La poesia di Vittorio Alfieri

Tematiche: Letteratura

SOLO, FRA I MESTI MIEI PENSIERI, IN RIVA

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva

al mar là dove il Tosco fiume ha foce,

con Fido il mio destrier pian pian men giva;

e muggìan l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva

il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)

d’alta malinconia; ma grata, e priva

di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso

10 nella pacata fantasia piovea;

e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea

cavalcando venirne a me dappresso…

Nullo error mai felice al par mi fea.

TACITO ORROR DI SOLITARIA SELVA

Tacito orror di solitaria selva

di sì dolce tristezza il cor mi bea,

che in essa al par di me non si ricrea

tra’figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro più il mio piè s’inselva,

tanto più calma e gioia in me si crea;

onde membrando com’io là godea,

spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

10 mende non vegga, e più che in altri assai;

né ch’io mi creda al buon sentier più appresso;

ma, non mi piacque il vil mio secol mai;

e dal pesante regal giogo oppresso,

sol nei deserti tacciono i miei guai.

A me piacerebbe poter riuscire a rendere simpatico Alfieri, un personaggio che è stato afflitto, nel corso dei tempi, da troppa retorica. Dico io, sembra o non sembra simpatico uno che cede alla sorella un patrimonio cospicuo per sentirsi più libero, sia pure riservandosi un appannaggio competente (non avrebbe potuto altrimenti essere il poeta libero che fu); uno che intesse traiettorie zigzaganti per le routes europee, ingaggiando duelli con mariti traditi, come nel caso di Milady Ligonier; uno che si trascina dietro un bel po’ di cavalli, ai quali dedica passi di lettere, epistole, sonetti, e ai quali ricorre, per definire, in una lettera a Penelope Pitt, il suo “Moi”, il suo lo, già quasi “alfieriano”? Dice appunto Alfieri in questa sua lettera: “Je me compare à un coursier fier et superbe, qui, échappé du manège, saute et bondit dans une prairie”. Cioè si paragona ad un corsiero fiero e superbo, che, sfuggito al maneggio, salta, corre e balza di qua e di là in un prato. A me sembra molto simpatico tutto questo, mi fa simpatia prima ancora di iniziare a leggere Alfieri, Alfieri che inclina alla satira e al comico, all’appiccare, come lui dice, il ridicolo, almeno in gioventù, sia alle cose sia alle persone.

Qualcuno ha scritto che la perfezione esige tanto la lentezza quanto la velocità. Pochi autori, più di Alfieri, hanno conosciuto la verità di questo dettato: lui sempre nemico dello stare, amante della velocità, viaggiatore inquieto e numeroso, come documenta la Vita scritta da esso, sempre ansioso di rimettersi in viaggio, costretto a farsi legare al tavolo da lavoro dal fidato Elia (c’è un bel saggio di Caretti, intitolato appunto Il fidato Elia, che parla di alcune lettere dello stesso “fidato Elia” alla famiglia e, in particolare, al cognato di Alfieri, nel periodo del ritorno a Torino dopo i grandi viaggi europei, da Roma a Parigi, dall’Olanda all’Austria, da Praga a Lisbona, alla Russia e così via).

E’ ben vero che quei legami, per altro accortamente nascosti da un mantellone, come Alfieri stesso racconta nella Vita, per non apparire troppo ridicolo agli eventuali visitatori, ci sono stati propinati come un alto esempio di volontarismo indefesso ed esemplare, anche notevolmente deformando, perché il “Volli, sempre volli, fortissimamente volli” sottintende, è bene che lo si sappia, “essere trageda” (quindi c’è un obiettivo preciso, essere un tragediografo, uno scrittore di tragedie. E infatti la citazione, tanto spesso sprecata, la troviamo non nella Vita, dove crederemmo di poterla trovare, ma nella Risposta dell’Autore, che l’Alfieri scrisse al Calzabigi, sull’origine della sua vocazione tragica). Vi è deformazione poi perché il volere deve pur sempre presupporre il forte sentire, è questo un punto fondamentale. Come Alfieri fa dire all’amico senese Francesco Gandellini, che è il protagonista del dialogo intitolato La Virtù Sconosciuta, “(…) il forte sentire, credilo a me, egli è una liquida sottile infiammabile qualità, che per ogni nostra vena e fibra trascorre ed a tutti i sensi si affaccia”. Quel forte sentire, che, come Alfieri scrive nella Vita, “al far tragedie è il primo sapere richiesto, il qual non si impara”. Quindi non si può diventar tragediografi se non si è dotati del forte sentire, e questo va detto se non altro per non enfatizzare troppo l’elemento puramente volontaristico di Alfieri. Fatto sta che questo modello equivocato ci è stato propinato in più modi, ha passato le generazioni, fino alla mia, contribuendo a dare dello scrittore un’immagine antipatica, certamente uggiosa: potenza, in questo caso negativa, della scuola. Tanto è vero che, nel secondo Ottocento, un autore piemontese, Michele Lessona, in piena epoca positivistica, ha potuto scrivere un libro intitolato Volere è potere, raccontando le vite di persone che sono riuscite ad ottenere un grande posto nel mondo, a realizzare così i loro progetti, contribuendo anche lui, per parte sua, a creare il mito dell’uomo che basta che voglia ed ha.

Di tutto questo Alfieri non è responsabile. Egli ha una personalità molto più variegata e complessa di quanto questa tradizione possa lasciarci intendere, una personalità dilemmatica e forte, psicologicamente drammatica, tanto che la sua opera può essere letta come il frutto di una natura in contesa perenne con se stessa, in contesa con tutto, col fidato Elia, con la sua terra, con il suo Re (Carlo Emanuele III prima, Vittorio Amedeo III dopo), con la sua condizione di vassallo, con la sua lingua, che chiama anfibia, con la sua città, che chiama anch’essa anfibia, ossia pencolante fra il mauvais jargon, il gergaccio piemontese e il francese, ma che non sapeva parlare la lingua italiana (come invece sapeva fare lo zio dabbene, Benedetto Alfieri, il quale stupiva i buoni piemontesi con il suo idioma perfettamente toscano e li faceva naturalmente ridere), in contesa con la Morte, a cui si rivolge fieramente: «Bieca o Morte minacci?”. Una contesa, un duello, che è però anche l’altra faccia di un dialogo ostinatamente cercato: “(…) e in atto orrenda/ l’adunca falce a me brandisci innante?/ Víbrala su: me non vedrai tremante/ pregarti mai che il gran colpo sospenda”.

Diciamo che la vita di Alfieri e tutto il suo itinerario poetico è un tentativo di far coincidere la natura segreta di un’offesa con il destino di una vocazione poetica, o, se preferite, tragica. Lui, in tempi di estetica della ricezione, dai suoi lettori non pretende certamente poco. Qual è il lettore ideale a cui egli parla? Intanto deve far parte dei pochi che “non hanno bisogno, o non vogliono migliorare il loro stato, quanto alla ricchezza”. E poi eccoli ricapitolati i caratteri nel trattato Del Principe e delle Lettere: “sommo ingegno, integrità somma, conoscenza piena del vero, e non minore ardire nel praticarlo e nel dirlo”. Il pendant quindi ideale dello scrittore è, per Alfieri, il lettore che non è il popolo, il quale “sepolto dai pregiudizi, avvilito dalla servitù, fatto stupido dalla povertà, non ha né tempo né mezzi né aiuti per imparare a discernere i suoi propri diritti”. Si potrebbe dire, già da qui, che il paradosso di Alfieri è stato quello di uno scrittore aristocratico, il quale però ha gettato la radice di un vivere democratico. E’ uno dei paradossi, come avrebbe detto Gobetti, dello spirito russo come di Alfieri: non a caso Alfieri è stato uno degli scrittori più letti, frequentati da Gobetti, da tutto il suo coté, il giro gobettiano. Non a caso uno dei saggi più belli che siano stati scritti su Alfieri è di Umberto Calosso, un professore piemontese, il quale cercò di individuare nell’Astigiano l’anarchismo di fondo che sta alla base della sua visione politica.

“Leggono adunque veramente nel Principato i pochi uomini rinchiusi nelle città, e fra questi il minor numero di essi, cioè quei pochissimi, che, non bisognosi di esercitare arte nessuna per campare, non desiderosi di cariche, non adescati dai piaceri, non traviati dai vizi, non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa di dottrina, ma veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano nei libri un dolce pascolo all’anima e un breve compenso alle umane miserie”. Del resto noi stessi dai libri che cosa ci aspettiamo, se non questo? “E così fatti lettori – dice Alfieri – (a questi soli io attribuisco un tal nome) che non sono uno in dieci mila, spaventare potrebbero il principe?”. E subito dopo: “Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare, pensare vuol dire starsi, e starsi vuol dire sopportare”.

Lasciamo stare che qui siamo alle radici di una prossimità, che scaturisce all’interno stesso di una prospettiva profondamente autobiografica; un rapporto speculare che sdoppia un’identità: da un lato lo scrittore dal “forte sentire”, e dall’altro il lettore dal “profondo pensare”. Nel trattato Del Principe e delle Lettere, che io cito qui proprio perché voglio che faccia un po’ da filo conduttore di questo discorso sulla poesia. Alfieri scrive: “Ogni bell’arte è figlia del molto pensare; il che vuol dir, leggere, o parlare con chi ha letto poiché il pensare altro non è che il combinare il già detto e pensato; ed un’idea che chiamiam nuova non può essere se non figlia di cento antiche”. Dunque, da un lato l’andare continuo come esigenza del sentire, dall’altro lo stare come necessità del pensare, compresenti ambedue nei movimenti pendolari di Alfieri. E basterebbe qui richiamare quella “malinconia riflessiva” che è messa continuamente in gioco dall’Alfieri lettore della Vita scritta da esso.

Ora domandiamoci dove li abbia trovati Alfieri i suoi lettori ideali. Quel lettore che il poeta augura a se stesso altri non è poi che il se stesso lettore. Il tutto è reso molto esplicito dal seguente sonetto: “Poeta è nome che diverso suona/ appo genti diverse in varia etade/ onde or nel limo vilipeso ei cade/ or l’uom dal mortale essere sprigiona./ Ma uman giudizio torre o dar corona/ mal può d’un’arte che divina invade/ gli almi suoi mastri e alle superne strade/ con disusato ardito vol gli sprona./ Ben può sentenza il volgo dar sui vuoti/ armoniosi incettator d’oblio/ di baie pregni e al vero Apollo ignoti”. Alfieri si riferisce qui a tanta poesia settecentesca cantabile e oziosa, di fronte alla quale la sua si erge con ben altra capacità energetica. “Ma prezzar quelli che il furor natio/ sforza a dir carmi a Verità devoti/ non l’osi, no, chi non è Vate o Iddio”. Quindi in sostanza il poeta non può essere giudicato che dal poeta, che sia suo pari. Il lettore ideale di Alfieri, lo ripeto, non è altri dunque che se stesso. Ma, detto questo, qualche altro lettore eccezionale egli l’ha pure avuto. E qui ne citerei almeno due: Foscolo e Leopardi. In Foscolo e Leopardi, Alfieri ha trovato sicuramente due lettori ideali – non voglio dire Vati, perché questo epiteto, se può accordarsi con una certa facilità a Foscolo, molto meno è adatto a Leopardi (anche se Leopardi che citerò è il Leopardi delle Canzoni). Proprio da loro e dalle loro etopee, vengono fuori vere e proprie interpretazioni ideali dell’opera di Alfieri.

Tutti ricordano il Foscolo dei Sepolcri, e il verso consonante dell’Autoritratto di Foscolo: “Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso”, dove sono nettamente scanditi il mesto, il solo e il pensoso, decisamente alfieriani. Vediamo dunque, dai Sepolcri: “E a questi marmi/ venne spesso Vittorio ad ispirarsi./ Irato a’ patrii Numi, errava muto/ ove Arno è più deserto, i campi e il cielo/ desioso mirando: e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcea la cura,/ qui posava l’austero; e avea sul volto/ il pallor della morte e la speranza./ Con questi grandi abita eterno: e l’ossa/ fremono amor di patria”. Vorrei fare una prima osservazione su questi ultimi versi, sul “pallor della morte e la speranza”, che sembrano in contrasto fra di loro, e sono invece perfettamente compatibili. Nel “pallor della morte” è come effigiata la maschera del trageda, che, come Alfieri scrive sempre nel tratto Del Principe e delle Lettere, “appartiene alla razza di coloro che potranno di ben altre passioni discorrere e ben altre destarne, e con altre infiammare, che col solo ed anche snervatello amoruccio”. Quanto c’è del sonetto Sublime specchio di veraci detti? Quanto del verso ultimo della seconda quartina: “Pallido in volto più che un re sul trono”? E c’è anche una bellissima pagina della Vita, la sua fuga da Parigi, un concitato dialogo con coloro che cercano di fermarlo: “Vedete, sentite, Alfieri, il mio nome italiano, non francese, grande, magro, sbiancato, capelli rossi: son io quello (…)”. Tante pagine vengono a soccorrere la pagina più propriamente poetica, il verso. Nella “speranza” torna invece il concetto di un futuro di libertà, che “non potrà non essere”. Alfieri nel trattato Del Principe e delle Lettere, lo dice a proposito delle tragedie, ma può essere esteso un po’ a tutto: “E verrà quel tal giorno, perché tutti i giorni già stati ritornano”. Concetto ripreso nel capitolo finale del trattato machiavellianamente intitolato Esortazione a liberare l’Italia dai Barbari: “(…) stante che tutto ciò che ha potuto essere può ritornare e sarà (…)”. Ecco il “pallor della morte” da un lato, e la “speranza” dall’altro, di cui parla Foscolo.

Vediamo ora Leopardi e la Canzone ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, oggi dimenticata dalle antologie. Il poeta depreca il generale clima di decadenza, cioè “il secol morto, al quale incombe/ tanta nebbia di tedio”, e si appella ai padri di un valore negato, “i vetusti divini” che fanno la gloria d’Italia, e fra questi Alfieri, che viene chiamato a chiudere la canzone, a sigillarne alfierianamente l’improperium, l’insulto finale. “Da te [da Tasso] fino a quest’ora uom non è sorto,/ o sventurato ingegno,/ pari all’italo nome, altro ch’un solo,/ solo di sua codarda etade indegno./ Allobrogo feroce, a cui dal polo/ maschia virtù, non già da questa mia/ stanca ed arida terra,/ venne nel petto; onde privato, inerme,/ (memorando ardimento) in su la scena/ mosse guerra a’tiranni / Ei primo e sol dentro all’arena/ scese, e nullo li seguì, che l’ozio e il brutto/ silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto”. E ancora: “Disdegnando e fremendo, immacolata/ trasse la vita intera,/ e morte lo scampò dal veder peggio./ Vittorio mio, questa per te non era/ età né suolo”. Per finire con l’augurio che “questo secol di fango o vita agogni/ e sorga ad atti illustri, o si vergogni!”.

Sono etopee, queste di Foscolo e Leopardi, intessute di memorie alfieriane, e in Leopardi anche foscoliane. Basterebbe il “fremendo” leopardiano, che riprende il “fremono” foscoliano; persino nel “secol di fango” è ravvisabile, anche se non a livello propriamente intertestuale, un tratto di un sonetto dialettale scritto da Alfieri in piemontese, dove egli si domanda se sia lui di ferro o gli italiani di fango. E poi quell'”Allobrogo feroce”, che viene direttamente dalla Vita, quando, raccontando l’episodio della Biblioteca Ambrosiana, dove un bibliotecario mostra ad Alfieri il manoscritto del Virgilio di Petrarca. Alfieri dice di sé: “Da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non mi importava nulla”. E ancora quel “Solo di sua codarda etade indegno”, che traduce il verso del sonetto Tacito orror di solitaria selva: “ma, non mi piacque il vil mio secol mai”. In tutti e due, cioè tanto in Foscolo quanto in Leopardi, prevale l’idea della solitudine, di una solitudine interiore che si leva ad emblema di una solitudine storica.

Oggi, dopo gli studi di Rudolph Wittkower, Nati sotto Saturno (Einaudi 1968), o di Klibansky-Panofsky-Saxl, Saturno e la melanconia, si direbbe che ad Alfieri si adatti benissimo l’epiteto di saturnino e l’aggettivo saturnino applicato ad Alfieri l’ho trovato nei saggi di Giacomo De Benedetti.

Quali sono i caratteri dei nati sotto Saturno? Intanto un malessere denunciato in gridi di autoflagellazione, in urla di richiamo, ma anche barriere formidabili di silenzio. Il saturnino si fa assediare dal silenzio. C’è poi l’amarezza della solitudine, pur cercata; l’incertezza della volontà, che si volta nel suo opposto, nel “voler essere mentre non sono”; infine c’è la deriva nichilista, cioè il naufragio dell’essere nel nulla, o certamente la tentazione di ricadere in una sorta di vuoto. Un poeta dialettale modernissimo – mi si perdoni l’anacronismo – scrive nella poesia introduttiva della sua raccolta intitolata Tal grin di Saturni: “Io, nassút de zenàr”,, io nato di gennaio. Ora, le prime parole che leggiamo nella Vita sono queste: “Nella città di Asti, in Piemonte, il dì diciassette di gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti”. E’ solo un invito nel tentativo di avvicinare Alfieri ad una lettura più moderna e più nostra. Ultimo innesto: al saturnino appartiene quell’andare per andare, quella smania di viaggiare, che non prende stanza mai. E viene qui in mente, visto che siamo in vena di letture aggiornate, il raccontino La partenza di Kafka: “Comandai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo, e montai in groppa; udii suonare una tromba in lontananza e domandai al servo che cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito nulla. Presso il portone, mi trattenne e chiese: – Dove vai, Signore? – Non lo so – risposi – pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua. Soltanto così posso raggiungere la meta. Dunque sai qual è la tua meta – Sì – risposi – te l’ho detto, via di qua: ecco qual è la mia meta”. A questo “via di qua” Alfieri oppone, naturalmente, un fermo restare, tanto più energico, quanto è più forte la spinta saturnina all’andare. Accontentiamoci anche qui solo di far balenare un indizio di modernità, sempre per renderci Alfieri, se possibile, più simpatico.

Siamo per altro ancora rimasti ai confini di un discorso che coinvolga veramente Alfieri. Mi scuserete, ma io penso con Pavese (Il mestiere di vivere) che “Il pregio estetico, l’essenza morale, la luce della verità non si possono insegnare: ognuno li deve creare dentro di sé. Sono cioè degli assoluti, fuori del tempo e della società, e per ciò incomunicabili; le parole ne esprimono solo uno schema”.

Vediamo dunque di esprimere questo schema, affrontando qualche testo alfieriano. Quale testo leggere? Posto che qualcosa dei trattati, del dialogo La Virtù Sconosciuta e qualcosa anche della Vita, sia pure en passant, lo abbiamo visto; io proporrei di leggere due sonetti tratti dalle Rime. Dei 351 componimenti, che sono canzoni, stanze, capitoli, epigrammi, ma nella stragrande maggioranza sonetti, che costituiscono le Rime, una prima parte, comprendendo i componimenti scritti dal ’75 all’89, fu pubblicata nel 1789 col titolo Rime di Vittorio Alfieri da Asti, e una seconda parte, comprendente quelli composti fra l’89 e il ’98, fu pubblicata dopo la morte dello scrittore, nel 1804. Le due parti corrispondono a due diversi tempi della vita alfieriana: il primo più impetuoso e irrequieto, contrassegnato dalla straordinaria vocazione tragica e percorso da un magnanimo ideale antitirannico e libertario; il secondo – a fare da spartiacque ci sono naturalmente gli accadimenti fatali della Rivoluzione Francese – più deluso e più ritirato, più ripiegato su se stesso. Il che non significa naturalmente che i componimenti della seconda parte siano da meno dei primi: più composti, più pensati, meno legati all’occasione reale che li detta; qualche critico, come Giuseppe De Robertis, pensa addirittura che l’Alfieri vi abbia trovato l’accento più vero della sua lirica. E tuttavia la cifra caratteristica dell’esperienza poetica alfieriana è soprattutto nelle disparità della prima parte, nelle asperità spesso prosastiche, in quel tanto di urgente e di incalzante che trova sbocco nei confronti iperbolici, nei paragoni eroicizzanti, nelle metafore grandiose. Non si dimentichi, per esempio, quanto l’Alfieri scrive all’amico Bianchi, l’l luglio 1785: “Son come Saul: bramo in guerra la pace, e in pace guerra”.

Passiamo a commentare il sonetto Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva. Il momento a cui risale la composizione del sonetto, che come sempre reca in calce la data, – 4 gennaio 1787, in Pisa, al mare – è narrato nel cap. XV dell’epoca IV della Vita: Alfieri si trova a Pisa, colpito nell’amicizia dalla morte recentissima dell’amico Francesco Gori Gandellini, e separato dalla donna amata, che, pur trovandosi a Bologna, col solo Appennino di mezzo, è pur tuttavia irraggiungibile per ragioni di opportunità e di prudenza (la donna è naturalmente la Contessa D’Albany): “Io mi passai in Pisa quel lunghissimo inverno col solo sollievo delle di lei spessissime lettere, e perdendo al solito il mio tempo tra i molti cavalli, e quasi nulla servendomi dei pochi ma fidi miei libri. Sforzato pure dalla noia e nelle ore in cui cavalcare ed aurigare non si poteva, tanto e tanto qualcosa andava pur leggicchiando, massime la mattina, in letto appena sveglio”.

La passione amorosa insieme con la solitudine e la malinconia, a cui solitamente si accompagna, è qui in primo piano. Tutto intessuto di reminiscenze e riferimenti petrarcheschi, il sonetto, uno dei più alti e compiuti delle Rime, è caratterizzato da un contrasto tra lo scenario naturale del mare in tempesta e la quasi rasserenata disposizione d’animo del poeta, in atto di colmare l’assenza dell’amata con un gioco fantastico, una réverie di obliosa e dilettevole magia.

Apriamo una parentesi. Non starò certo a riportare tutti i luoghi in cui vengono citati Dante e Petrarca, associati spesso in una comune devozione. Per Alfieri, Dante e Petrarca sono “I Poeti”, associati a due altri, Ariosto e Tasso, come scrive in un sonetto: “Quattro gran Vati ed i maggior son questi”; ricordati, tra l’altro anche nella Vita: “Questi quattro nostri poeti erano allora e sono e sempre saranno i miei primi, e direi anche soli, di questa bellissima lingua”. Ma non si può non ricordare a questo proposito almeno qualche luogo della Vita, fra i più significativi e forti. Anno 1776: “In quel frattempo [mentre sta leggendo Orazio] non tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa e ricominciando poi da capo i primari, talché il Petrarca e Dante nello spazio di quattr’anni lessi e postillai forse cinque volte”. Né si può dimenticare la pagina fondamentale, ancora una volta, del trattato Del Principe e delle Lettere, dove la grandezza di Dante e Petrarca risalta ancor più rispetto a quella di Ariosto e di Tasso, perché “i primi furono liberi, i secondi legati a ceppi di corte”. Qui, in questa pagina, al di là della congiunzione Dante-Petrarca, spicca un elogio di Petrarca che è la negazione di ogni petrarchismo di maniera: “Il divino Petrarca, nel fraseggiare imitato con poca felicità, e con assai minore negli affetti, non è tuttavia niente sentito e imitato nell’alto e forte pensare ed esprimersi”. Cioè abbiamo qui un Petrarca letto secundum Alfieri: di Petrarca non si colgono soltanto gli stilemi, ma si coglie il forte sentire, il forte pensare ed esprimersi, che è una novità assoluta – “anzi sotto un tal aspetto non è conosciuto se non da pochissimi” – e chi, fra questi pochissimi, se non ancora una volta Alfieri stesso? Il forte sentire di Dante è pacifico: Dante è un modello di forte sentire anche per i suoi immediati chiosatori, tanto che Alfieri mette in campo il suo nome nel trattato Del Principe e delle Lettere, insieme con quello altrettanto eloquente di Michelangelo: “Si dice (…), e si crede che l’impulso dei sommi artisti fosse assolutamente lo stesso che quello degli scrittori, talché, a stringere in una parola, le arti e le lettere sarebbero una cosa stessa, e tra Michelangelo e Dante non passerebbe altro divario che d’aver l’uno spiegato i suoi sensi con lo scalpello e pennello, l’altro con la penna e l’inchiostro”. Una visione michelangiolesca: del resto c’è un sonetto di Alfieri sul Mosè. Ma qui Alfieri legge Petrarca secondo se stesso, e mentre si riconosce in Dante, individua in Petrarca un’intensità che non era stata sospettata: si elegge insomma a lettore ideale di Petrarca, uno di quei “uno in diecimila”, uno di quelli che, “veramente pieni di una malinconia riflessiva, cercano nei libri un dolce pascolo all’anima e un breve compenso alle umane miserie”.

Sulla seconda parentesi che voglio aprire, mi appello ad un saggio famoso di Gianfranco Contini. Contini dice che “al poliglottismo massimale di Dante, si oppone il monoglottismo tendenziale di Petrarca” – ossia allo sperimentalismo e al massimo di apertura del primo, corrisponde invece la perfetta coerenza, coesione, selettività del secondo – premettendo che noi moderni ci sentiamo più solidali con “il temperamento linguistico di Dante”, anche se “è più prossima alla cultura petrarchesca la sostanza della nostra tradizione”.

Alla luce di questo saggio possiamo ben dire che Alfieri tende ad incrociare le due vie, a porsene come un arbitro al bivio, a immettere nel tessuto lessicalmente e retoricamente compatto del dettato il massimo di energia, che apparterrebbe, secondo lui, non solo a Dante, com’è pacifico, ma al Petrarca stesso, letto in chiave meno abituale e istituzionale.

Torniamo al sonetto che abbiamo letto. Basterebbe il primo verso a far la differenza: il petrarchismo qui è davvero flagrante. Nel Petrarca il verso suona: “Solo e pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti,/ e gli occhi porto per fuggire intenti/ ove vestigio uman l’arena stampi”. Questo il commento di M. Fubini: “L’Alfieri, spezzando la locuzione petrarchesca, viene a dar rilievo all’espressione “solo”, su cui cade ben più forte l’accento che nel Petrarca, così forte da soverchiare quello metricamente principale della quarta sillaba. Così spicca fin dall’inizio grandiosa la figura del cavaliere solitario, e il “Tra i mesti miei pensieri”, ben diversamente dal “pensoso”, pare ravvolgerlo in un’aureola tragica”. Ma c’è dell’altro: manca qui nel sonetto di Alfieri un aggettivo fondamentale alla poesia di Petrarca, l’aggettivo pensoso, che viene da “pensiero”. Come a dire la passione temprata dal freno della ragione in Petrarca, per cui il pensiero è la riflessione che accompagna le vibrazioni del sentimento: nessuna sensazione in Petrarca è mai colta nella sua immediatezza, mentre noi abbiamo sottolineato come nei sonetti di Alfieri sia soprattutto la immediatezza che viene colta. In Petrarca il richiamo alla realtà è trasceso in forme armoniche e perenni di bellezza, platoniche; ogni vicenda è sfrondata dell’episodico per divenire eccezionale ed irripetibile, cioè esemplare. Qui invece, in quanto all’episodico, di contro a “i più deserti campi”, troviamo la precisa determinazione geografica, “in riva / al mar là dove il Tosco fiume ha foce”; senza contare l’accenno a Fido; e il paesaggio, poi, su cui la situazione si staglia, che fa giusta compagnia a quello, forse più scenografico, di un altro sonetto compagno, non foss’altro perché definisce epigraficamente e sintetizza lapidariamente una condizione naturale: “Là [tra Grenoble e la Certosa] dove muta solitaria dura/ piacque al gran Bruno instituir la vita,/ a passo lento, per irta salita,/ mesto vo; la mestizia è in me natura”.

Ma tornando a noi, contrasta con il consueto bisogno della velocità poetica l’atteggiamento “pian pian men giva”: alla malinconia si addice la lentezza grave del passo. Quanto poi al “gran fragor”, è affine alle “sonanti acque”, però l’allitterazione accresce l’idea del rumore che sta sentendo il poeta. Con “fiamma inestinguibil” torna l’idea di un sentire ardente, connaturato all’impulso naturale del Poeta Vate. E poi: “mi empiva/ il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)/ d’alta malinconia”; questa malinconia che empie il cuore del poeta non ne estingue la fiamma naturale, non l’annulla, ma l’asseconda. Per la prima terzina sempre Fubini richiama i versi petrarcheschi: “che sol mirando oblio ne l’alma piove d’ogni altro dolce”. E commenta: “Ma l’obblio qui non è “d’ogni altro dolce”, bensì delle pene del poeta e della sua stessa persona; e il “pacato”, per contrasto, ci fa pensare alle tempeste iniziali, mentre il “Dolce” all’inizio della terzina colora di sé i due versi, e il “piovea” ritrae con un imperfetto e in rima un’azione continuata, dolce anche nella memoria”. Infine: “quella, ch’io sempre bramo (…). Nullo error mai felice al par mi fea”: ancora una volta si misura nella chiusa l’originalità del petrarchismo alfieriano. Laddove in Petrarca il colloquio d’amore è personificato, o meglio astratto, nel valore addirittura antonomastico della maiuscola, in Alfieri troviamo, sia pure sotto forma di fantasia, la sua donna in atto di cavalcare e dunque in una posa di concretissima allucinazione, rafforzata con decisione dal deittico. Non “Amore” personificato; qui c’è “quella, ch’io sempre bramo”: un verbo che si accampa prepotente nel bel mezzo del verso, in posizione forte, accentata.

Potremmo dunque dire che il petrarchismo di Alfieri consiste in prestiti notevoli, in prelievi soprattutto lessicali, ma che da Petrarca Alfieri si distingue alquanto, in questo come in altri sonetti, per il modo di lavorare la materia. Dal punto di vista lessicale, la lingua di Alfieri nelle Rime resta al tendenziale monoglottismo ma è fortemente dantesca o michelangiolesca nel ritmo e nel suono: questo è il grande rinnovamento che Alfieri contribuisce a dare alla poesia lirica e al petrarchismo tradizionale.

Potremmo ancora leggere velocemente il sonetto Tacito orror di solitaria selva. Alfieri parla di uno dei soggiorni alsaziani, cui va ascritta la composizione di questo sonetto, e si domanda chi vi sia in Italia che veramente “e legga e intenda e gusti e vivamente senta” Dante e Petrarca. Il primo verso è ancora un prestito dal Petrarca “raro un silenzio, un solitario orrore d’ombrosa selva mai tutta mi piacque”; ma giocato qui con tutt’altra sensibilità e misura, sia per il drammatico rilievo dato in apertura a “Tacito orror”, sia per l’uso di espressioni che escludono ogni possibilità di idillio. E faccio questa semplice e ultima considerazione: l’Alfieri non cercava i solitari boschi ombrosi per trovare qualche riposo al suo cuore afflitto, ma per trovare in essi un’immagine adeguata, ancora una volta, di se stesso. In quelle ombre solenni egli non vedeva, come il Petrarca, le creature mute che accoglievano le sue confidenze (ha osservato con la consueta finezza il Momigliano) ma quella raffigurazione di se stesso che fu l’aspirazione segreta, il filo autobiografico che lega tutta quanta la sua opera intera. Infatti l’opera di Alfieri si è potuta leggere come un infinito filo di ragione autobiografica.

Con questo non so se sia riuscito a rendere Alfieri più simpatico, nonostante una certa professoralità dell’intervento. Non mi resta che appellarmi allo schema di cui parlava Pavese e al quale mi sono richiamato per tempo: Alfieri va in cerca del suo lettore buono, e magari raro, che però esiste, ed io spero che lo trovi, in tempo di grande penuria di lettori, in qualche uditore o uditrice di oggi. Oltre ogni gabbia di parole che possa aver pronunciato, oltre ogni possibile parafrasi, che sempre in qualche modo spegne qualsiasi poesia, a questo la poesia aspira: alla sua verità, in Alfieri come in qualunque altro poeta.

NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.4.1994 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.