La Resistenza come rivolta morale: Olivelli e Bonhoeffer

Ringrazio gli organizzatori di questa serata per l’invito a parlarvi di Teresio Olivelli e di Bonhoeffer, anche se non ho competenze particolari. In mezzo a voi ci sono persone, a partire da Padre Manziana, che Olivelli l’hanno conosciuto e quindi la parola più appropriata sarebbe la loro. Non solo per i bresciani, ma anche per noi dell’università di Genova, questo Oratorio della Pace è in qualche maniera mitico, perché due dei maestri del nostro ateneo, come anche il dottor Franchi, e il professor Crippa e il professor Alberto Caracciolo provenivano da questo ambiente. Quindi per me è un motivo di profonda commozione parlare in questo luogo, dove so che il mio maestro, Alberto Caracciolo, il biografo di Teresio Olivelli, veniva a consultare padre Manziana mentre scriveva la biografia dell’amico martire. Ma questa commozione vorrei trasformarla in un atto di omaggio a padre Carlo Manziana, e così anche ringraziarlo pubblicamente perché credo che una certa investitura ideale mi venga proprio da lui, come mi ricordò qualche tempo fa l’amico Minelli. Padre Manziana, che è uno dei fondatori della Morcelliana, andò in Consiglio di amministrazione, si rivolse all’amico Stefano Minelli, e gli disse: “Di’ a don Moretto di continuare l’eredità di Caracciolo”.

In questa parola di padre Manziana io vedo effettivamente una sorta di investitura, perché si tratta dell’eredità di Caracciolo e anche dell’eredità di Olivelli. Caracciolo viene da questa generazione, la generazione dei condannati a morte della Resistenza. Thomas Mann, nella prefazione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, diceva: “Ammiriamo la poesia perché sa parlare pro-prio come la vita, ma siamo doppiamente commossi della vita, che parla, senza saperlo, proprio come la poesia”. E sono queste lettere dei condannati a morte della Resistenza l’evento fondatore, in senso ideale, della nostra convivenza repubblicana, nata dal sangue di questi giovani. Io credo che il biografo di Teresio Olivelli abbia conservato quell’impronta che gli veniva dall’essere di quella generazione. In forza dell’investitura, ideale e morale, che mi viene da padre Manziana vi parlo dunque di Teresio Olivelli, messo a confronto con l’altro martire, Bonhoeffer. Quando si dice “il martire di Flossenbürg” si intende subito Dietrich Bonhoeffer. Tuttavia don Primo Mazzolari, recensendo nel ’47 sull’Eco di Bergamo la biografia di Olivelli scritta da Caracciolo, diceva che Olivelli morì nel cam-po di concentramento di Flossenbürg e io mi permisi sempre di correggerlo, anche nel Quaderno, considerandolo un lapsus. Ma a rileggere bene la biografia di Olivelli c’è una testimonianza che dice: “Poi anche lui, Olivelli partì da Flossenbürg con molti compagni destinato a Hersbruch, un orribile campo di lavoro dipendente da quello di Flossenbürg”. Quindi, in fondo, c’è questo elemento, come dire, topografico che congiunge il martirio di questi due giovani.

E naturalmente non era un lapsus quello di don Mazzolari, perché a quel tempo non poteva sapere chi fosse Dietrich Bonhoeffer: in Italia si è cominciato a parlare di lui nella seconda metà degli anni ’60. Il confronto tra Teresio Olivelli e Dietrich Bonhoeffer è un tema veramente affascinante, e non semplicemente un tema retorico che cerchiamo di imbastire nella ricorrenza. Quando il nome di Dietrich Bonhoeffer cominciò ad apparire nella nostra cultura, con le prime traduzioni italiane, Caracciolo fece subito acquistare alla biblioteca dell’istituto di filosofia di Genova l’edizione tedesca delle sue opere e intuì che bisognava stabilire un confronto tra lui e Teresio Olivelli. Nel 1970 Caracciolo scriveva un suo saggio intitolato Il trascendentale religioso che allora non pubblicò. Lo pubblicò soltanto l’anno della sua morte, il ’90, affermando che quello era il suo testamento spirituale e questo saggio, a leggerlo bene, è tutto costruito con l’immagine di Dietrich Bonhoeffer in fi-ligrana. Quindi, in qualche modo, Caracciolo vedeva incarnata la sostanza profonda del suo pensie-ro in questa figura di martire e sentiva di dover dichiarare la sua infinita ammirazione per quest’uomo, perché avvertiva che la parola più autentica di Dietrich Bonhoeffer non erano tanto i suoi scritti, ma quel soffrire di Dio negli uomini. Il Dio che diventa sofferente, che soffre con l’umanità, e che invita quasi pascalianamente gli uomini ad entrare nel Getsemani fino alla fine dei tempi, Caracciolo lo vedeva incarnato non tanto in una parola, ma nel martirio, perché uno dei motivi per cui egli stesso aveva girato le spalle a questa chiesa fu il fatto che si dicono tante parole che non suonano con un accento di autenticità. E nel martirio di Dietrich Bonhoeffer lui vedeva la faccia di Teresio Olivelli: questa sovrapposizione è autentica e sicura, veramente confermata da tanti elementi. Caracciolo stesso ci dà delle indicazioni.

Nel ’77 egli leggeva in un libro di Italo Mancini, Novecento teologico, il saggio su Bonhoef-fer, che poi è la prefazione dell’edizione italiana dell’Etica, e lo ha lasciato tutto postillato, tutto sottolineato. Nella pagina in cui Mancini si chiede che significato ha la morte di Bonhoeffer Caracciolo scriveva la postilla: “Ricordi la figura di Olivelli?” In questa pagina di Mancini è riportata anche una delle lettere di Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel, quella del 28 luglio del ’44. Anche questa è tutta segnata con le sue tipiche sottolineature in matita e al margine egli scrive: cap. capitale. Il testo è questo: “Dovremmo dunque contrapporre la benedizione veterotestamentaria alla croce? Così ha fatto Kierkegaard. In questo modo la croce e la sofferenza vengono ridotte a un princi-pio, e appunto da qui nasce un metodismo malsano, che toglie alla sofferenza il carattere contingen-te che è proprio di un decreto divino. Per il resto, anche nell’Antico Testamento colui che è stato benedetto deve soffrire molto (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe), ma questo non conduce mai (e lo stesso vale per il Nuovo Testamento) a porre in contrapposizione assoluta felicità e sofferenza, ovvero benedizione e croce. La differenza fra Antico e Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione”. Questo testo è dunque “capitale” per interpretare Olivelli e quindi accostarlo a Dietrich Bonhoeffer. Ho cercato di sviluppare questo tema, e mi sono subito fermato ai testi di Bonhoeffer, sempre dal carcere. Due di questi mi paiono di estrema importanza, perché presentano i temi esaltanti la corporeità e la solarità. Ecco due cristiani, uno luterano e l’altro cattolico, che si confrontano con questo tema, il tema della carne, il tema del corpo.

Quest’anno ricordiamo il cinquantenario della morte di questi due cristiani. Ricorre però anche il quarantennale della morte di un’altra grande figura del cattolicesimo, Teilhard de Chardin, che presenta lo stesso tema, la grande preoccupazione sua di fronte a questa chiesa, a questo cattolicesimo, che ha paura del corpo, che ha paura della materia. È questo appunto il grande problema che Caracciolo sentiva come fondamentale per il confronto tra Dietrich Bonhoeffer e Teresio Olivelli: come conciliare cristianesimo e corporeità, cristianesimo e materia. Bonhoeffer il 20 agosto del ’43 scrive alla fidanzata, Maria von Wedermeyer, una lettera splendida, in cui parla del sole, quello che lui aveva visto durante un Natale trascorso a Cuba, men-tre soggiornava in America: “… arrivando io [a Cuba] dal ghiaccio del Nord America in quella lussureggiante vegetazione, stavo per lasciarmi sopraffare dal culto per il sole…” Ma è più conosciuto l’altro testo, quello del 30 giugno del ’44 all’amico Bethge: “Probabilmente adesso te ne stai da qualche parte [si trovava militare nel centro d’Italia] impolverato, madido di sudore, stanco, e forse senza la possibilità di lavarti e rinfrescarti come sarebbe necessario.

Posso ben immaginare che qualche volta cominci ad odiare il sole. E però, sai, vorrei poterlo percepire ancora una volta in tutta la sua forza, quando ti arde sulla pelle e a poco a poco infiamma tutto il corpo, sicché sai di nuovo che l’uomo è un essere corporeo; vorrei farmi stancare da lui anziché dai libri e dalle idee, vorrei che risvegliasse la mia esistenza animale, non quella animalità che sminuisce l’essere uomo, ma quella che lo libera dall’ammuffimento e dall’inautenticità di una esistenza solo spirituale, e rende l’uomo più puro e più felice. Il sole vorrei insomma non solo vederlo e gustarne qualche briciola, ma sperimentarlo corporalmente. L’entusiasmo romantico per il sole, che si inebria solo di albe e tramonti, non conosce affatto il sole come forza, come realtà, ma solo come immagine. Non può assolutamente capire perché il sole fosse adorato come dio; in questo rientra non solo l’esperienza della luce, dei colori, ma anche del calore. I paesi caldi, dal Mediterraneo, all’India, e all’America centrale, sono stati paesi veramente creativi dal punto di vista spirituale. I paesi più freddi hanno vissuto e si sono nutriti delle creazioni spirituali dei primi, e ciò che essi hanno prodotto di originale, cioè la tecnica, è in sostanza funzionale, non allo spirito, ma ai bisogni materiali della vita. Forse è per questo motivo che siamo continuamente attirati verso i paesi caldi? E questi pensieri possono forse riconciliare in qualche misura una persona con i tormenti della canicola?”

Credo che l’immagine del Bonhoeffer vitale qui risulti in una maniera splendida ed evidente. Ebbene quale testo di Teresio Olivelli si può porre a confronto? Il primo luglio del ’37 Teresio Olivelli scrive a Caracciolo una lettera da Tremezzo in cui dice: “Ma prima di parlarti di Crippa il vittorioso [era stato eletto presidente della Fuci di Pavia] – non solo in quelle (horresco referens) famigerate elezioni – ma anche e trionfalmente sulla malattia, lascia che io riversi su di te l’ingorgo delle mie acque turbinose. Voglio prima innalzare il peana della liberazione, l’inno della gioia: ho finito! capisci? Non mi par vero: ho finito dopo un autentico ‘tour de force’. Anch’io potevo fino a pochi giorni fa dire col Carducci (perdona la deformazione: la memoria non mi regge: è un impasto mio): me, su quei libri che mi fer già macro, lascia il sol (e) trova ancor l’alba novella. Appena esauriti gli ultimi esami -e andarono meglio, o uomo di poca fede, di quello che tu mi augurassi-, mi precipitai in una esplosione di energie fisiche troppo a lungo compresse, sulle fresche onde dell’accogliente Ticino per tuffarmi e rituffarmi con insistente voluttà, correr sulla sabbia morbida con agile passo fino a sfiorarla, fender l’aria stanca col volto proteso nella luminosa tersità del cielo, come l’allodola in un mattino di primavera, sentirsi in un’ansia di levitazione cosmica, leggero, come il flutto attratto dalla luna, udire nel cuore fervida l’ebbrezza sfrenata di vivere, e alfine stendermi sulla molle rena, fasciata di luce, inebriato d’azzurro, mentre su di me il sole, incorrottamente splendido, vegliava”. E nel suo diario l’anno successivo, la domenica 8 maggio del ’38, Caracciolo scrive: “Con Olivelli e Romussi in barca sul Ticino.

A dorso nudo ci inoltriamo sul sabbione, nel bosco vicino, a piedi scalzi, ci sdraiamo in un recesso verde. Tutto ciò sotto la guida instancabile di Olivelli. Capisco quanta vita ci sia in Olivelli. Egli deve godere quasi selvaggiamente la natura; vi trova sempre nuove risorse, apprezza tutto (l’acqua fangosa, il tuffare i piedi dentro, il correre a piedi nudi sull’erba, il senso di avventura nel bosco, etc.), un’infinità di cose che in genere non si godono. E sente anche il desiderio della lotta (come eruzione di una vitalità fisica). Ha sentito il bisogno di arrampicarsi quasi nudo su una pianta, scorticandosi un po’; visto un disco, ha voluto provarsi nel tiro al disco. Stamane mi confessava che egli non sente mai il senso della noia, che trova sempre qualche cosa da desiderare, a cui applicarsi. Ha però dei muscoli poderosi”. Questa descrizione, questa immagine presa dal vivo, è da contrapporre, direi, alla testimonianza di chi vide Teresio Olivelli negli ultimi giorni, con quel fisico nel quale si vedeva, come dice Caracciolo in un articolo del ’45, l’impronta dell’eletto. So che Caracciolo vent’anni fa, nel ’75, ricordando Teresio Olivelli lesse in questa sala la testimonianza di Augusto Cognasso, che così lo descrive: “Il 18 di novembre fummo separati di blocco e per alcun tempo non ne seppi più nulla. Lo rividi in dicembre, si era trasformato: negli occhi più grandi e più profondi brillava una luce di misticismo e di bontà. Il corpo era quello di uno scheletro ricoperto di piaghe e di ferite, pallidissimo, portava sulle spalle curve una vanga ed un piccone: lavorava al Comando Nellein (impresa che si occupava della sistemazione del campo). Mi abbracciò e mi baciò, mi disse di avere fede e speranza, che presto con la primavera sarebbero iniziate le offensive degli alleati. Era sicuro di ritornare? Egli mi dis-se di sì, ma gli vidi la morte dipinta sul viso”.

Ebbene questi giovani, Teresio Olivelli e Dietrich Bonhoeffer, riescono ad accettare pienamente la loro vitalità e a trovare un equilibrio nella loro ascesi cristiana: ecco un altro tema che mi pare importante in queste vite messe così a confronto. Esistenze vitali, dunque, esistenze “plastiche”. Adopero proprio questa espressione perché è quella con cui Hegel nella sua Logica ricorda all’inizio che Platone aveva immaginato di avere come uditori dei giovani e degli uomini “plastici”, che cioè veramente potessero recepire la sua parola e il suo messaggio. La “plasticità” di Teresio Olivelli e di Dietrich Bonhoeffer è qualcosa di veramente essenziale, secondo il detto evangelico. Chi vuole conquistare la propria anima, chi vuole conquistare la propria vita deve essere capace di lasciarla, di immolarla. Il buon pastore dice: io la mia vita, la do e la riprendo. Questa è la “plasticità” esercitata sulla vitalità. È la plasticità che rende Teresio Olivelli e Dietrich Bonhoeffer capaci di non restare attaccati ad una forma di vita che poteva essere quella per loro naturale; erano infatti entrambi dediti alla carriera accademica. Teresio Olivelli era assistente di diritto amministrativo all’università di Torino, e lascia la cattedra, come lascia anche la carica di direttore del collegio Ghislieri e si butta nell’attività resistenziale, nell’attività pratica. Lo stesso avviene per Dietrich Bonhoeffer. In una lettera ad un amico svizzero dice: “L’università ormai l’ho messa alle spalle, quello che mi interessa è la formazione di nuovi pastori, e quindi l’attività pastorale”. Splendido questo atteggiamento di scelta dell’attività politica e dell’attività pastorale, abbandonando quelli che potevano essere sogni comprensibilissimi. Ebbene Teresio Olivelli ha questa plasticità che è un elemento fondamentale, costitutivo della sua personalità.

Una frase di Teresio Olivelli, che per me è la più bella che abbia potuto scrivere, anche come espressione letteraria, è stata scritta dal campo di concentramento di Fossoli, il 7 agosto del ’44. È in una lettera alla madre, considerata il suo testamento, che egli comincia dicendo: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Ecco quindi la disponibilità alla volontà di Dio, perché come Hegel, come Platone cercano dei giovani “plastici”, la parola di Dio cerca delle nature “plastiche” per la realizzazione delle sue opere. Questa è la frase a cui mi riferivo: “Sugli abissi mi librò il Signore: dolcemente”. Ecco una vita che sentiva e sapeva di essere nelle mani di Dio. E continua con le parole di Paolo: “Ho consumato il mio corso, ho osservato la fede, ho combattuto la buona battaglia”. E poi ancora scriveva allo zio monsignore, parroco di Tremezzo [Udine 28 ottobre 1943]: “L’aratro è pungente, ma solo ove la ferita è profonda e sovvertitrice la messe è sicura. Agricoltura et agricolae Dei sumus. Nel dolore Dio espia e crea. Come nel caos primitivo, nello sconvolgimento delle istituzioni e dei cuori soffia lo spirito”. Evidentemente Teresio era rimasto fortemente impressionato dalla prima pagina della Genesi e dallo spirito di Dio che si libra sul caos primordiale. Ricordiamo il vitalismo che può essere dominato e che il vecchio Croce vede nella civiltà occidentale non più dominabile, non più dominato. Ecco il soffio dello spirito. È veramente sempre Pentecoste, come suona il titolo di un libro che raccoglie le lettere pastorali di padre Manziana. Questa è la grande eredità che viene da queste persone.

La legge dell’esistenza di giovani così plastici l’ha fissata una volta per tutte Dietrich Bonhoeffer nella splendida poesia del luglio del ’44 intitolata “Stazioni sulla via verso la libertà”. Le stazioni nella poesia sono quattro: Disciplina – Azione – Sofferenza – Morte. Disciplina e azione. È interessantissimo il concetto che qui svolge Bonhoeffer. Quando parla dell’azione dice: Fare ed osare non una cosa qualsiasi, ma il giusto non ondeggiare nelle possibilità, ma afferrare coraggiosamente il reale non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà. Proprio nella conclusione della biografia, Caracciolo ricorda che Teresio Olivelli non è stato l’uomo filosofo, l’uomo del dubbio, l’uomo che metodicamente deve tutto revocare in dubbio, tutto deve mettere sotto il dubbio. Ebbe un momento di crisi nella sua fede, ma troncò subito questo dubbio. Disse: “O tutto o niente”. Bisognava agire. Ed effettivamente queste sono persone dedite all’azione. Però, proprio perché sono dedite all’azione, capiscono anche qual è la legge della vera azione, dell’azione che porta alla libertà e dell’azione liberante; sono capaci di attraversare anche le altre due stazioni, la stazione della sofferenza e la stazione della morte. Sofferenza e morte come l’estrema azione, perché “agonia” vuole dire combattimento, vuol dire, quindi, azione imperata come l’estrema possibilità dell’azione.

Nella meditazione di Caracciolo c’è sempre questo tema in relazione a Teresio Olivelli, questo uomo dell’azione che si trova lì, nella situazione infernale del campo di concentramento, perché il lager è il simbolo del nichilismo, della sofferenza più alta, delle atrocità più grandi che vengono commesse contro la dignità umana. E proprio questa è la domanda del nichilismo: perché l’essere, piuttosto che il nulla assoluto? Perché c’è questa esistenza, perché ci siamo noi, se in questa esistenza sono possibili realtà tragiche come Auschwitz, come Dachau, come Hiroshima? Quando Teresio Olivelli, di fronte alla disgregazione del suo corpo e del corpo dei suoi compagni, si ripiega su di loro con la carità, aiutandoli ad affrontare il momento dell’estremo abbandono, che è l’estrema resistenza, Caracciolo ha sempre visto in questa agàpe, in questa testi-monianza ultima di quest’uomo di azione, qualche cosa di “disarmato”; Caracciolo non parlava di carità, non parlava di amore, diceva la bontà: il cristianesimo ha insegnato al mondo la civiltà della bontà. E la vedeva proprio incarnata in Teresio Olivelli come una delle massime espressioni di questo consenso cristiano all’esistenza, quando questo uomo che aveva visto proprio il suo fisico, por-tante l’impronta dell’eletto, così, distrutto, impotente, si ripiega però per dire l’estrema parola di bontà e di carità a coloro che gli sono compagni in questa notte, notte tenebrosa del nichilismo simboleggiato dal lager.

Questa è la risposta ai demoni, e non soltanto ai demoni di Dostoevskij, ma anche ai demoni che hanno manifestazioni simboliche nel nostro tempo, come quel gas nervino sprigionato nella metropolitana di Tokio, queste immagini apocalittiche, in una cifra se vogliamo. Ma è la bontà, la cosa più disarmata, che diventa l’azione più alta e l’azione più grande. Nella mente di Caracciolo, Teresio viene incontro, e non può non venire incontro a noi che stasera abbiamo iniziato questa nostra riunione con la recita della Preghiera del ribelle, come l’immagine della bontà cristiana, come risposta al nichilismo, all’assurdo, al non senso dell’esistenza. Come dicevo prima, per Caracciolo Dietrich Bonhoeffer è incarnato nella parola ultima del suo martirio, in particolare come viene fissato dalla testimonianza del medico del campo di Flossem-bürg. Caracciolo ha trascritto questo testo, che è molto noto, ma che vale la pena di rileggere: “Attraverso la porta semiaperta di una stanza delle baracche, vidi che il pastore Bonhoeffer, prima di svestire gli abiti da prigioniero, si inginocchiò in profonda preghiera col suo Signore. La preghiera così devota e fiduciosa di quell’uomo straordinariamente simpatico mi ha scosso profondamente. Anche al luogo del supplizio egli fece una breve preghiera, quindi salì coraggioso e rassegnato il patibolo. La morte giunse dopo pochi secondi. Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio”. Ricorda Dietrich Bonhoeffer nelle lettere scritte dal carcere: “Mi sono sorpreso di vedere che nes-suno ha mai pensato di scrivere delle preghiere per i carcerati e io mi sto cimentando in questo genere letterario”. E le lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer sono inframmezzate da preghiere che si esprimono tante volte nella forma della poesia. Teresio Olivelli non ha scritto solo la splendida “Preghiera del ribelle” che meriterebbe un commento analitico (che tuttavia, in fondo, non farebbe altro che profanare la sacralità di quelle parole), ma ha scritto anche un “Rosario per il popolo”, ancora da giovane studente, per il popolo di Tremezzo, immagino. E poi scriveva, sempre dal campo di concentramento di Fossoli, ai genitori, il 30 giugno del ’44: “Sono le 11: un Sacerdote legge la preghiera di tutti, un compagno canta con voce e col cuore l’Ave Maria. Silenzio. Nella notte assonnata il bisbigliare sommesso dei più tenaci lucignola via. Prego. Proteggi, Signore i miei cari, gli amici, i compagni di lotta, i nemici. Dà vita alla Tua Chiesa, al mondo la pace, all’Italia animi forti e generosi. Assisti il Ghislieri: per S. Pio. Inclina il mio cuore, o Signore, perché oda le parole del Tuo Cuore, mite e umile. Così sia”. In una lettera lui scrive una preghiera, quindi, evidentemente, per Teresio Olivelli esprimere questa sua vitalità, questa sua esistenza nella forma della preghiera era qualche cosa di naturale. Vorrei concludere questo confronto fra Teresio Olivelli e Dietrich Bonhoeffer ricordando Teresio Olivelli che assiste o che funge quasi da sacerdote nel campo di concentramento per la morte di un compagno. La testimonianza dice: “Olivelli aveva le lacrime agli occhi, ci disse: raccoglietevi e pregate miei cari amici. Quindi si avvicinò al letto del compagno morto. Nel silenzio grave di quell’umida baracca si levò alta e solenne la sua voce calda e commossa: – Signore Iddio, degnati di guardare questi poveri figli che ti pregano per l’anima del loro compagno che è caduto. Se questo è il tuo comandamento essi l’accettano rassegnati. Accogli Signore quest’anima perdonala se ha peccato. – Non disse altro, le parole che certamente dovevano seguire gli morirono in gola”. Teresio Olivelli, sacerdos mundi: nel momento del nichilismo, nel momento del confronto del senso della vita, dello spirito, con le tenebre della barbarie, diventa il sacerdote che raccoglie questo mondo, lo raccoglie nella invocazione, come sacerdote del mondo.

Testo, non rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 28.3.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.