La resistenza al totalitarismo comunista (Presentazione mostra “Democrazia Anno Uno”)

La resistenza al totalitarismo comunista[1]

L’amico Matteo Perrini e la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura appartengono ad un numero piuttosto esiguo di amici a cui la storia ha dato ragione. Quando hanno iniziato la loro presenza culturale nel 1976-’77, i principi che difendevano erano malvisti da molti, perché il socialismo veniva considerato, nella sua forma statuale, un fatto compiuto della storia da cui non si poteva tornare indietro, e la democrazia come un salto nel passato.
Gli amici della C.C.D.C. non hanno creduto a quelli che dicevano che la democrazia era sorpassata.
Il comunismo è nato come un bambino viziato che aveva una strana abitudine, urlava a tutti «siete superati!»; la religione, l’etica, la morale, la cultura, le nazioni erano superate. Uno dei suoi comportamenti più tipici era quello di falsificare le leggi scritte, di cancellare i nomi dalla storia, di modificare il passato.
Ciò che mi ha commosso profondamente è che a Brescia la C.C.D.C. non ha mai creduto che ci sono principi superati dalla storia e ha pazientemente ricordato, per tanti anni, che ci sono valori nella vita di tutti che non possono mai essere cancellati. Ciò che mi stupisce è che la storia dà ragione alla fine a chi non ci crede.
Oggi sembra che nessuno dell’Europa abbia mai creduto al comunismo, lo stesso partito comunista italiano pare non lo abbia mai stimato, invece il comunismo aveva sedotto gli intellettuali proprio perché si presentava come la soluzione definitiva dei problemi sociali. Come si poteva resistere ad uno Stato che si presentava, in un qualche modo, come il compimento della razionalità e della storia occidentale?
Ricordiamoci che Lenin considerava gli operai eredi della filosofia tedesca e quindi di tutta la filosofia occidentale. Gli intellettuali si trovavano sotto lo sguardo quasi terroristico di chi affermava di avere le chiavi della verità.
Quando allora è iniziata la storia della verità o del dissenso? La prima forma di resistenza è la MEMORIA, intesa come qualcosa di concreto che tiene unite le comunità umane, che appartiene alla vita collettiva.
In una famosa lezione tenutasi a Genova, Maximov disse: “Solo la memoria della nostra identità russa alla fine reggerà tutto il peso della resistenza al totalitarismo”.
Il secondo momento della resistenza è lo SCRUPOLO. La gente avvertiva degli scrupoli, cioè nella concretezza della situazione umana l’applicare un principio politico si scontrava con una resistenza prepolitica, che faceva sì che certi pregiudizi sembrassero più importanti di tutti i giudizi.
In questo modo nasce una cultura degli scrupoli, della moralità e una concezione quasi religiosa della vita.
Un terzo momento della resistenza al totalitarismo, che traspare anche nei manifesti delle prime elezioni libere cecoslovacche, è ciò che chiamo LINGUAGGIO NATURALE. Il linguaggio del comunismo era freddo e staccato, difficile da penetrare, artificiale. Contro questa macchina esplicativa che dominava dappertutto, si contrapponeva la lingua naturale, nata dalla profondità delle tradizioni libere che vivono una vita diversa da quella determinata dallo Stato e dagli interessi politici.
L’ultimo momento è quello del RUOLO DELL’ARTE, che svolge un compito particolare, perché è nell’opera d’arte che la memoria, gli scrupoli e il linguaggio naturale diventano condivisibili a tutta la società.
Ha detto Solgenicyn, nel suo discorso in occasione della consegna del premio Nobel, che lo scandalo della vita è che l’esperienza degli altri ci è così lontana e fredda, perché siamo capaci di imparare solo dalla nostra esperienza; solo l’opera d’arte rende l’esperienza dell’altro qualcosa che possiamo vivere pure noi.
Nell’opera d’arte si sono quindi concentrati i motivi della resistenza.
Non possiamo ancora dire che dopo il memorabile 1989 è arrivata una nuova società, ma finalmente siamo giunti a quella società imperfetta, quotidiana, che possiamo qua e là migliorare e nella quale i principi del vivere di ogni giorno non avranno più quel “pathos” di cui sentono nostalgia alcuni intellettuali ancora oggi.
Guardando i manifesti della prima campagna elettorale si nota che la Cecoslovacchia nuovamente è una società europea, nel senso che è imperfetta, è consapevole di questa imperfezione ed anzi ne fa un principio.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.12.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.