La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Aleksandr Solzenicyn

Tematiche: Letteratura

Il secolo XX passerà alla storia come quello di Solzenicyn; presentatosi inizialmente come una semplice battuta di spirito1, questo giudizio si è andato sempre più accreditando via via che venivano portate alla luce le peculiarità dell’opera solzenicyniana2 e ha finito poi con l’essere consacrato da russisti di peso come Georges Nivat3, paradossalmente proprio dopo l’esilio forzato, quando la polemica contro lo scrittore sembrava essere diventata ormai obbligatoria4. Situazione paradossale perché, quanto più sembrava immerso e soffocato nella temporalità limitata delle polemiche, Solzenicyn ne usciva per vedersi elevare a criterio di misura della scansione temporale stessa. Che si condivida o meno quest’estensione sovratemporale del valore di Solzenicyn, che si condivida o meno il giudizio di eccezionalità e di paradigmaticità che viene così pronunciato sulla sua opera, resta che vi sono dei sintomi indiscutibili di quest’eccezionalità che devono comunque far riflettere. Ne indicheremo uno.

Prima di Solzenicyn, molti avevano denunciato la violenza anti – umana esercitata dal regime concentrazionario sovietico, ma nessuno era stato ascoltato5. Volendo individuare i motivi di questa mutata ricezione, si potrebbe sostenere che era mutato chi riceveva, e cioè l’occidente; ora, anche ammesso che questo mutamento sia avvenuto, resta il fatto che tale spiegazione non spiegherebbe ancora nulla in quanto rimarrebbe totalmente inesplorato proprio il perché del mutamento dell’occidente. In effetti, se si considera che in seguito l’occidente conservò un’irritante imperturbabilità di coscienza di fronte a fatti non meno gravi6 e a denunce altrettanto sconvolgenti – chi ha parlato più di tanto delle memorie di Anatolij Marcenko7? – è evidente che risulta per lo meno discutibile spiegare il tutto con una semplice serie di mutamenti successivi dell’occidente. Detto in altro modo: ammesso e non concesso che l’occidente che ha accolto le denunce di Solzenicyn fosse diverso da quello che aveva “banalizzato” un Kravcenko, fino a costringerlo alle vie legali8 perché quest’occidente ha fatto delle denunce di Solzenicyn una svolta epocale e ha passato sotto silenzio, pressoché ignorato, le denunce non meno impressionanti di altri? Il problema dell’eccezionalità di Solzenicyn diventa ineludibile.

Secondo Nivat, quest’eccezionalità dipende per un verso dalla presenza di “un nuovo modo di vedere l’umanità” e di “un nuovo giudizio”, e per un altro verso dall’arte di Solzenicyn, senza di cui non vi sarebbe stato né questo “sguardo” né questo “grido essenziale”9. E’ da questa novità che dipende, secondo Nivat, la diversità dell’opera di Solzenicyn, non solo da ogni altra sorta di denuncia (dei campi sovietici ma anche di quelli nazisti)10, ma pure da ogni altra opera letteraria sui campi (anche qui, senza distinzione tra campi sovietici e nazisti)11. Volendo esplicitare da parte nostra questa novità, potremmo cominciare col formularla così: Solzenicyn riscopre l’anima come presenza nell’uomo di un nucleo irriducibile ed integrale di umanità, primo elemento di novità, questa riscoperta di qualcosa di irriducibile, dopo che tutta la cultura moderna si era esercitata a mettere in luce invece la riducibilità dell’uomo a certi suoi elementi singoli; questa riscoperta avviene poi in regime di totalitarismo compiuto – è il secondo elemento di novità perché mai, prima del regime sovietico, era stata affermata e realizzata (in teoria e in pratica, e viceversa) una spoliazione così radicale e totale dell’umanità: l’uomo non viene qui ridotto a certi suoi fattori ma semplicemente è spogliato di sé, non gli resta qualche elemento suo sul quale fare forza per affermarsi dopo riduzioni parziali, ma tutto gli è semplicemente sottratto, non è ridotto a qualcosa, ma più radicalmente é ridotto a nulla, non resta qui un uomo razionale, un uomo biologico o razionale, un uomo di desiderio o di pulsioni e neppure un uomo sociale o generico ma semplicemente scompare la realtà “uomo” in quanto tale, sostituita dalla surrealtà: lo stato totalitario assorbe in sé ed annulla la società civile ma per fare questo, prima, annulla la persona umana. Il tema della surrealtá è decisivo, e meriterebbe già qui ben più di un inciso: non si tratta di una lotta tra ideali (diverse idee di uomo), ma delle lotta tra la realtà infinita dell’uomo e un’idea della realtà che pretende però di costituire lei stessa, e da sola, il reale nella sua totalità – surrealtà, appunto. “Al posto dell’unità subentra la fredda costruzione razionalistica di un piano dell’intero che bisogna realizzare a dispetto delle masse (…) che bisogna realizzare con la violenza”12, aveva detto Askol’dov in un testo del 1918 che anticipava così profeticamente l’idea di “piano” e quella di una surrealtà più reale della realtà13. Questa riscoperta dell’anima, da ultimo – ed è il terzo elemento di novità – è trasmessa per via artistica, cioè attraverso un mezzo che fa dell’incarnazione della realtà nella sua irriducibilità la propria ragion d’essere.

  1. Il risveglio dell’anima

L’idea della riscoperta dell’anima come nucleo centrale della propria produzione artistica appare molto presto in Solzenicyn, fin dalle sue prime opere, quando egli fa dire ad uno dei suoi personaggi: “Così vorrei dare una mano anch’io a portare fin là una staffetta. La luce ancora accesa della nostra anima. (…) E nel XXI secolo ne facciano ciò che vogliono. Basta che non si spenga nel nostro secolo”14. Quasi si ha paura e vergogna di parlarne; e certo è “imbarazzante”15 evocarla nel secolo dei campi, dove sembra regnare soltanto il suo soffocamento e dove al massimo essa può apparire come un “senso facoltativo”16.

Comunque sia, per i “benpensanti” di tutte le ideologie, pare assodato che essa sia un senso inoffensivo perché per loro non esiste “nessuna morale interiore. E se anche ci fosse non vi sarebbe una forza capace di farcene tener conto!”17. Eppure, nonostante tutto, questa realtà, improvvisa ed inattesa, appare: “nella nostra vita quotidiana, aperta, ragionevole, ove non c’è posto per nulla di misterioso, all’improvviso esso balena e ci dice: sono qui! non dimenticarlo!”18. “Complessa” ed “incomprensibile” come solo gli uomini sanno essere19, capace di rendere tutto “incommensurabilmente più complicato di quanto si poteva scrivere sui giornali”20, l’anima fa capolino e ciascuno di noi può dire: “a volte sento con chiarezza che in me non tutto sono io. C’è qualcosa di indistruttibile, di altissimo! Un frammento dello Spirito universale. Lei non lo sente?”21. Non è certo una sensazione di tutti i giorni, e una volta provatala non è qualcosa che possa essere mantenuto senza fatica alcuna, ma richiede piuttosto tutti i nostri sforzi, perché “noi siamo chiamati soprattutto a perfezionare l’assetto della nostra anima”22. A dispetto di tante opinioni contrarie, Solzenicyn, in realtà non è certo un manicheo, e sa che questa coscienza “facoltativa” non è un privilegio di chissà quali eletti né preserva di per sé da ogni caduta anteriore o successiva: “Se fosse così semplice! Se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore? Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta, ora sospinta dal gioioso male, ora liberando il posto per il bene che fiorisce. Il medesimo uomo diventa, in età differenti, in differenti situazioni, completamente un’altra persona. Ora è vicino al diavolo, ora al santo. Ma il suo nome non cambia e noi gli ascriviamo tutto (…).

Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri avversari: è puro caso se il boia non siamo noi ma loro (…). Dal bene al male è un passo solo, dice un proverbio russo. Dunque anche dal male al bene”23. Eppure, e forse proprio grazie a questa sua eccedenza rispetto a quello che viene dal nostro io, la coscienza, l’anima, si rivela come un dato del nostro essere: un dato-dono cioè qualcosa che non è prodotto dal nostro essere ma che investe il nostro essere dall’istante in cui esso è, così da definirlo, da giudicarlo e da produrne il dinamismo stesso: “Ogni persona ha un periodo particolare della vita in cui s’è manifestata in modo più pieno, in cui ha sentito in modo più profondo e s’è espressa per intero a sé e agli altri. E qualsiasi cosa accada in seguito, anche d’esteriormente importante, ormai si tratta soltanto di un decadimento: noi ricordiamo, ci esaltiamo, suoniamo e cantiamo su molti diversi toni ciò che è risuonato soltanto una volta nella nostra anima”24; ciò che rende “buono”25, “intatto” e “tranquillo”26 anche nella morte il nostro volto, ciò che rende ciascuno di noi “il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”27; ciò che impedisce alla gente di “chinarsi su quattro gambe” e la strappa alla cattiva solitudine dell’io, così che “dovunque tu vagabondi nella campagna e fra i prati, lontano da ogni luogo abitato, non sei mai solo: al di sopra della muraglia dei boschi, dei covoni e della stessa circolarità terrestre, sempre ti adesca la cupola di un piccolo campanile”28. E in questa nuova comunione generata nella bellezza dell’anima ritrovata, l’uomo recupera non solo se stesso e i suoi simili ma la natura stessa, nel suo stato verginale e purissimo dell’alba della creazione, quella natura che, per colmo di paradosso, è cantata da Solzenicyn all’inizio dei secondo volume dell’Arcipelago, là dove si narra dello Solovki, il “tumore madre”29 della metastasi concentrazionaria e delle devastazioni da essa impresse sul volto dell’uomo e della natura stessa”30.

Isole purissime dove sembrava “non esservi peccato. (…) Senza di noi (…) sorsero dal mare, senza di noi si coprirono di duecento laghi pescosi, senza di noi si popolarono di urogalli, lepri, renne, mentre non furono mai volpi, lupi o altri predatori. I ghiacciai andavano e venivano, massi di granito si accumulavano intorno ai laghi che gelavano durante la notte invernale; il mare ruggiva nel vento e si copriva di una poltiglia di ghiaccio che si rapprendeva qua e là; mezzo cielo ardeva di aurore boreali; tornava la luce, tornava il tepore, crescevano e ingrossavano gli abeti, schiamazzavano gli uccelli lanciando richiami, buccinavano i giovani maschi delle renne, il pianeta girava con tutta la storia mondiale, regni nascevano o decadevano, mentre là continuavano a non esserci né animali rapaci né l’uomo (…). Mezzo secolo dopo la battaglia di Kulikovo e mezzo millennio prima della Ghepeu, i monaci Savvatij e German attraversarono il mare di madreperla su una fragile barchetta e ritennero santa l’isola priva di animali rapaci. Con essi ebbe inizio il monastero di Solovki”31. La storia, poi, continuò il lavoro dei santi monaci sull’isola santa fece sì che la terra di Solovki risultasse “non solo santa ma ricca, capace di nutrire molte migliaia di abitanti”32; vennero quindi i primi attentati, il monastero e i suoi monaci “irragionevoli” dovettero fare i conti con le pretese del potere e non riuscirono ad evitarne i danni33, anche se ciò non impedì che su quelle isole continuassero a nascere dei santi, come il monaco Iova che nel 1712 predisse le tragedie che sarebbero avvenute più tardi34: dopo la rivoluzione, infatti, il monastero fu sostituito dal lager. E qui, dopo il paradosso della natura verginale cantata dall’inferno delle Solovki e nella sua luce, Solzenicyn continua con un altro paradosso: le isole produssero altri santi, diversi, ma sempre capaci di cogliere la santità della natura, il suo volto di icona “non creati da mano umana nel mondo di queste cose fatte dall’uomo”35. E’ il caso di quel condannato a morte che, sulle rive del Lago Santo delle Solovki, non volendo amareggiare la moglie che gli faceva visita per l’ultima volta, seppe nasconderle la propria condanna mostrandole un volto “rasserenato”36, iconico. E il paradosso si moltiplica, raddoppia i suoi piani quando, per ricordare gli esordi dell’Arcipelago per precisare che esso iniziò con la rivoluzione stessa, con le cannonate dell’incrociatore Aurora la notte del 7 novembre 1917 – Solzenicyn ironizza sull’incanto bucolico, oltre che sulla mitologia rivoluzionaria: “Eos dalle rosee dita, ricordata così spesso da Omero e chiamata Aurora dai romani, accarezzò anche il primo precoce mattino dell’Arcipelago”37. Ironia quasi blasfema, su due piani, fors’anche su tre, quattro, visti che vi sono coinvolti pure Omero e i romani; eppure, se a dispetto di tutte le sferzate dei mattini successivi la rosea Eos ha continuato ad “accarezzare”, e se a dispetto di tutto si può continuare a riderne, ciò significa che è rimasto l’uomo – l’uomo è un essere capace di riso, aveva ribadito più volte Solovév – significa che l’anima “continuò a pulsare in calde vene invisibili, a pulsare, pulsare, pulsare sempre” continuò a far sì che noi potessimo dimenticarci “d’aver paura dei fulmini, dei tuoni e della pioggia torrenziale, come una goccia del mare che non teme nulla dell’uragano”39.          L’anima, dunque, nucleo irriducibile di umanità: unità di noi stessi e del nostro agire nel modo d’essere fonte di responsabilità, unità con gli altri esseri sino al punto di fare della nostra apparente inutilità l’assise del vivere civile (il villaggio, la città e la terra nostra della Casa di Matrjona), unità con la natura così ritrovata nella sua purezza battesimale. Per chi abbia anche solo un poco di dimestichezza con la tradizione cristiana di cui Solzenicyn è figlio, sarà del tutto evidente che la fonte di queste unità è ciò che questo mondo esplicita con la dottrina della creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio: è l’immagine di Dio presente in ogni uomo a renderlo irriducibile e capace di unità in un mondo dove tutto appare fonte di divisione. A ciò del resto ci portavano indirettamente le chiese e i santi (i “somigliantissimi”, secondo un antico termine russo) evocati prima da Solzenicyn; a ciò soprattutto siamo portati da altri testi, quelli in cui lo scrittore russo parla esplicitamente di una “immagine dell’eternità, riposta in ognuno”40: é “l’Immagine della Perfezione”41 che ciascuno porta in sé senza esserne il padrone, ma riconoscendola come un dato, un dono, che lo costituisce e, al di fuori di ogni presa di possesso tentata da lui o da altri, lo rende irriducibile. Altro paradosso, antico: nella rinuncia ad essere padroni di sé, perdendosi, ci si ritrovo. Rinuncia: “non sono io a ideare e attuare tutto, io sono soltanto una spada ben affilata contro le forze del maligno, stregata per farle e pezzi e disperderle”42. Potenza del ritrovarsi: “Sin dalla nascita nell’uomo viene immessa una certa Essenza! E’ come il nucleo dell’uomo, è il suo Io! E ancora non si sa che cos’è che formi: se la vita l’uomo o un uomo forte di spirito la vita! Perché…perché l’uomo ha con che cosa paragonarsi. Ha dove voltarsi a guardare. Perché in lui c’è l’Immagine del          la Perfezione, che in rari istanti tutt’a un tratto emerge. Emerge allo sguardo dello Spirito”43. Paradosso antico, ma novità sconvolgente per il nostro secolo, se è vero quello che diceva un altro russo e cioè che      “dal secolo XV in poi l’immagine di Dio non trova più posto in filosofia” e successivamente finirà per perderlo anche nella coscienza morale e, in un certo senso, persino in quella teologica44. Novità, del resto, di cui si rende perfettamente conto lo stesso Solzenicyn ogniqualvolta denuncia il male delle nostre società come l’esito dello smarrimento della “componente divina della nostra coscienza”45. Ed è uno smarrimento comune, questo, sia all’est con “il bazar del Partit”, sia al l’ovest con “la fiera del commercio”46; è infatti evidente per Solzenicyn che vi sono delle “parentele inaspettate” delle “pietre comuni” che legano strettamente “l’umanesimo antropocentrico” del Rinasci     mento occidentale all'”umanesimo naturalizzato” di Marx: “materialismo senza limiti; libertà dalla religione e dalla responsabilità religiosa (portata, sotto il comunismo, fino alla dittatura antireligiosa); concen     trazione di ogni energia sulla. costruzione sociale e apparenza scientifica della cosa (i ‘lumi’ del XVIII secolo e il marxismo)”47. E’ allora del tutto naturale il processo che dal liberalismo ha portato al radicalismo, da      questo al socialismo e da questo ancora al comunismo, così naturale che “se il sistema comunista ha potuto resistere e rafforzarsi nell’est e precisamente per l’accanito e massiccio sostegno dell’intellettualità occidentale (sensibile ai legami di parentela)”48.

  1. Sia benedetta la prigione

Le parentele non devono tuttavia far dimenticare le differenze anche essenziali, la differenza che fa dell’Unione Sovietica “un fenomeno prima sconosciuto all’umanità”49 e che costituisce il secondo aspetto della novità che stiamo esaminando: il totalitarismo. Non si vuol dire ovviamente con questo che tale aspetto del regime sovietico si sarebbe formato solo al tempo di Solzenicyn – da questo punto di vista, anzi, non si é avuta, dagli inizi e sino ad oggi, alcuna mutazione genetica del sistema – ma piuttosto che esso è venuto chiaramente alla luce ed è stato messo a tema in maniera significativa solo negli ultimi tempi; prima, per quelle parentele che Solzenicyn stesso ricorda, la sua denuncia o veniva censurata, o restava l’intuizione isolata di qualche spirito acuto (si pensi ad Orwell) troppo osannato per venir preso sul serio, o veniva coinvolta e depotenziata in uno sterile anticomunismo.

Se la riscoperta dell’anima è un fenomeno nuovo, altrettanto nuove sono le condizioni in cui tale riscoperta avviene; infatti, come dice Solzenicyn saldando lui stesso i due problemi, “ciò che differenzia nettamente il nostro sistema da quelli che l’hanno preceduto è che, oltre alle costrizioni fisiche ed economiche, esso esige da noi una completa resa dell’anima50. Se Cristo aveva suggerito di dare a Cesare quel che è di Cesare, non era certo perché ogni Cesare ne fosse degno, continua, Solzenicyn, “ma perché Cesare non si occupa di ciò che è veramente essenziale della nostra vita”; ora, invece, la caratteristica nuova del regime totalitario è che “Cesare, dopo essersi preso tutto quanto compete a Cesare, comincia subito con insistenza ancora maggiore, a esigere da noi quanto spetta a Dio”. Neppure l’arte, che pure come vedremo ha per Solzenicyn capacità di intuizioni portentose, era riuscita a prevedere le violenze del nostro secolo, e questo per il semplice fatto che non aveva intuito la possibilità dell’ideologia: “la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia”51. Dopo aver dato una rapida risposta perfettamente ortodossa al problema “di che cosa vivono gli uomini?”, il “benpensante” Rusanov di Reparto C, campione dell’ideologia, ripresa la sua coscia di pollo, dalla quale non si era per altro mai separato, “staccò con un morso la morbida cartilagine della giuntura. Dopo di che, eccetto la pelle ruvida della zampa e qualche tendine penzolante, sugli ossi non restò più niente. Li posò sopra un pezzo di carta sul comodino”52: l’ideologia totalitaria è tutta in questo simbolo, non una semplice riduzione dell’uomo ad uno dei suoi elementi, ma come si diceva, la riduzione dell’uomo a nulla di ciò che è reperibile nella realtà – foss’anche una realtà parzializzata; e poiché non esiste nulla al di fuori della realtà, l’uomo è semplicemente annullato.

Neppure il nazismo era giunto a tanto, e non perché un banale ed indecoroso computo delle vittime darebbe il rimato al regime sovietico, ma perché l’uomo sovietico viene privato anche di quelle determinazioni naturali che l’ideologia nazista pure continuava a rivendicare per l’uomo tedesco, così che se il popolo tedesco poteva trovare il proprio nemico fuori di sé, nell’ebreo, quello sovietico è costretto a trovarlo, meglio, a crearlo al proprio interno53: “per la prima volta nella storia un popolo è diventato nemico di se stesso54.

Da questa situazione nasce il paradosso più sconvolgente e più ripetuto: sia benedetta la prigione55, “devi essere contento di essere in prigione! Qui, hai tutto il tempo per pensare all’anima”56. Là dove l’uomo è ridotto a nulla, misteriosamente rinasce; là dove tutto gli è tolto, là dove non si può più fare illusioni su qualche ancora di salvezza cui pure potrebbe residuamente aggrapparsi – i residui delle varie riduzioni: razionalista, biologica, sociale, ecc. – l’uomo scopre di esserci ancora e di essere infinitamente al di là di ogni presa di potere: “In genere, cercate di capire e riferire a chi di dovere pile in alto, che voi siete forti soltanto nella misura in cui non togliete agli uomini tutto. Ma un uomo a cui avete tolto tutto non è più in vostro potere, è di nuovo libero”57. Prima di questa riduzione totale l’uomo è ancora troppo legato al prestigio incantatore, all'”attrattiva”58 delle sue riduzioni parziali dell’umanità: può ancora riporre la sua dignità nella forza della ragione, della natura, della società e per restare padrone di questa forza è disposto ad esercitare ogni violenza o ad accettare ogni compromesso; comunque sia, schiavo o padrone, resta sempre in balia della relatività dell’avere e lontano dall’infinito dell’essere.

Non c’è da meravigliarsi a questo punto se Solzenicyn sottolinea con particolare insistenza che tale “processo di liberazione dell’anima umana” è un privilegio quasi esclusivo dei paesi soggetti al totalitarismo sovietico, dove le giovani generazioni “non si lasciano tentare da poco scrupolosi compromessi ma preferiscono piuttosto perdere ogni cosa”59. Ne c’è da meravigliarsi se, all’interno del mondo totalitario stesso, il primato nella riscoperta dell’anima spetta evidentemente all’Arcipelago in quanto tale: sia benedetta la prigione perché fuori di essa restano solo “tiranni o traditori” e là dove sembra regnare la libertà trionfa invece la schiavitù. I non reclusi, in Solzenicyn, sono paradossalmente i meno liberi; nessuno di loro è al sicuro dai ricatti che il potere può esercitare, e questo per il semplice fatto che ancora conservano qualcosa, un avere che può venir loro tolto: padroni dei loro beni sono in realtà schiavi; pingui e pieni dei loro averi sono in realtà esseri esigui e fragili che necessariamente soccombono e si inchinano alla mentalità dominante. Può resistere solo chi ha “un PUNTO DI VISTA proprio”61 e chi, grazie ad esso, acquista la “pace” dell’anima, quell'”intemeratezza degli uomini che hanno perduto tutto sino in fondo, l’intemeratezza che si conquista difficilmente ma solidamente”62. In effetti, dice Solzenicyn, “chi ‘tiene alla vita’ eccessivamente non tiene mai particolarmente allo spirito”63 e, perdendo lo spirito di fortezza, perde anche quello sguardo dello spirito che costituisce l’unica dimensione in cui possono rivelarsi l’anima e l’umana dignità, l’unica dimensione che facendoci riscoprire l’anima ci dà la salvezza, secondo quella che è la legge dei campi: “ecco chi crepa in un campo: chi lecca le scodelle, chi fa la corte all’infermeria, chi spiffera al compare”64.

La condizione per la riscoperta dell’anima è data dunque dall’aver perduto tutto o dall’aver saputo rinunciare a tutto: è per questo che l’occidente è svantaggiato. Ciò che in apparenza sembra garantirgli un vantaggio – il suo benessere e la sua libertà – in realtà rende più difficile il suo cammino spirituale, allontanandolo ancor più dall’essenziale, dal quale lo allontana già di per sé la concezione dell’uomo tipica del mondo moderno. Questo mondo è, costituito in effetti dalla dimenticanza dell’origine assoluta e divina della dignità umana che così, privata della sua sanzione assoluta, diventa l’esito relativo di una mera convenzione – alcuni diritti il cui unico fondamento è quello di essere pattuiti – e si mantiene finché resta ciò su cui si reggono tutte le convenzioni: la forza65. Questa dimenticanza, per un verso è legata all’oblio della dimensione creaturale dell’uomo che riceve la sua umanità dall’alto, come un dono gratuito (creazione)66 nel quale è inscritto sin dall’inizio il sacrificio dell’Agnello immolato sin dalla fondazione del mondo e per un altro verso implica l’oblio della vocazione dell’uomo ad un’ascesa ascetica e sacrificale verso l’alto, per uscire da questa terra, migliore di come vi è entrato67 e per rispondere così a quel Dio che “si é fatto uomo in Cristo perché l’uomo potesse diventare Dio”.

Se queste sono le strutture portanti del mondo moderno, se già di per sé l’idea di creaturalità (che fonda la dignità assoluta dell’uomo in quanto figlio di Dio e sua immagine) e quella di ascesa sacrificale (che riporta l’uomo verso la sua origine assoluta) sono così ostiche, e ovvio che lo saranno ancor di più per l’occidente. Il suo benessere infatti lo allontana ancor di più dalla possibilità di concepire l’idea di sacrificio: “per ricordarsi del numero del colletto, bisogna dimenticare qualche cosa! Qualche cosa di più importante!”68; e la distanza da questo qualcosa di importante, dalle origini assolute ed irriducibili dell’umano, è poi ulteriormente acuita dalla libertà dell’occidente, una libertà che si rifiuta di concepire anche solo l’idea di qualcosa di superiore cui l’uomo debba rispondere e nel cui nome debba eventualmente sacrificarsi se vuole veramente essere se stesso. Si dovrà osservare per inciso che non v’è qui alcuna vocazione per così dire “masochista” al sacrificio; semplicemente si constata che il benessere o, meglio, il suo mito non aiuta a conservare quel coraggio e quella fermezza che, soli, ci danno la possibilità di arrestare certe cadute prima che diventino irreparabili, quel coraggio e quella fermezza che, arrestando il male sul nascere, ci consentirebbero di “sacrificarci un po’ meno”, ciò che “evidentemente sarebbe meglio”69. Più radicalmente, e Solzenicyn lo dice in maniera esplicita, “la cosa terribile non è che l’occidente goda di un benessere di massa che ha portato alla decadenza dei costumi. Ma che la decadenza dei costumi abbia portato gli uomini a sentirsi completamente appagati dalla loro abbondanza materiale”70. Allo stesso modo, non v’è alcuna negazione o svalutazione della libertà esteriore, semplicemente si ricorda che se “essa è infinitamente auspicabile per un nostro sviluppo armonico” lo è “solo in quanto mezzo” e non certo come scopo, così come non può essere uno scopo, in questo senso per lo meno neppure la libertà essenziale, quella interiore, che infatti ci è già data “con la nascita”71. In entrambi i casi, benessere e libertà sono criticati non in quanto tali ma in quanto mitizzati, in quanto rivelano cioè un male più profondo ed essenziale e gli consentono di regnare indisturbato. L’alternativa proposta da Solzenicyn non è un estrinseco ritorno alla povertà e all’autoritarismo dei tempi andati ma il recupero della dimensione interiore del sacrificio e del dovere di abnegazione: “Dopo l’ideale occidentale di una libertà illimitata, dopo la concezione marxista della libertà come giogo necessario e accettato, ecco la definizione cristiana della libertà: la libertà è la RESTRIZIONE DI SE’! La restrizione di se stessi in favore e per amore degli altri! Questo principio (…) ci distoglierebbe tutti (…) dallo sviluppo esterno per quello interiore inducendoci per ciò stesso a un approfondimento spirituale”72.

E’ dunque ovvia in tutto questo percorso la dimensione sacrificale e kenotica della riscoperta dell’anima. La stessa vita di Solzenicyn è stata segnata da una serie di prove – la guerra, il lager e il cancro – che hanno costituito una vera e propria kenosi, uno svuotamento73; e come precisa lui stesso, “è proprio dal giorno in cui io mi calai consapevolmente sul fondo e lo sentii solidamente sotto i piedi – questo suolo comune, solido, duro come la selce -, che iniziarono gli anni più importanti della mia vita, quelli che hanno formato i tratti definitivi del mio carattere. Ancora adesso (…) resto fedele alle concezioni, e alle abitudini acquisite laggiù74. Ma deve ora apparire evidente che questa dimensione sacrificale della riscoperta dell’anima è propriamente eucaristica: il sacrificio e lo svuotamento si fanno offerta, azione di grazia, donazione di vita, come per Matrjona che, “non compresa e abbandonata persino dal marito, estranea alle sorelle e alle cognate, ridicola, pronta a lavorare stupidamente per gli altri senza compenso, (…) aveva sepolto i sei figli ma non l’indole sua socievole”75 e così aveva dato esistenza, solidità e vita al mondo. Dimensione eucaristica che é ancor più evidente quando Solzenicyn evoca quelli che “furono i soli, forse, a non accettare la filosofia del lager”76, nel senso che “morivano, sì, ma non si corrompevano”77: “Erano muti. Più muti di tutti gli altri. I pesci sono il loro simbolo. I pesci, emblema degli antichi cristiani. Il nucleo principale era costituito di cristiani”78. Erano muti, certo, ma furono luce, una luce quasi invisibile che pure ridiede vita e speranza almeno a chi le era “vicinissimo”; come spiegare altrimenti “che certe persone instabili si rivolsero alla fede proprio nel lager, divennero forti grazie ad essa e sopravvissero senza corruzione”79. Da più parti del resto è stata notata la centralità che ha in Solzenicyn un tema propriamente eucaristico come quello del Graal80, tema che costituisce il centro del Primo cerchio che, a sua volta, è appunto il grande affresco della riscoperta dell’anima che avviene attorno ad una mensa natalizia, (ancora il sacrificio eucaristico dal quale nasce la vita), mensa imbandita in una prigione e contrapposta alle mense dell’assurdo imbandite dai liberi.

 L’anima e l’arte

Né dovrà sfuggire a questo punto che il personaggio attraverso il quale questo simbolo eucaristico entra nel romanzo è un artista, il pittore Ippolit Michajlovic Kondrasev-Ivanov; in un certo senso, così, è l’arte stessa ad assumere in Solzenicyn una valenza quasi sacramentale e salvifica, come conferma Kondrasév-Ivanov parlando dei poteri dell’arte: “E se, guardando il mio modello, vi discerno delle possibilità spirituali superiori a quelle che ha rivelato sino a quel momento nella sua vita, perché non dovrei osare raffigurarle? Aiutare questa persona a trovare se stessa e a elevarsi?”81. E al rimprovero per cui questo non sarebbe altro che un mero realismo socialista, l’artista – uomo purissimo contro il quale non “ci si poteva adirare”82 – risponde poi con un serafico: “Perché dovrei sminuire la sua anima? (…) Vi dirò di più: non soltanto il fare un ritratto, ma ogni comunicazione fra le persone forse è importante innanzitutto per questo scopo: ciò che uno vede e designa in un altro, in quest’altro viene suscitato alla vita! E’ così!”83. Come si diceva all’inizio, è veramente attraverso l’arte che l’anima viene reintrodotta nel mondo.

Non si può parlare di quest’aspetto dell’arte di Solzenicyn – terzo elemento della novità che stiamo trattando – senza accennare alle somiglianze impressionanti che la legano alla concezione estetica di Vladimir Sergeevic Solov’év, il padre della filosofia religiosa russa. Il nome e la filosofia di Solov’év, del resto, attraversano come un punto di riferimento costante tutta l’opera di Solzenicyn, da Reparto C84 all’Arcipelago85, e sono evidenti nella loro centralità in tutto il discorso per il premio Nobel; all’idea solovieviana di unitotalità, ed all’unità che essa implica tra il destino di santificazione dell’uomo e quello di trasfigurazione della natura, è sicuramente legato il modo in cui Solzenicyn concepisce la verginità della natura. Ma la somiglianza si fa clamorosa proprio nella questione dell’arte; basti confrontare le affermazioni del pittore del Primo cerchio con i passi in cui Solov’év sostiene che l’arte “deve portare a un miglioramento effettivo della realtà”86 e consiste propriamente nella “rappresentazione sensibile di qualsiasi oggetto o fenomeno dal punto di vista dei suo stato definitivo, ossia alla luce del mondo futuro”87. Allo stesso modo, propriamente a Solov’év e non ad altri è da riferire il tema della triade di Vero, Buono e Bello che è presente nel discorso per il Nobel e che guida tutta l’opera di Solzenicyn, intesa come realizzazione, nella Bellezza, della “forma sensibile del bene e della verità”88, per usare un’espressione che è, appunto, di Solov’év89.

L’arte, per Solzenicyn, ha effettivamente, come per Solov’év, una funzione propriamente teurgica; ed é questa funzione che va compresa per cogliere fino in fondo la novità di cui stiamo trattando: ossessionato dalla restaurazione del reale, dal compito di ricostruire la memoria storica della verità dopo le sovrapposizioni omicide della surrealtà. Solzenicyn cerca un vedere propriamente datore di vita perché “se la parola non tratta di cose reali e non ne suscita, a che serve?”90.

Ma non ogni vedere è capace di adempiere a tale funzione, lo è solo quello che è rinato dopo la perdita e la rinuncia, poiché al di fuori della spoliazione tutto è solo apparato, finzione, menzogna, surrealtá. Solo dopo la morte il convalescente che è passato attraverso di essa può vedere; è solo allora infatti che le cose non sono più la surrealtà che allontana dall’unica terra solida dell’anima, non sono più le cure e le illusioni mondane che fanno schiavo l’uomo ma le cose che, viste dall’anima, riacquistano il loro senso e la loro realtà. C’è, in questo senso, una scena molto significativa in Reparto C, quella del bacio tra Zoja, l’infermiera e Kostoglotov, il malato: in questo bacio, i due, resi ciechi da una passione non ancora denudata, dimenticano e non vedono più un malato cui l’infermiera doveva invece accudire e al quale Kostoglotov doveva invece sentirsi legato almeno per la solidarietà nella comune malattia. Continuando a baciare l’infermiera, Kostoglotov ad un certo punto apre gli occhi “e vide vicino vicino, incredibilmente vicino, di sbieco, i suoi occhi castano chiari, che gli sembrarono rapaci. Con un occhio vedeva un occhio di lei, e con l’altro quell’altro. Lei continuava a baciarlo con le labbra risolutamente tese, esperte, schiuse, senza incresparle, e si dondolava appena e continuava a guardarlo senza interruzione, come se volesse verificare nei suoi occhi cosa accadeva dentro di lui dopo un’eternità, e dopo la seconda e dopo la terza”91. Un bacio di grande maestria, da “artista”, uno sguardo rapace per una passione che non è ancora passata al vaglio della vita spirituale, così da poter diventare una via d’accesso alla vita veramente eterna, quella che non è fatta della successione di piccole eternità; e in questo sguardo rapace ci si dimentica della realtà, che qui è quella di un malato, un malato che rischia di morirne. Oleg dovrà attendere la liberazione dal mito della carne per poter guardare alle cose senza più essere costretto a dimenticare la realtà: e a quel punto “là dove c’è il cuore o là dove c’è l’anima insomma, nel punto essenziale del petto provò una stretta”92.

Diverso da questo sguardo rapace è il vedere di Solzenicyn, dei convalescente dalla guerra, dal campo e dal cancro; è sì uno sguardo ugualmente indagatore93, perché la preparazione degli strumenti e dei materiali da ricercatore necessari alla stesura delle sue opere rivela una meticolosità da ricercatore scientifico che sottopone al microscopio non l’infinitamente piccolo della natura ma l’infinitamente grande della storia: i personaggi, il loro carattere, le loro opere, il loro modo di scrivere, di parlare e di pensare, il loro ambiente, le città e la loro topografia, gli avvenimenti e le loro pieghe, tutto insomma. E però, l’esito di questo sguardo è radicalmente diverso: non è la rapace scoperta di un nuovo sapere “scientifico” (ideologico) che credendo di possedere le leggi del reale inaridisce ed appiattisce la complessità e le potenzialità della vita. Come si diceva all’inizio, lo scontro tra Solzenicyn e il regime non é lo scontro di diverse idee sull’uomo ma lo scontro tra la realtà infinita dell’uomo e un’idea sull’uomo che si pone come unica realtà, la surrealtà totalitaria; l’esito del vedere di Solzenicyn non è dunque la scoperta di un’altra idea, la riscoperta di qualcosa del reale che era stato dimenticato e che andrebbe sommato al resto per dare una nuova totalità; l’esito del vedere di Solzenicyn è piuttosto la riscoperta di quella realtà ultima ed essenziale che è strutturalmente inesauribile ed irriducibile e rende tale l’uomo. Ed è qui che si capisce fino in fondo la radicalità della riscoperta dell’anima in un mondo totalitario: là dove all’uomo è tolto tutto, là dove l’uomo non è più nulla dei singoli elementi del reale, proprio là l’uomo non può più chiudersi che la sua umanità venga dalla riscoperta di un’altra parte, dall’aggiunta di una nuova parte, ma è quasi costretto a riscoprire che ciò per cui ancora vive è al di là di ogni divisione in parti e di ogni somma, è quell’infinito inesauribile per cui “di rado nella vita riusciamo a conoscere una persona in una volta sola e mai fino in fondo!94. Nuovo sguardo nel quale si rivela “tutta la verità, senza parole”95 cioè senza nuove ideologie perché, ripetiamolo, questo tutto della verità non è l’esito di una somma, di un nuovo sapere ideologico.

La meticolosità con cui Solzenicyn esplora gli infiniti aspetti di un particolare non lo porta in effetti a trattare tutti i particolari; nella sua ricostruzione della memoria storica della Russia, egli sceglie solo alcuni particolari, certi momenti cruciali, quelli che lui chiama “nodi”.

Senza pretendere una totalità impossibile, Solzenicyn si concentra su periodi molto brevi, pochissimi giorni: un punto che gli permette di descrivere “tutta la curva”96, un punto attraverso il quale passa non la banale totalità dei piani ma un’infinità di piani. E, si badi, questa scelta non è dettata soltanto dal fatto che i documenti e le testimonianze sono ormai irraggiungibili nella loro totalità97 o dalla coscienza che il tempo e le forze potrebbero non bastargli98; tutto ciò è vero ma non è l’essenziale; l’essenziale sta proprio nell’idea di arte che guida Solzenicyn e egli detta le scelte, ben prima di ogni condizionamento esterno. Se Solzenicyn dà all’Arcipelago il sottotitolo di “Saggio di inchiesta narrativa” non lo fa certo né per vezzo d’artista né per limitarne la portata di denuncia assolutamente veritiera e scientifica (in senso autentico questa volta), ma piuttosto perché è fermamente convinto che “un’indagine letteraria, come in generale ogni ricerca di conoscenza della realtà a carattere artistico e non scientifico, è come una sorta di tunnel scavato nella realtà. L’intuito permette di traversare tutta la realtà, come il tunnel traversa una montagna. E’ sempre stato così, da secoli la letteratura si basa su questo principio”99, così che ben si può dire che essa ci offre verità che “il pensiero raziocinante non sarebbe mai riuscito a raggiungere”100 e apre una possibilità là dove sono “impotenti e la propaganda, e la costrizione, e le dimostrazioni scientifiche101″. C’è dunque un primato dell’arte, evidentissimo per Solzenicyn, che se gli impedisce in partenza qualsiasi tentazione di produrre una nuova ideologia scientifica, foss’anche sull’anima, gli impedisce anche di concepire questa scelta come una mera confessione di impotenza agnostica, fatto questo che é di importanza decisiva per cogliere la novità dell’arte di Solzenicyn rispetto a tante notti e ai loro silenzi nati dall’esperienza dei lager sovietici e nazisti.

La rinuncia al sapere ideologico, infatti, non è la semplice rinuncia alla verità, perché anzi è solo attraverso questo denudamento che si può giungere a dire quella verità della cui esistenza Solzenicyn è assolutamente convinto, così convinto da farne il criterio di giudizio di ogni aspetto del reale. E se il rifiuto dell’ideologia non è la semplice rinuncia a dire qualcosa dell’uomo, la riscoperta del primato dell’arte non è un banale ripiego di fronte all’impotenza della parola o, ciò che è lo stesso, un banale rimedio di fronte all’eccesso di potenza di certe parole. Perché, “per un’indagine scientifica mancano dati statistici e documenti, ma il metodo dell’indagine artistica permette di trarre conclusioni a carattere generale dai singoli casi. Da questo punto di vista l’indagine artistica non solo non è una specie di surrogato dello studio scientifico, ma addirittura ne supera le possibilità”102. Con una precisazione importante: “che l’intuizione deve essere arricchita dall’esperienza e da un contenuto spirituale”103.

Primato dell’arte che, arricchita dall’esperienza e da un contenuto spirituale, porta alla riscoperta dell’anima non come uno dei tanti elementi del tutto, ma come un tutto irriducibile ed inesauribile e dunque, come un infinito. Varrà la pena di ricordare qui, ancora una volta, come quest’idea di anima corrisponda esattamente all’idea di immagine di Dio come verità dell’umano; e si dovrà ricordare allora che quest’idea costituisce uno dei contenuti più propri della filosofia religiosa russa, che è anch’essa alimentata da un’intuizione propriamente artistica. In questo senso, per avere almeno un’idea di come il primato dell’arte in Solzenicyn sia ben lungi da un’abdicazione del pensiero, si dovrà tener presente cosa significarono, in questa corrente di pensiero, Dostoevskij, l’icona, la loro estetica teologica e la riscoperta, per loro tramite, del primato della persona rispetto ai concetti e alle nature sostanzialmente intese: non si arrivò a rinunciare alla filosofia in nome di un’arte che, avendo scoperto l’unilateralità dei principi astratti, si ritraeva dal pensiero, ma piuttosto, attraverso le coordinate e le illuminazioni suggerite da quest’arte, si arrivò a riscoprire la possibilità di una filosofia propriamente religiosa104.

E varrà la pena di notare ora, per concludere, che tutto ciò costituisce anche l’esperienza personale di Solzenicyn. V’è in effetti una vaga percezione dell’irriducibile dell’umano che guida Solzenicyn, prima ancora che egli sia effettivamente passato attraverso la morte – risurrezione della guerra, del campo e del cancro, e gli impedisce, per lo meno di diventare un “boia”; ma questo irriducibile, quasi un riflesso atavico di un’antica spiritualità, resta a lungo indecifrato: “Resisteva qualcosa che ci stava nel petto, non nella testa. Potevano gridarci da ogni lato: ‘Devi!’ e anche la testa ti diceva: ‘Devi!’. Ma il petto lo respingeva: non voglio, mi RIVOLTA LO STOMACO! Fate come volete io non voglio partecipare”105. Per scoprire donde venga e da cosa dipenda questa irriducibilità, per scoprire cioè in maniera veramente riflessa che l’uomo è veramente se stesso ed é veramente libero solo quando ha rinunciato a tutto, Solzenicyn ha dovuto aspettare a lungo: secondo quanto racconta ne La quercia e il vitello106, ciò é avvenuto in piena coscienza, come espressione della LEGGE della propria esistenza, solo dopo il sequestro dell’archivio da parte del KGB, cioè dopo il 1965. Ma l’idea secondo cui l’uomo è libero quando ha dovuto rinunciare a tutto é un’idea che, come abbiamo documentato, è presente in tutta chiarezza sin dall’inizio della sua attività artistica, dai primi anni Cinquanta, dall’epoca del Cervo e del Primo cerchio. E veramente dunque la riscoperta dell’anima in Solzenicyn colpisce, perché al di fuori di ogni nuova ideologia è il portato di un’intuizione artistica arricchita da un’esperienza e da un contenuto spirituale che, a loro volta, sono pienamente chiariti e illuminati proprio da quell’intuizione artistica. E colpisce ancora questa riscoperta dell’anima, appunto perché l’intuizione artistica che guida l’autore, lungi dal rinchiuderlo nella beata torre d’avorio dell’arte al riparo dal rischio delle parole non artistiche, lo ha portato invece a scoprire una legge e delle conclusioni a carattere generale che hanno poi fatto da criterio per una denuncia inesorabile (l’Arcipelago) e per una ricostruzione storica meticolosa (la Ruota rossa). Arte, certo, ma un’arte nella quale la Bellezza é sempre lo splendore del Vero, la forma sensibile del Bene e della Verità, dunque tutt’altro che un banale preambolo ad una sorta di “pensiero debole”. Come nel caso di Dostoevskij e dell’icona per la filosofia religiosa russa, la parola artistica, col suo primato, non surroga le altre parole ma, dopo averle liberate dalle loro pretese totalizzanti, apre e mantiene loro aperto un nuovo campo sonoro, quello dell’infinito della persona.

NOTA: Testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 7.3.2002 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

1 Se non ricordiamo male, già prima dell’esilio di Solzenicyn, in Unione Sovietica circolava una barzelletta nella quale si raccontava di uno scolaro del XXX secolo cui veniva chiesto quando fosse vissuto Chrušcëv; il ragazzino, dopo alcune risposte sbagliate, aveva una folgorazione e, finalmente sollevato, rispondeva: “Nel secolo di Solzenicyn”.

2 Basti qui citare l’opera-guida di O. Clément, Solzenicyn in Russia (ed. fr. Paris 1974; tr. it. Milano 1976), le lucide analisi di C.Lefort (Un homme en trop, Paris 1976; tr. it. L’uomo al bando, Firenze 1981 e i materiali pubblicati da Mac Millan nel 1973/1975 (A.Solzenitsyn, Criticl Essays and Documenta materials).

3 “Si parlerà del secolo di Solzenicyn come del secolo di Voltaire”: G. Nivat, Soljenitsyne, Paris 1980, p. 17.

4 Accanto a casi e problemi seri, che meriterebbero lunghe discussioni, c’è tutta la serie della sciocchezze: Solzenicyn è stato accusato di essere un nazionalista grande-russo arrabbiato e…un antinazionalista filotedesco (dopo Agosto 1914), poi c’è stato chi ha cercato di trovargli un po’ di sangue ebraico nelle vene e chi l’ha accusato di antisemitismo, ecc. Se si fosse un po’ più seri basterebbe la stessa contraddittorietà di queste accuse per farle mettere da parte e per dare spazio ad analisi e critiche più opportune.

5 Solzenicyn stesso, nelle sue memorie letterarie – La quercia e il vitello (QV), tr. it. Milano 1975 pp. 449-450 – ricorda che prima delle sue v’erano state almeno una quarantina di opere sull’Arcipelago. Per inciso si dovrà dire che il credito ricevuto dalle opere di Solzenicyn non dipese che in minima parte dalla circostanza che vennero pubblicate quando lui ere ancora in Unione Sovietica: la sorte di altre denunce lo dimostra a sufficienza.

6 Non si devono confondere le misure di ritorsione effettivamente prese (che per altro non furono né un atteggiamento costante né-mai-adeguate) con una radicale messa in discussione della propria responsabilità e dei proprio mondo spirituale (non solo politico, intellettuale, ecc.).

7 A.T. Marcenko, I confortevoli lager del compagno Breznev, tr. it. Milano 1970. Il testo precede, come data di pubblicazione, l’Arcipelago ma tratta un periodo posteriore a quelli esaminati nell’opera di Solzenicyn. In effetti la lista è ben più lunga e variegata: come non ricordare altre opere, non meno impressionanti per valore testimoniale, ed artistico anche: quelle di Salamov, di E. Ginzburg e quella (questa volta successiva per pubblicazione ma precedente come stesura) di Grossman?

8 V.A. Kravcenko, Ho scelto là libertà, tr. it. Milano 1948. Kravcenko, un alto funzionario sovietico rifugiatosi in occidente negli anni Quaranta, fu costretto a citare per diffamazione dei giornalisti francesi che avevano sbrigativamente liquidato le sue denunce del regime sovietico come un falso.

9 G. Nivat, op. cit., p. 18.

10 Cfr. ibid., pp. 74 e 84.

11 Cfr. ibid., pp. 84-85.

12 S.A. Askol’dov, “Il significato religioso della rivoluzione russa”, in Dal Profondo, tr. it. Milano 1971 p. 26.

13 Su questo tema si vedano certe suggestioni di A. Besançon e, più in particolare, i lavori storici più recenti di M. Malia, La rivoluzione e i suoi sviluppi, tr. it. Bologna 1984, e di M. Geller – A. Nekric, Storia dell’URSS dal 1917 ad oggi, tr. it. Milano 1984; ma decisive restano appunto le analisi e le previsioni profetiche degli autori di Vechi e di Dal profondo che avevano colto nell’attentato alla realtà l’ultima ed irriducibile della persona il vero cuore di ogni violenza sul reale.

14 A.I. Solzenicyn, Una candela al vento, tr. it. Torino 1970, p. 207.

15 A.I. Solzenicyn, Il servo e la bella del campo, tr. it. Torino 1970, p. 89.

16 A.I. Solzenicyn, Una candela…, cit., p. 168.

17 Ibid., p. 193.

18 A.I. Solzenicyn, Reparto C (Rc) tr. it., Torino 1970, p. 160.

19 A.I. Solzenicyn, Il primo cerchio (PC), tr. it. Milano 1968, p. 496.

20 Ibid., p. 18.

21 RC, p. 526.

22 A.I. Solzenicyn, Agosto 1914 (AGO 14), tr. it. Milano 1972, p. 409.

23 A.I. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, I (AG 1), tr. it. Milano 1974, pp. 179-480. Cfr. anche AG II (Milano 1975), pp. 620‑621: “A poco a poco mi si rivelò che la linea di demarcazione fra bene e male passa non fra gli stati, non fra le classi, non fra i partiti, ma attraverso ciascun cuore umano, e attraverso tutti i cuori umani. La linea è mobile, fluttua in noi con gli anni. Anche in un cuore occupato dal male essa mantiene una piccola testa di ponte dei bene. Anche nel cuore più buono c’è un angolo di male ben radicato”.

24 PC, p. 377.

25 A.I. Solzenicyn, La casa di Matrjona, tr. it. in Per il bene della causa (PBC), Milano 1971, p. 36.

26 Ibid., p. 43.

27 Ibid., p. 50.

28 A.I. Solzenicyn, Minuzie, tr. it. in PBC, pp. 245 e 244.

29 AG II, p. 73.

30 E’ il tema, ricorrente in Solzenicyn ben prima di Cernobyl, del deturpamento del volto dell’antica Russia e del degrado ambientale: certe opere faraoniche eseguite, altre ancor peggiori progettate. Cfr. la Lettera ai dirigenti, tr. it. in Vivere senza menzogna, Milano 1974.

31 AG II, pp. 27-28.

32 Ibid, p. 30.

33 E Solzenicyn non lo nasconde affatto a dispetto di chi vuole farne il cieco sognatore di una passata età dell’oro o l’acritico cantore di una teocrazia immacolata.

34 AG II, p. 55.

35 AGO 14, p. 9.

36 AG II, pp. 46-47.

37 Ibid., p. 11.

39 PBC, p. 244.

40 RC, p. 468.

41 PC, p. 337.

42 QV, p. 441.

43 PC, p. 337.

44 P.N. Evdokimov, L’Ortodossia, tr. it. Bologna 1965, p. 107.

45 A.I. Solzenicyn, Discorso di Templeron, tr. it. in Ricostruire l’uomo (RU), Milano 1984, p. 13.

46 A.I. Solzenicyn, Discorso di Harvard, tr. it. in L’errore dell’occidente (EO), Milano 1981, pp. 105-106.

47 Ibid., p. 104.

48 Ibidem. E’ così naturale questo processo agli occhi di Solzenicyn che, col procedere della Ruota rossa, egli sembra indirizzare i suoi strali sempre più verso le correnti liberali che prepararono la rivoluzione: varrà la pena di notate come egli segua anche in questo (cfr. infra, n. 80) gli autori di Vecbi e di Dal profondo e qui in particolare i loro rimproveri contro “la debolezza di un nichilismo delicato e sensibile alla complessità della vita” che si scopre impotente “di fronte al nichilismo immediato, perfettamente cieco e perciò scatenato” (S.L. Frank. “De Profundis”, tr. it. in Dal Profondo, cit., p. 298).

49 M. Geller – A. Neakric, op. cit., pp. 6-7: è la tesi di tutto il libro.

50 A.I. Solzenicyn, Voci da sotto le macerie, (VSM), tr. it. Milano 1981, p. 30.

51 AG I, p. 185.

52 RC, pp. 119-120.

53 Si veda su questo punto l’opera già citata di C. Lefort, che è una penetrante analisi della struttura del totalitarismo delineata da Solzenicyn.

54 AG II, p. 297.

55 Letteralmente o per via indiretta, questa formula è presente in tutte le opere di Solzenicyn.

56 PBC, p. 388.

57 PC, p. 112.

58 AG I, p. 160.

59 A.I. Solzenicyn, Discorsi americani (DA), tr. it. Milano 1976, p. 42.

61 AG I, p. 144.

62 PC, p. 746.

63 AG II, p. 488.

64 A.I. Solzenicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, tr. it. in, PBC, p. 252.

65 Cfr. VSM, pp. 206-209 (contributo di V. Borisov).

66 Cfr. RU, pp. 26-27.

67 Ibid., pp. 22-23.

68 RC, p. 542.

69 QV, p. 636.

70 RU, p. 26.

71 VSM, p. 27.

72 Ibid., p. 147.

73 Su questo punto e, in genere, su tutta la simbologia religiosa di Solzenicyn, si veda l’opera già citata di O. Clément.

74 AG III (Milano 1978), p. 123.

75 PBC, p. 50.

76 AG II, pp. 314-315. Qui per “filosofia del lager” si intende ovviamente non la legge dei campi che guida alla riscoperta dell’anima (cfr. supra, n. 64) ma ciò che il regime pensa e vuole realizzando l’Arcipelago.

77 Ibid., p. 629.

78 Ibid., p. 314.

79 Ibid., p. 629.

80 E qui si dovrà notare che anche in questo è evidente un forte legame ideale con gli autori di Vechi (cfr. supra, n. 48). Se le ricerche sul medioevo occidentale furono un aspetto essenziale non solo dei vechovcy e dei loro “eredi” ma anche di tutta la rinascita spirituale russa dell’inizio dei secolo (si pensi al Senso dell’atto creatore di Berdjaev, scritto sotto l’impressione che gli aveva lasciato l’incontro con l’Italia medioevale e la sua arte; ma si pensi anche al ruolo che ebbero nel simbolismo russo Dante, i Rosacroce, ecc.; e ancora, si pensi all’importanza ricordata da un Daniélou – che ebbero certi studi di M. Lot-Borodin condotti sulla frontiera che univa, più che separare, i due mondi, il medioevo occidentale e l’oriente cristiano), e se questa centralità risulta sempre più evidente nella Ruota rossa, sin da Agosto 1914 (dove uno dei personaggi, Olda Orevstovna Andozerskaja, è appunto una specialista del medioevo occidentale), tanto più significativo sarà ricordare qui che uno degli studi più profondi sul significato del Graal fu appunto di uno dei principali esponenti di Vechi, quel S. Bulgakov che, crediamo non a caso e neppure inavvertitamente, è presente proprio in Agosto 1914 quando, senza essere assolutamente citato in modo esplicito, presta però in maniera quasi letterale ad Olda Orestovna una sua idea sull’illuminismo e le fa dire che esso “è soltanto un RAMO della cultura occidentale e forse nemmeno il più fruttifero. Esso si dirama dal tronco, non sale dalla radice (…). Il più importante è la vita spirituale del medioevo” (AGO 14, p. 542); in Vechi, parlando dell’ateismo illuminista e della sua penetrazione in Russia, Bulgakov diceva appunto: “Dell’albero pluriramificato della civiltà occidentale (…) noi abbiamo scelto un ramo solo, non conoscendo, non volendo conoscere tutti gli altri (…). Ma la civiltà europea possiede non solo varietà di frutti e molteplicità di ramo, ma anche di radici che nutrono l’albero e, fino ad un certo punto, rendono innocui coi loro sani umori molti frutti velenosi. Attualmente spesso si dimentica che la cultura europea occidentale ha delle radici religiose e, almeno per la metà, é costruita su fondamenta religiose, gettate al tempo dei medioevo e della riforma” (p. 38).

81 PC, p. 424.

82 Ibid., p. 425.

83 Ibid., p. 424.

84 RC, p. 482.

85 AG II, pp. 199-200.

86 VI. S. Solov’ev, La bellezza nella natura, tr. it. in Opere, I, Il significato dell’amore e altri scritti, Milano 1983, p. 162. Sul tema dell’arte in Solov’év ci permettiamo di rimandare alle nostre note pubblicate come introduzione di questo volume delle Opere.

87 VI. S. Solov’év, Il significato universale dell’arte, tr. it. in op. cit., p. 231.

88 VI. S. Solov’év, Il destino di Pulkin, in Sobranie Socineij (Opere), Bruxelles 1966-1969, IX, p. 43.

89 Dobbiamo ovviamente interrompere qui il confronto con Solov’év, ma già questi brevi cenni dovrebbero suggerire l’opportunità di studi ulteriori su parentele come questa, e come quella ricordata più sopra con gli autori di Vechi.

90 AG III, p. 549.

91 RC, pp. 268-269.

92 Ibid., p. 580.

93 Il tema dello sguardo e del vedere è di importanza decisiva in Solzenicyn. Certi suoi personaggi sono “tutt’occhi”; si pensi a Ivan Denisovic e al suo esercizio del vedere: non c’è cosa che non veda o non guardi, non c’è istante in cui non eserciti questa sua facoltà; e a volte lo fa anche lui con “occhi grifagni” (PBC, p. 372), ormai ben diversi però da quelli di Oleg e Zoja perché, come precisa Solzenicyn prima di usare questo aggettivo, Ivan Denisovic “non era diventato uno sciacallo nemmeno dopo otto anni di campo, e più il tempo passava e meno era capace di diventarlo ” (Ibidem).

94 PC, p. 496.

95 RC, p. 365.

96 RU, p. 83.

97 A.I. Solzenicyn, Dialogo con il futuro (DF), tr. it. Milano 1977, pp. 98 e 99.

98 RU, p. 83.

99 DF, p. 98.

100 A.I. Solzenicyn, Discorso per il premio Nobel, in Sobranie Socinenij. YMCA Press, Vermont-Paris 1981, XX, p. 8.

101 Ibid., p. 14.

102 DF, p. 99.

103 RU p. 90.

104 Per l’importanza che ebbe il tema dell’arte e quello della sua valenza teologica, si pensi, oltre ai già citati Solov’év e Berdjaev (cfr. supra, n. 80), a Florenskij, a Bulgakov, a Trubeckoj e ai loro scritti sull’icona.

105 AG I , p. 173.

106 QV, pp. 124-190.