschauung, che è quella del Vangelo, né a concludere che Agostino, non essendo più un uomo dell’antichità, è senz’altro un uomo del medioevo. Questo schematismo, quanto mai discutibile, non ha alcuna giustificazione poiché poggia interamente su di un falso dilemma. Il fatto irrefutabile è che quando nei secoli della dominazione barbarica scomparvero Cicerone e Virgilio, scomparve anche Agostino; il quale tornò nella cultura europea, ma in compagnia di quei due grandi di cui il suo spirito si era nutrito.

In realtà, nella patristica greca e latina l’elaborazione teologica e la paideia cristiana presero corpo in stretta simbiosi con la cultura classica, rispetto alla quale la nuova cultura si distingue per una nuova intensità, un recupero di valori universalmente umani e una straordinaria capacità di diffusione. L’umano si cristianizza non per una qualche verniciatura esterna, ma attraverso una impregnazione che scende fino alle sorgenti dell’essere. Tale cultura non implica perciò alcuna mutilazione dell’umanità nel suo sviluppo, né alcuna regressione.

Si direbbe, al contrario, che è stato superato come per miracolo un invecchiamento e che, contemporaneamente, è avvenuto un passaggio all’età adulta, alla quale l’umanità antica non era pervenuta. L’umanesimo del Golgota e della Resurrezione non soltanto ha coronato l’umanesimo dell’Acropoli, ma lo ha rigenerato. L’umanesimo classico sapeva sviluppare splendidamente le forze spirituali dell’uomo, ma nello stesso tempo le lasciava incompiute, prive di direzione e di sbocco proprio in rapporto ai problemi decisivi dell’esistenza. Per Agostino la luce del Vangelo era provvidenziale anche per la cultura classica: essa costituiva, infatti, un criterio per salvaguardarne i valori autentici e farli così entrare nel futuro dell’umanità, un principio di integrazione perfettiva, il punto di partenza di una rinascita. É pertanto lecito pensare che se l’evoluzione della civiltà e della cultura non fosse stata tragicamente interrotta dall’alluvione barbarica – Agostino si spegne poche settimane prima che i vandali espugnassero Ippona, che assediavano da tre mesi – avremmo potuto avere una cultura cristiana profondamente permeata dal valore religioso, come fu quella del medioevo latino, ma senza rompere o allentare il legame che l’univa alla cultura classica.

Nell’immensa opera di Agostino sono molteplici e preziosi i contributi sul piano dei principi teoretici e delle indicazioni metodologiche, come pure su quello della psicologia del rapporto educativo e dei mezzi didattici. C’è, però, un’altra direzione in cui deve muoversi la ricerca: esiste, infatti, «una pedagogia implicita», secondo la felice espressione di Aldo Agazzi19, che circola in tutti gli scritti di Agostino e che occorre recuperare più pienamente di quanto finora si sia fatto. E al primo posto tra le opere da esplorare con questo intento sono quelle della comunicazione diretta con il popolo cristiano, il suo Commento ai Salmi, i Discorsi e le Lettere. La lettura dei Discorsi (Sermones), ad esempio, sebbene il testo a noi pervenuto non riproduca che alla lontana il discorso pronunciato realmente, ci fa toccare con mano come proprio nel parlare al popolo Agostino eserciti il più alto magistero20. Egli domina il sacro testo a memoria, da un capo all’altro, si adatta a quanto gli dettavano le circostanze e il proprio cuore, suscita negli uditori il dinamismo della vita interiore e li eleva a un’alta, spesso sublime, visione dell’esistenza, puntando diritto sulle questioni più decisive e sui traguardi fondamentali. In cattedra Agostino si sente non solo al servizio del suo popolo, ma uguale a lui davanti a Dio. Non dice mai «voi», ma «noi». «A che servono i miei sermoni, a che serve la mia vita? L’unico scopo è che noi arriviamo finalmente a vivere insieme la vita di Cristo! Per questo mi affatico, questo è il mio onore, la mia gioia, la mia gloria, la mia eredità. Non voglio salvarmi senza di voi» (Sermo, 17, 2). E, se abbiamo la fortuna di disporre di oltre un migliaio di discorsi di Agostino, lo dobbiamo a un manipolo di ascoltatori che compresero la grandezza umana e cristiana del loro vescovo e provvidero, a proprie spese, a stenografare le sue prediche. Furono, infatti, scritti prima di essere pronunciati solo i ventiquattro Discorsi sul Vangelo di Giovanni e pochi altri; Agostino non poté nemmeno rivedere completamente i discorsi raccolti e redatti dai tachigrafi, come riconosce nelle Ritrattazioni (II, 93, 2). Questa parte dell’opera agostiniana – con le sue splendide digressioni e annotazioni psicologiche, con la sua appassionata carica educativa – è di un fascino e di una ricchezza inesauribili. Nei suoi Discorsi Agostino parla in nome della Chiesa, forma alla fede, offre in sintesi decisive la risposta ai problemi più ardui con espressioni limpide e geniali. Nell’atto di farsi educatore, Agostino sacerdote e vescovo spoglia la sua stessa dottrina delle maggiorazioni del controversista. In quanto pedagogia in azione, l’intera paideia cristiana di Agostino attinge il massimo di profondità e di forza persuasiva.

NOTE

  1. A Tagaste Agostino scrive, in risposta alle domande di Romaniano, il De vera religione. Questo più maturo sforzo di Agostino «laico» nel presentare la dottrina cattolica, difendendola dalle false opinioni dei pagani, degli eretici e dei manichei, vede sul terreno pedagogico una ripresa di tre temi di fondo: autorità‑ragione, rapporto tra cultura precristiana e annuncio evangelico, dottrina del Maestro interiore. Tra le due guide disposte dalla provvidenza, l’autorità e la ragione, non vi è contrasto. La prima dispone l’uomo a ragionare, la seconda conduce alla conoscenza e al convincimento; tuttavia neppure l’autorità può fare a meno della ragione quando ci si chiede a chi sì debba prestar fede; ed è certo che l’autorità conosciuta e manifesta è a sua volta autorità di grandissimo peso (De vera religione, 24, 45). L’autorità è come il latte per i bambini, a cui succede nel tempo il cibo solido, cioè la dottrina che ci permette di ravvisare nell’Antico Testamento la prefigurazione preziosa, sebbene imperfetta, del Nuovo. Nei primi capitoli Agostino abbozza un consuntivo delle verità che la vita di Socrate e gli insegnamenti di Platone hanno saputo additare agli uomini. Essi per primi adorarono un solo Dio e resero visibile all’occhio interiore dell’uomo il mondo dell’anima: scoperta questa destinata a cambiare profondamente la vita umana. Socrate e Platone non osarono allora opporsi alle superstiziose credenze del volgo; ma se vivessero ora, nei «tempi cristiani», non esiterebbero a riconoscere che certe verità può averle insegnate solo la sapienza divina e che la Chiesa cattolica difende in tutto il mondo le verità più alte che essi intuirono. É significativo vedere come anche l’Agostino della piena maturità approfondirà queste vedute senza mai abbandonarle. Infatti nel De civitate Dei (VIII, 11)si esalta come autentica theologia naturalis la dottrina dei filosofi socratici sull’esistenza e sulla natura di Dio, contrapponendola al genus mythicon della theologia fabulosa. La genuina filosofia di un Platone o di un Seneca fa sì che le loro dottrine concordino su aspetti non secondari con quella rivelata, sino ad apparire una preparazione alla religione cristiana.
  2. «Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende [et] te ipsum. Sed memento, cum te transcendis, ratiocinantem animam te transcendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur». In questo passo Agostino formula nel modo più limpido il principio fondamentale e il metodo speculativo della «metafisica dell’esperienza interiore» e della sua pedagogia.
  3. Karl Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 416. L’edizione tedesca risale agli anni 1957 e 1964.
  4. Cfr. Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medio Evo, Feltrinelli, Milano 19743, p. 60.
  5. È bene ricordare che l’altro grande genio speculativo del cristianesimo, Tommaso d’Aquino, nel suo avvertito senso critico guardò alla concezione tolemaica del mondo solo come a una semplice ipotesi, com’è attestato dal suo commento al De coelo et mundo di Aristotele. Se i teologi avessero conosciuto meglio i loro più autentici maestri, avrebbero risparmiato alla Chiesa cattolica incomprensioni e accuse che ancora oggi gravano su tante coscienze.
  6. Giuseppe Faggin, «La pedagogia della Patristica: Agostino», in Pedagogia, Vallardi-Soc. Ed. Libraria, Milano 1971, vol. VIII, pp. 279-280.
  7. Agostino attestò fino all’ultimo quanto fosse radicato nella sua personalità questo atteggiamento di continua rimessa in discussione di se stesso e di incessante approfondimento. È ben lui a scrivere in un’opera degli ultimi anni: «Beato l’uomo che nell’ultimo giorno ha ancora conservato le sue possibilità di progredire. Io sto per finire la vita prima di aver finito di correggermi» (De dono perseverantiae, 21, 55).
  8. Il ruolo dello «scandalo» nella formazione della coscienza cristiana è problema non eludibile. Agostino lo ha inquadrato con lucidità nel De catechizandis rudibus (14e 21). Non si può far finta che determinati comportamenti non ci siano, se ci sono e indubbiamente «l’animo, se è turbato da qualche scandalo, non ci permette di fare un discorso sereno e gradevole». Il cristiano se ne rattrista per coloro che, operando il male, vanno incontro alla loro rovina, e per coloro che, essendo deboli se ne lasciano suggestionare. Scandalo in greco sta, appunto, a significare «insidia», «pietra che fa inciampare», ma la coscienza della fecondità negativa dello scandalo non giustifica paura e tiepidezza nel professare la fede; al contrario, essa deve stimolare e accrescere maggiormente in noi il senso della sua trascendenza e della sua perenne validità. Occorre insegnare a chi si è posto alla sequela di Cristo a congiungere l’adesione piena a quanto il Vangelo comanda e la capacità di guardarsi dall’imitare coloro che sono cristiani solo di nome («qui non ipsa veritate, sed solo nomine christiani sunt»). «Colui che desideri diventare cristiano non deve né rifiutare di stare nella Chiesa di Dio, ove sono anche quelli, né starvi alla loro stessa maniera. E nel dare ammonimenti di questo genere, il discorso diventa, non so come, più infuocato, perché il dolore presente gli dà esca».
  9. Peter Brown, Agostino d’Ippona, Einaudi, Torino 1971, p. 263.
  10. Cfr. Eugene Kevane, Translatio imperii. Augustine’s De doctrina christiana and the classical paideia, in «Studia Patristica» XIV (1976).
  11. La risposta di Agostino alle pretese del solipsismo religioso, che crede di prescindere dalla dimensione stessa scelta da Dio, l’incarnazione, il per homines hominibus, è quanto mai calzante. «Chiunque si gloria di comprendere tutte le oscurità della Scrittura senza il soccorso di regola alcuna, ma solo in virtù di un dono, crede giustamente che questo dono non è un’emanazione del suo essere, ma è un potere dato da Dio. Ma allora, dal momento che legge e comprende senza spiegazione altrui, perché pretende poi dare lui stesso delle spiegazioni agli altri?» (Dedoct. chr., Prologus, 8).
  12. Il tema del Verbo che illumina ogni uomo che viene nel mondo, essendo di ognuno il Maestro interiore, è forse il motivo sinfoniale che percorre e unifica tutti gli scritti e i discorsi di Agostino. «Il suono delle mie parole percuote le vostre orecchie, ma il Maestro interiore è dentro» (In Joh., 26, 7). «Io vi parlo al di fuori, il Verbo vi stimola all’interno» (Sermo, 179, 7, 7). «Io che parlo e voi che ascoltate sappiamo di essere condiscepoli di un unico Maestro» (Sermo, 23, 2, 2). Già vecchio, quando una giovinetta, Fiorentina, gli chiede di farle da maestro, Agostino risponde: «Qualunque cosa potrai imparare da me, ti sarà maestro solo colui che è il Maestro interiore dell’uomo» (Ep., 266, 4). Sul cosiddetto «socratismo cristiano» ha scritto pagine molto belleÉtienne Gilson nella sua opera fondamentale, Lo spirito della filosofia medievale (cit. pp. 269-292). Il tema è ripreso con ampia documentazione storica da Pierre Courcelle in Connais-toi toi-meme de Socrate a saint Bernard (voll. 3, Études Augustiniennes, Paris 1974-1975).
  13. Lo studio della Bibbia avvalora le più alte aspirazioni umane che, dentro e fuori Israele, preludono al Cristo dei Vangeli, il quale esprime nella sua persona e nel suo messaggio in modo unico ed inarrivabile la realtà di Dio e il nuovo rapporto degli uomini con Dio. La Bibbia fa conoscere inoltre esperienze, dimensioni ed anche bellezze poetiche ignote ai lettori delle sole opere classiche. Tuttavia il programma culturale di Agostino, come ha ben osservato Peter Brown, «era sottilmente plasmato dalla preoccupazione di non ricreare, nello studio della Bibbia e nella predicazione, la paralizzante affettazione dell’educazione tradizionale» (Agostino, ed. cit., p. 266). Proprio per questo motivo il De doctrina christiana appare un’opera molto moderna. Agostino riserverà un largo posto nell’istruzione agli interessi spontanei, al talento, all’intuizione e si preoccuperà sinceramente che l’intelligenza non fosse spenta dalla pedanteria. Egli tenterà soprattutto di aggirare quello che nell’educazione della bassa romanità era l’elemento più manierato, l’ossessione delle regole dell’eloquenza e delle sottigliezze dialettiche. Per quanto riguarda questo secondo malanno Agostino ammonisce a non confondere la logica con la sofistica (cita anche il «qui sophistice loquitur odibilis est», dell’Eccelesiastico, 37, 23) e a non cercare la determinazione della verità del pensiero nelle regole della dialettica («aliud est nosse regulas connexionum, aliud sententiarum veritatem», De doct. chr., II, 34, 52), potendosi di fatto tirare conclusioni vere da false premesse e conclusioni false da principi per sé veri («sicut in falsis sententiis veras, sic in veris sententiis falsas conclusiones esse posse», ibid., II, 33, 51).
  14. La prospettiva di Agostino è quella di un moto perenne dell’anima alla ricerca della Sapienza. «La presentazione della verità mediante segni – scrive Agostino in una sua lettera – ha grande potere di alimentare e di stimolare quell’amore ardente, grazie al quale, come ubbidendo a una qualche legge di gravitazione, noi guizziamo verso l’alto o ci raccogliamo in noi stessi fino a trovar riposo. Le cose presentate in questa maniera animano ed accendono il nostro affetto assai più che se ci fossero esposte in termini di asserzioni disadorne. Perché sia così, è difficile dire […] Io credo che le emozioni sono suscitate meno facilmente quando l’anima è assorbita per intero dalle cose materiali; ma quando l’anima è messa dinnanzi ai segni materiali di realtà spirituali e procede da essi alle cose che essi rappresentano, acquista forza proprio dall’atto di passare dagli uni alle altre come la fiamma di una torcia, che brucia tanto più luminosamente quando si muove […]» (Ep., 55, 11, 21). Il desiderio di scrutare il mistero divino non deve mai spegnersi in noi perché non finiremo mai di scoprire nelle sue profondità sempre nuovi tesori. Alla fine del De Trinitate si leggono queste espressioni mirabili: «Ho desiderato vedere con la mente quello che ho creduto per fede. Non avvenga mai, o Signore, che, stanco, non voglia più cercarti. Che cerchi invece il tuo volto con ardore, che ti conosca, che ti ami. Aumenta in me tutto questo, fino a tanto che tu non mi riformi interamente» (XV, 28, 51).
  15. Ad Agostino riuscì ostico lo studio del greco e non sopportava il fastidio di imparare aridamente a memoria vocaboli di una lingua straniera che non si parlava più, tanto che nel periodo scolastico non se ne rese padrone («nulla verba illa noveram», Conf., I, 14, 23). Agostino non è nato in un ambiente aristocratico, normale detentore della tradizione culturale, di cui il greco era parte essenziale. Da questi due rilievi in sé giusti si è creduto di trarre la conclusione arbitraria secondo cui Agostino, non essendo altro che un parvenu, non avesse una solida cultura. In realtà, Agostino acquistò la cultura più elevata del suo tempo con sacrifici e non senza sforzo. Fu la sua preparazione a garantire a lui, africano non ancora trentenne, la prestigiosa cattedra di retorica nella sede imperiale di Milano. Anche lo studio del greco fu ripreso e portato avanti con esemplare serietà da Agostino «a partire dal 400 o un poco più tardi», quando si avvide che era necessario alle sue ricerche teologiche la conoscenza diretta del greco biblico (cfr. PierreCourcelle, Les lettres grecques en Occident, De Boccard, Paris 1948, pp. 137‑194). Per quanto riguarda poi la presenza della letteratura classica latina nella sua opera, essa è senza dubbio forte e vasta, come ben vide un giudice di altissima competenza, Erasmo da Rotterdam (cfr. Charles Béné, Erasme et saint Augustine, Ed. Travaux d’humanisme et renaissance, Genève 1969 e Harold Hagendahl, Augustine and the Latin Classics, Universitetet, Göteborg 1967).
  16. Giuseppe Faggin, op. cit., p. 280. A confutazione di questa tesi si leggano le pagine della Retractatio che Henri-Irénée Marrou ha pubblicato in appendice alla ristampa del volume Saint Augustin et la fin de la culture antique, De Boccard, Paris 1949(trad.it. Jaca Book, Milano 1987). Spiace, però, dover rilevare che le coraggiose correzioni della Retractatio non hanno trovato il riscontro che meritavano. A trent’anni di distanza dalla sua pubblicazione della Retractatio Henri-Irénée Marrou ha pubblicato sull’epoca che ebbe Agostino come figura centrale uno studio chiarificatore, agile ed essenziale: Decadenza romana o tarda antichità? III-VI secolo (Éditions du Seuil, Paris 1977; Jaca Book, Milano 1979). Il volumetto del Marrou parte dalla constatazione che «il passaggio dalla Grecia classica all’Europa moderna non si è realizzato attraverso un filiazione diretta», ma attraverso delle mediazioni. Quelle del Rinascimento umanista e, precedentemente, della cristianità medievale, sono note a tutti; quella operata dalla civiltà della tarda antichità (Spätantike) è riconosciuta in tutta la sua enorme importanza solo da una ristretta cerchia di specialisti. Bisogna che l’uomo contemporaneo faccia entrare una buona volta nella sua cultura questa straordinaria epoca, individuandola nel suo ruolo e nella sua importanza. É una delle premesse, per meglio comprendere e situare la personalità e l’opera di Agostino. «La tarda antichità – ribadisce il Marrou – non è soltanto l’ultima fase di uno sviluppo continuo; si tratta di un’altra antichità, di un’altra civiltà, che bisogna imparare a riconoscere nella sua originalità e a giudicare in se stessa, non in base ai canoni delle età precedenti» (pp. 15-16). Ci si può chiedere se la tradizionale svalutazione della tarda antichità non sia stata in fondo ispirata da un aprioristico disprezzo nei confronti di tutto ciò che è cristiano. La riprova la si ha nella nota formula con cui Edward Gibbon, da fedele discepolo di Voltaire, compendiava la tesi del suo importante lavoro Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-1788): «Abbiamo così assistito al trionfo della religione e della barbarie». Per lui i due termini erano sinonimi! Il periodo della tarda antichità è stato troppo spesso liquidato come un’età di disintegrazione, un’età tesa esclusivamente verso l’aldilà, in cui le anime che volevano porsi al sicuro si rifugiavano, ritirandosi dalla società che si sgretolava intorno a esse, alla ricerca di un’altra città, la Città celeste. Non vi è impressione più lontana dalla verità. «Raramente altri periodi della storia europea – osserva Peter Brown – hanno disseminato il futuro di altrettanto irremovibili istituzioni. I codici del diritto romano, la gerarchia della Chiesa cattolica, l’idea di impero cristiano, il monastero: fino al XVIII secolo, in luoghi distanti tra loro come la Scozia e l’Etiopia, Madrid e Mosca, gli uomini continuavano a cercare una guida per l’organizzazione della loro vita terrena in questi imponenti legati dell’edificio istituzionale della tarda antichità» (Religione e società nell’età di sant’Agostino, Einaudi, Torino 1975, p. 7).
  17. Per Henri-Irénée Marrou questa è una notevolissima innovazione del programma agostiniano. Cicerone non consigliava di prescindere dalle regole tecniche della retorica, diceva soltanto che esse non erano sufficienti. Per Agostino esse non sono neppure necessarie. La sua affermazione è in netta opposizione con ciò che nel suo tempo sembrava essenziale nella cultura (Saint Augustin et la fin de la culture antique, ed. cit., p. 514 ss.). Commentando questi passi, Peter Brown sente anch’egli la novità e il fascino della posizione agostiniana, ma osserva che Agostino «si accostò al problema con quarant’anni di relativa sicurezza dietro le spalle» e che «dava per scontata la sopravvivenza dell’educazione classica», mentre purtroppo le cose andarono diversamente. Ci si deve chiedere inoltre se la superba semplicità del suo stile cristiano non fosse che l’altra faccia di una profonda raffinatezza. Anche lo stile di un Possidio era semplice, ma solo perché era piatto e in altri scrittori ecclesiastici è dato riscontrare «non l’assenza di ogni retorica, ma l’ampollosità degli uomini di scarsa cultura» (op.cit., p. 267). Si noti però che Agostino non esclude categoricamente l’insegnamento dell’eloquenza. Egli lo riserva ai giovani (De doct. chr.,IV, 3, 4), con il compito di avviare un cammino che poi ognuno dovrà percorrere con le sue intuizioni, con la sua cultura, con il suo stile, con la sua imago vitaee soprattutto con la sua forma vivendi (IV, 29, 61).
  18. Cfr. nota precedente.
  19. Aldo Agazzi, «L’attualità della pedagogia di sant’Agostino», in S. Agostino educatore, Padri Agostiniani, Pavia 1971, p. 103. Il volume raccoglie inoltre i pregevoli contributi di Giovanni Garrone, Agostino Trapé e Luigi Alfonsi.
  20. Molteplici riflessioni di carattere pedagogico sono disseminate, a esempio, in quell’opera, fondamentale per capire meglio Agostino, che è S. Agostino pastore d’anime di Frederik Van der Meer (Edizioni Paoline, Roma 1971).

Nota finale. I materiali riportati provengono dalle bozze di una storia del pensiero pedagogico battuta a macchina e divisa in capitoletti, che si interrompe al capitolo X: «Il realismo pedagogico dell’età moderna». I testi sono stati scritti dal prof. Matteo Perrini in data non precisata, probabilmente negli anni Ottanta del Novecento. Il capitolo qui riportato, il settimo, è tratto da due saggi pubblicati su Humanitas, nn. 2 e 3 (Brescia 1987).