La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Alessandro Manzoni

Tematiche: Letteratura

Premetto che il discorso che qui mi accingo a fare sul rapporto del Manzoni con l’assoluto; il rapporto, sia chiaro, non dell’uomo, ma dello scrittore Manzoni, dell’opera manzoniana, con l’assoluto si fonda su una idea della letteratura alquanto diversa da quella che tuttora ispira i manuali scolastici. E’ l’idea della letteratura come arte, come “produzione di bellezza mediante la scrittura”, ove la ricerca, o la presenza, la rappresentazione dell’assoluto e dei suoi sinonimi: l’eterno, l’infinito, il trascendente, il mistero, il divino, non è un dato eventuale, possibile; ma necessario, intrinseco costitutivo dell’opera letteraria in quanto tale. Perché, a mio giudizio, “letteratura” non è il nome di tutto ciò che è stato “scritto bene”, con proprietà ed eleganza; non è, come pensava Croce, un “galateo della scrittura”; né è come predicano i critici di sinistra “l’insieme delle opere” – cito una definizione di letteratura che si legge nel Devoto-Oli – “affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, specialmente in quanto oggetto di ricostruzione o di indagine storico – critica”; non è insomma comunicazione scritta di pensieri, sentimenti o volontà, che si distingua da tutte le altre forme di comunicazione per la bellezza o per l’importanza storico – documentaria di quei pensieri, sentimenti e volontà. No. La letteratura, in versi o in prosa, è l’insieme delle opere che, anche indipendentemente dall’intenzione dell’autore, trovano nella bellezza, cioè nella rappresentazione o nella intuizione o nel sentimento, nella ricerca, appunto, dell’assoluto, dell’infinito, della totalità dell’essere, comprensiva dell’umano, del naturale e del divino, del visibile e dell’invisibile – ché di questo è fatta, appunto, la bellezza – la loro ragion d’essere, la loro unità, il loro significato.

In questa prospettiva che, in sostanza, assume il termine letteratura come sinonimo di poesia, due cose vanno tenute presenti per affrontare correttamente il nostro tema. La prima è che l’assoluto nella letteratura non è, per quel che s’è detto, identificabile nel contenuto, ma nella forma, intesa come struttura complessiva delle opere. Non è un assoluto o religioso; ma un assoluto estetico, quindi asemantico, percepibile e godibile appunto come bellezza, non dal pensiero, ma da quel senso estetico, prerazionale, premorale, già presente e operante nei neonati, che Dio ha concesso agli uomini, che non sono tutti filosofi, né tutti portati alla mistica, a soddisfazione di quell’incoercibile bisogno di assoluto che è di tutti anche di coloro che lo negano; e che tocca appunto ai poeti e agli artisti in genere di soddisfare.

La seconda cosa da tener presente ci porta direttamente al Manzoni: se l’assoluto nella letteratura è reso in ogni caso non dal contenuto, ma dalla forma, dalla globale struttura dell’opera; è un assoluto estetico, non filosofico o religioso, e però si dà il caso che anche il contenuto sia, a suo modo, cioè in termini filosofici o/e religiosi, espressivo dell’assoluto, come avviene, per quanto riguarda la letteratura del passato, nel caso di Dante, e per quanto riguarda la letteratura moderna, nel caso di Manzoni e dello stesso Leopardi; nasce il problema: come si pone il rapporto tra i due assoluti? Sono conciliabili tra loro o compromettono l’unità dell’opera?

Non è dubbio che se la forma dell’opera, la bellezza, la poesia, viene intesa nel modo tradizionale, come espressione del pensiero, del sentimento, della situazione morale dell’autore, il dualismo è insuperabile. Si pensi a Croce, che nel caso di Dante, distingue struttura e poesia, e nel caso di Manzoni, poesia ed oratoria, seguito poi dal Moravia, che parla di decadentismo e di propaganda cattolica. Ma si pensi anche, per quanto riguarda Dante, a T.S.Eliot, Eliot è il primo grande poeta e critico che abbia scoperto e dichiarato esplicitamente che la poesia non è espressione della personalità, ma evasione dalla personalità. Questo nel 1917. Ma dieci anni dopo, abbracciata la fede anglo – cattolica, preso forse dal fervore del neoconvertito, egli cade in evidente imbarazzo di fronte al problema se nella Commedia la religione sia espressiva della fede o della poesia di Dante, ovvero se nel poema sia l’assoluto estetico a prevalere e subordinare a sé l’assoluto religioso o viceversa. Come se, al tempo di Dante, cioè di una cultura ancora integralmente unitaria, ove le attività spirituali: scienza, filosofia, teologia, poesia ed arti sono tutte sostanzialmente interne a una visione teocentrica e cristiana dell’assoluto, al di qua della divaricazione e della specializzazione dei linguaggi e delle scritture, per cui Dante può far poesia anche col sillogismo degli scolastici e trattando della macchie lunari; come se, ripeto, non fosse evidente il pieno accordo tra la fede di Dante e la poesia della Commedia, tra l’assoluto o estetico, asemantico, proprio dell’opera, e l’assoluto filosofico – religioso del suo contenuto.

Ma il caso di Manzoni, come quello dell’altro grande ricercatore moderno dell’assoluto che è Leopardi è diverso. L’intellettuale moderno, interprete di una cultura non più unitaria, ma caratterizzata dalla radicale frattura kantiana tra la realtà fenomenica, conoscibile e manipolabile solo dalla ragione e dalla scienza, e la realtà noumenica, accessibile solo con la fantasia e col sentimento morale, l’intellettuale, moderno chiami trovi ad essere anche poeta e perciò dotato di sentimento e d’immaginazione e bisognoso di utilizzare queste sue più specifiche facoltà interrogando l’invisibile, l’infinito, l’ignoto e, insomma l’assoluto, come potrà farlo se non utilizzando ambedue i linguaggi, se non sdoppiandosi tra ragione e sentimento, tra logica e fantasia, tra reale e possibile, con l’ovvia conseguenza di vivere in persona propria e di rappresentare nella propria opera, nel contrasto o nel difficile accordo tra la parte ragionata e quella e immaginata, tra storia e invenzione, filosofia sentimento, contraddizione, l’inquietudine addirittura l’infelicità che ne deriva? Si sa che Croce, più tardi, si ricredette, riconoscendo che il romanzo è tutta poesia; ma non spiegò le ragioni per cui aveva mutato parere. Cosicché il problema resta: quale dei due assoluti prevale e riassorbe l’altro? quello di segno cattolico e particolarmente apprezzato ispira il cattolici, che nel contenuto, o quello asemantico della sua forma, gradito anche a coloro che non credono, ma ricercano il senso ultimo delle cose? Il titolo di questo ciclo d’incontri dedicati a tre scrittori moderni definisce giustamente il loro rapporto con l’assoluto non come “presenza”, ma come “ricerca”. Ma se Manzoni questo assoluto lo ricerca, ciò sembra voler dire che, come uomo religioso, non lo possiede. E se invece lo possiede ed è questa religione a determinare la bellezza, il significato e l’unità dell’opera, è, nonché legittimo, necessario precisare in che consista questa religione. Ma su questo punto i pareri sono contrastanti. Nei Promessi sposi il Ruffini trova un Manzoni religioso ma in senso giansenista; Omodeo un Manzoni non veramente giansenista, ma un cattolico con dubbi; chiari invece un cattolico senza dubbi; mentre prima di tutti questi il nostro Scalvini vi aveva trovato un Manzoni non veramente religioso, ma un moralista democratico.      Ora tenuto conto di questa molteplicità di interpretazioni – evidente, per esempio anche per quanto riguarda il pensiero economico, l’ideologia del Manzoni presente nel romanzo per De Sanctis è quella di un liberale progressista, per Gramsci invece è quella di un borghese reazionario, io ho creduto di poterla definire come quella di un liberista moderato nel senso cristiano della attenzione per i meno abbienti, per l’amico Derla invece sarebbe quella di un liberista radicale alla Adamo Smith, erroneamente convinto che il liberismo sia conciliabile con il cattolicesimo – appare evidente che se si assume la religione, o l’ideologia dell’uomo Manzoni per intendere l’opera sua, non si può non dar ragione ai Croce e ai Moravia: l’opera non ha unità estetica e neppure ideologica o religiosa. Se invece si muove dalla sua vocazione estetica, se si intende la sua storia di scrittore come ricerca, appunto, di quell’assoluto asemantico, e per ciò stesso coniugabile con tutti i significati particolari che corrispondono all’interesse dei lettori, che è la bellezza quale si realizza nella struttura complessiva dell’opera, non solo acquistano ragion d’essere, anzi si rivelano necessari il dualismo linguistico tra poesia e oratoria, tra modi immaginativi e modi riflessivi, e tutti gli altri dualismi che si sono trovati e si possono trovare non solo nei Promessi sposi ma in tutta l’opera manzoniana, a partire da quelli indicati dall’autore stesso come “storia e invenzione”, “sentire e meditare”; ma si spiegano anche le divergenze sulla religione presente nel romanzo; religione che, ripeto, non è quella dell’uomo Manzoni, poeta, ma quella che il Manzoni poeta propone agli uomini del suo tempo in termini non confessionali, adeguati tanto a quelli che vanno a messa quanto a quelli che non ci vanno,                                                            come risposta al comune bisogno di assoluto.

E qui, per introdurci ormai all’analisi di come Manzoni ricerca l’assoluto nell’opera sua, è necessario considerare il carattere essenzialmente critico, non più propulsivo o migliorativo, che la letteratura assume, a partire dal primo Ottocento, con Leopardi e Manzoni, verso il sistema di pensiero e di governo della cosa pubblica: un sistema che emargina la religione e quei valori morali non propriamente religiosi, ma naturali, che si fondano sull’assoluto; li emargina in quanto non razionalmente giustificabili e irrilevanti o addirittura di ostacolo all’organizzazione della vita civile secondo scienza e ragione, abbandonandoli all’interesse dei sentimentali e dei sognatori. Reagire a una tale situazione toccherebbe in primo luogo, naturalmente, alla Chiesa; tuttavia troppo occupata a difendere i suoi diritti e il suo residuo potere politico per non chiudersi a riccio di fronte ad ogni novità. Così, a riproporre l’assoluto, con i propri mezzi, sono proprio i poeti, cioè quegli intellettuali che pur condividendo in parte gli orientamenti filosofici e gli ideali politici del loro tempo, trovano nel sogno, nell’immaginazione, nel sentimento morale, nell’amore della bellezza, insomma, nelle facoltà estetiche comunque in loro prevalenti, e finché, naturalmente, sono prevalenti sulla logica pura e sugli interessi pratici, la forza di opporsi in tutto o in parte al sistema vigente in nome di una visione nuova o rinnovata dell’assoluto.

Chi si oppone in tutto, chi non crede che il suo messaggio poetico possa comunque concorrere a modificare il sistema è, naturalmente, Leopardi. Certo, Leopardi condivide, del pensiero moderno, l’orientamento materialistico proprio del Settecento, e ne adotta il linguaggio; ma solo per usarlo, in rapporto dialettico con il linguaggio del sentimento e dell’immaginazione, contro il sistema stesso. Alla fede cristiana, che resiste nella pratica degli umili e convive con quella dei “nuovi credenti” nelle “magnifiche sorti e progressiva” dell’umanità, egli contrappone la sua “religione poetica”, che, in un tratto della Ginestra, si traduce anche nel vagheggiamento dì una umanità rinnovata nel segno della solidarietà.

Certi critici, com’è noto, hanno preso questo accidentale, transeunte “messaggio” dell’ultimo canto come un annuncio di socialismo; mentre altro non è che il sogno di un grande poeta, ma aristocratico e reazionario, privo di ogni interesse, che non fosse quello estetico che sì manifesta nei Canti per la figlia del suo cocchiere, e per donzellette, vecchierelle, artigiani e zappatori, per le classi inferiori e per le loro condizioni sociali; e indotto, anche dalle sue precarie condizioni di salute, ad occuparsi solo di se stesso, e che se stesso appunto riproduce nei giusti, pietosi e solidali cittadini che costituiscono l'”umana compagnia” della Ginestra.

Chi invece si oppone solo in parte alla modernità, perché ne condivide l’idea di progresso, ed è interessato anche al bene altrui, è, appunto, Manzoni. Fornito di una vocazione poetica, di un “sentire” certo meno forte di quello del recanatese (Manzoni la poesia la sa fare e la usa; ma non crede nella poesia) e di una disposizione riflessiva, il “meditare”, che ad un certo punto prende il sopravvento sul sentire, mettendo il poeta definitivamente a tacere, Manzoni distingue ma non contrappone le due culture, quella relativa alla realtà fenomenica e quella che mira alla realtà noumenica, ma cerca di riportarle alla collaborazione, a vantaggio dì tutti e in particolare degli umili; e questo col mezzo di una “poesia religiosa”, anche soprattutto nel senso etimologico e naturale della parola, per cui “religione è senso del comune vincolo di cui Dio è origine e garanzia e che lega gli uomini tra loro    e ogni uomo all’ordine dell’universo”, cioè, in una parola all’assoluto. Lui pure aristocratico, ma figlio della nipote di Beccaria e, forse, di un Verrì libertino, dunque tutt’altro che reazionario, anche se non certo progressista nella misura in cui lo sono i liberali napoletani che Leopardi colpisce con la sua ironia; messo a scuola dai barnabiti, ottimi insegnanti di latino, ma probabilmente non di religione mi riferisco naturalmente a quei barnabiti del collegio di Merate – una religione formalistica, astratta, staccata da ogni rapporto vivo con i bisogni e le curiosità intellettuali dei giovani; quando esce di collegio è pronto a disfarsi di ogni credenza e a praticare libertinaggio e gioco d’azzardo. Il bisogno d’assoluto e l’amore per una sua Beatrice di nome Enrichetta, lo spinge, dopo il matrimonio, a recuperare la fede. Una fede, però, non solo personale, ma una fede di Chiesa nella Chiesa, della cui funzione in ordine al bene collettivo. Ed ecco gli Inni sacri. Critici laicisti come De Sanctis e Carducci li hanno considerati come espressioni del bisogno di conferire una veste religiosa, cattolica, a sentimenti di natura essenzialmente umana e civile; critici cattolici come composizioni in cui sarebbe invece prevalente il fondamento religioso, teologico. A mio parere, sono insieme l’una e l’altra cosa: la dimostrazione di un cattolicesimo autentico, ma al tempo stesso aperte al mondo contemporaneo, ove la Chiesa è sentita come indispensabile fattore di civiltà, fonte naturale, di quei “sentimenti nobili, grandi e umani”, che stanno alla base della vita civile. E la riprova di questo, che la fede cattolica del Manzoni è autentica, ma non è essa che ispira e determina la storia della sua poesia, ma è la poesia, in quanto appunto è ricerca estetica dell’assoluto e insieme strumento di rinnovamento sociale, a ispirare la fede – la riprova ci viene dal confronto tra i primi inni e l’ultimo, la Pentecoste. Nei primi inni sono i riferimenti teologici, biblici, ed il linguaggio liturgico a caratterizzarli. Con essi Manzoni si ricongiunge sì con la Chiesa e con la sua funzione nel mondo; ma allontanandosi dalla società e dalla cultura del suo tempo. E’ inteso dai credenti, e nemmeno da tutti; ma agli altri non può dir nulla, o ben poco.

A questo punto, mi rifarò a quanto ho già scritto a proposito del sacro nell’opera del Manzoni.

La Pentecoste, dove il poeta si cura meno delle fonti liturgiche e delle formule dogmatiche, ritrovando un linguaggio più moderno e immediato, ci offre l’immagine di una concezione più autentica e più veramente evangelica della Chiesa: quella per cui essa non si riduce alle sue forme istituzionali, al tempio, al rito alle formule dogmatiche e sacramentali e non è solo quella dei credenti, delle pecore che se ne stanno nell’ovile ma è anche il “campo” di tutti “quei che sperano”, magari senza credere, quella che idealmente abbraccia tutti gli uomini, cristiani e pagani, quelli che conoscono la verità come quelli che stanno nell’errore, nella prospettiva della finale unità di tutti nel segno di Cristo. Abbiamo qui anche l’immagine della più vera funzione del poeta cristiano nel mondo moderno: che è di farsi interprete soprattutto di questa chiesa universale e spirituale, che vuol essere la chiesa del proprio tempo ma anche quella dei tempi ultimi. Confrontiamo in proposito i primi versi dell’ultimo dei quattro inni precedenti la Pentecoste, la Passione scritta tra il marzo 1814 e l’ottobre dei ’15, con l’inizio de la Pentecoste e composta tra il ’17 e il ’22, e ci renderemo subito conto di questa decisiva evoluzione del Manzoni da una concezione troppo marcatamente istituzionale e, perciò, parziale, antistorica, almeno parzialmente impoetica del sacro, a una concezione poetica nella misura in cui il sacro diventi risposta a una domanda che è di tutti, data in un linguaggio che può essere compreso da tutti.

Nei versi iniziali de la Passione emerge infatti la nozione del poeta interprete solo della chiesa che è costituita dai credenti e praticanti:

 O tementi dell’ira ventura

cheti e gravi oggi al tempio moviamo,

come gente che pensi a sventura

che improvviso s’intese annunziar.

Non s’aspetti di squilla il richiamo:

noi concede il mestissimo rito;

qual di donna che piange il marito,

è la veste del vedovo altar.

 L’invito al tempio e al rito della settimana santa è certo anche un invito a una preghiera da cui tutti dovranno trar beneficio, anche gli infedeli, anche gli Ebrei, diretti responsabili della Crocifissione. Ciò non toglie che il poeta, come tale, si presenti qui come facente parte di questo gruppo privilegiato e di esso parli il linguaggio sacro. Nella Pentecoste invece il poeta come fedele, come voce di un gruppo religioso privilegiato, scompare: in primo piano è la Chiesa:

 Madre de’ Santi, immagine

della citta superna,

del sangue incorruttibile

conservatrice eterna;

tu che, da tanti secoli,

soffri, combatti e preghi,

che le tue tende spieghi

dall’uno all’altro mar;

campo di quei che sperano,

Chiesa dei Dio vivente, ecc.

 la Chiesa eterna, considerata nella prospettiva della redenzione finale del mondo intero, la Chiesa di ciascuno e di tutti che siamo in cammino verso quel più grande tempio che è la pienezza del Regno, di cui i templi materiali non sono che segni. E se proprio vogliamo scoprirvi anche il poeta, eccolo nella invocazione finale; ma solidale non più solo e tanto con i credenti e i praticanti in quanto tali, ma con gli umili, i poveri, gli schiavi, i dubbiosi, i peccatori, i sofferenti gli infelici, i piccoli, i morenti, e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

La Pentecoste è il capolavoro del Manzoni lirico e un primo importante acquisto nella ricerca di un assoluto estetico, asemantico, destinato comunque a coniugarsi con una visione cristiana dell’assoluto stesso. Essa però rientra pur sempre nel genere letterario medioevale dell’innografia, rinnovato certo nel linguaggio, rispetto agl’inni precedenti, ma la cui struttura unitaria e la cui intonazione apologetica, non corrispondono in alcun modo al dualismo strutturale e all’intonazione critica che sono richieste, come s’è detto, dalla condizione generale della letteratura in rapporto al mondo moderno – dualismo e critica che nel romanzo si applicherà anche molto alla Chiesa ed ai suoi sacerdoti. D’altra parte, alla religione Manzoni è pervenuto, come s’è detto, non soltanto per un bisogno interiore, ma anche per necessità di poeta, che in essa ha intravisto il fattore unificante di tutti i diversi e contrastanti interessi di intellettuale e di scrittore, presenti in lui già prima della conversione Nel Trionfo della libertà, del 1801, se        si eccettuano la condanna dell’ascetismo e del celibato ecclesiastico, sono presenti, ma tenuti insieme     dalla nozione dell’io e dal miraggio della gloria poetica, tutti i temi e tutte le ragioni ideali che si trovano, ben altrimenti realizzati, nel romanzo: la religione, naturalmente nel senso del laicismo anticlericale, e la politica, il papato e l’autorità civile, il mondo contemporaneo e la storia; e naturalmente la libertà, la giustizia, l’aborrimento della violenza e del sopruso sui deboli, il disinteresse e l’indipendenza del giudizio. E’ pertanto evidente che Manzoni ha bisogno, per così dire, di un ampio contenitore capace di far convergere in unità tutti questi diversi temi e interessi. Le opere successive alla Pentecoste, sia quelle poetiche, come le tragedie e le due odi maggiori, sia quelle saggistiche, come la Morale cattolica, la Lettera allo Chauvet sull’unità di tempo e luogo nella tragedia e la lettera sul Romanticismo, pur suggerite da occasioni o esigenze particolari, s’intendono pienamente, nei loro pregi e nei loro limiti, solo come momenti intermedi della ricerca di una struttura compositiva assolutamente nuova, atta appunto a contenere, armonizzare e unificare tutti quei temi e interessi, nel quadro di una generale visione cristiana della vita Ed ecco i Promessi sposi: una nuova Commedia – un’opera che fa genere a sè, e che rimarrà, come quella dantesca, inimitabile; opera in prosa, ma essa pure comprensiva di prosa e poesia; e anch’essa perfettamente rispondente nella sua struttura dualistica, alla visione dualistica dell’universo propria del suo tempo, così come la struttura trinitaria della Commedia corrisponde alla visione dell’universo vigente al tempo di Dante.

Ma domandiamoci a questo punto: qui, dove la religione non è più, come negli Inni, l’unico oggetto del discorso poetico; qui, dov’essa si pone come fattore unificante di interessi morali, politici e sociali concretamente connessi con la modernità, come il padre Cristoforo che rende finalmente possibile il difficile, contrastato matrimonio tra la terrestrità di Renzo e la celestialità di Lucia; come si coniuga nel romanzo la fede la proposta di un cattolicesimo rinnovato ma pur sempre ortodosso, e pertanto non accettabile da tutti i venticinque lettori cui Manzoni lo offre; come si coniuga con la bellezza, con l’assoluto asemantico, con la “parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta”?

La risposta è contenuta nell’ultima parte del saggio sul sacro, dedicata appunto ai Promessi sposi, di cui ora leggerò i tratti essenziali.

Se un poeta cristiano, pur non discostandosi dalla più sostanziale ortodossia trova modo di tradurre il dogma in un linguaggio che lo rende accessibile a tutti, anche ai non credenti, ai lontani, ai “gentili”, nonché ai critici idealisti, sarà il caso di supporre che egli abbia annacquato il cristianesimo, o non sarà piuttosto il caso di vedere in lui un testimone, appunto, dello spirito pentecostale che suggeriva agli apostoli il modo di predicare Cristo facendosi intendere da tutti?

 Tal risonò molteplice

la voce dello Spiro:

l’Arabo, il Parto, il Siro

in suo sermon l’udì.

 In questa prospettiva, di un sacro che si rinnova, si trasforma e si comunica per forza di un’ispirazione intrinsecamente religiosa; come interiorità e come anima dei racconto, ancor prima e più che nella riproposta di oggetti e concetti tradizionalmente investiti della prerogativa della sacralità: due sono i modi che Manzoni ha seguito per realizzarlo: 1) quello che chiamerei della sua “dislocazione”, la “dislocazione del sacro”, e 2) quello della “reticenza religiosa”. Quanto al primo modo, sarà utile rifarsi innanzitutto alle indicazioni piuttosto contraddittorie che ci vengono da coloro che, nel valutare la presenza del sacro nel romanzo, si sono fondati sugli elementi dei contenuto. Da un lato, cioè da parte laica (Moravia), è parso che di religione, cioè di sacralità, nei Promessi Sposi ce ne sia anche troppa; dall’altro, cioè da parte cattolica, a qualcuno, in un certo senso, è parso il contrario. Mi riferisco qui al Petrocchi del saggio Un romanzo cristiano senza Cristo, chi, tra le altre cose, che, salvo che nella predica del padre Felice al lazzaretto, Cristo non è mai nominato nel romanzo e soprattutto non è oggetto dei culto dei suoi umili protagonisti. E’ vero; ma dirò di più: nel romanzo non è mai neppure rappresentata la messa, né alcuno dei sacramenti: non la penitenza, non l’eucaristia, e neppure il matrimonio di Renzo e Lucia. Vi è rappresentato uno dei cosiddetti “sacramentali”, la processione propiziatoria, per la cessazione della peste, che però Manzoni, a differenza dalla sua fonte, il Ripamonti, descrive in modo freddamente cronistico, sottolineando l’inopportunità di quella manifestazione del sacro che provocò non la fine ma l’aumento del contagio. Talché, se, ciononostante, continuiamo a pensare che si tratti di un romanzo “cristiano”, bisognerà pur chiedersi quale sia il senso e il peso di un tale aggettivo applicato ai Promessi Sposi.

In realtà, abbiamo qui la prima e più evidente manifestazione di quel fenomeno, appunto, della dislocazione del sacro, per cui lo scrittore cristiano moderno tende a dislocare, cioè a trasferire il sacro dagli oggetti – cioè luoghi, persone, atti e parole con cui era tradizionalmente connesso, ad oggetti, luoghi persone atti e parole, fino allora rimasti fuori dell’ambito della sacralità, fino allora considerati piuttosto come beneficiari che come protagonisti del sacro; e solo così riesce ad, esprimere artisticamente, anziché la forma esterna, la sostanza intima del sacro. I Promessi Sposi non sono “senza Cristo”. Ma la funzione fondamentale del Cristo, cioè dell’innocente figlio di Dio che il Padre destina a patire per la salvezza dei peccatori e per ridare un senso positivo alla storia degli uomini, è trasferita, come nell’Adelchi sulla figura di Ermengarda, su quella di Lucia, dal cui sacrificio, dalla cui sofferenza, dalla cui rinuncia viene la salvezza dell’innominato e il capovolgimento dei corso della vicenda da negativo a positivo, dalla prevalenza del male alla prevalenza del bene. Nell’episodio, al centro del romanzo, di Lucia che celebra il sacrificio di ciò che ha di più caro, cioè del proprio amore per Renzo (“…e risolvette subito di farne un sacrificio“), traducendo anche visibilmente l’intenzione in una serie di atti rituali che precedono e seguono la formulazione verbale del voto (“S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse:…”…”Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione e una salvaguardia a un tempo, ecc.”): in questo episodio è proprio il concetto fondamentale della messa cattolica – sacrificio e ricordo della passione e del sacrificio della Croce, prima che cena ‑ che vien trasferito su una persona e su atti e in circostanze inusitate; ed è solo grazie a tale trasferimento, per cui chi dice messa nei Promessi Sposi, chi ricorda il sacrificio di Cristo non è don Abbondio e neppure il Cardinale, ma è il personaggio più umile e più puro, e il più puramente religioso: è solo per tale trasferimento che il concetto fondamentale del Cristianesimo rivive nel romanzo non come concetto, ma come rappresentazione, mentre, se il Manzoni avesse rappresentato una vera messa, sia pur detta dal più degno dei personaggi tradizionalmente abilitati a dir messa, non avrebbe potuto rappresentare altro che gli aspetti e gli effetti esterni, spettacolari, socioreligiosi, o magari anche quelli interni, spirituali, nelle anime dei fedeli; ma non realizzare artisticamente il significato teologico della messa, cioè quello più intimamente e cristianamente sacro. Così il matrimonio di Renzo e Lucia il Manzoni non lo rappresenta quando veramente avviene, ma prima, nel lazzaretto; e chi lo benedice è colui che più veramente e intimamente è motivato a benedirlo, il padre Cristoforo. E così la sostanza teologica dei sacramento della penitenza, per cui chi rimette i peccati, chi perdona è solo Iddio (“Dio lo può: Egli lo faccia! …“) e solo a misura di un vero e disinteressato perdono, di una vera, profonda contrizione da parte del peccatore, è resa mirabilmente dalla confessione informale che Renzo fa davanti al padre Cristoforo, prima d’aver visto don Rodrigo morente e d’aver ritrovato Lucia, (“capisco che non gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora, con la grazia dei Signore, sì, gli perdono proprio di cuore“, cap. XXXV, p. 622) come meglio il Manzoni non avrebbe potuto fare, se avesse pensato di mandare il suo uomo a confessarsi formalmente dal suo parroco prima delle nozze. Lo stesso lazzaretto, sia per questi episodi concernenti Renzo e Lucia e don Rodrigo (in rapporto al quale si configura, se non altro nell’attesa del padre Cristoforo, anche il sacramento dell’estrema unzione), sia in generale, in quanto luogo che aduna l’umanità più sofferente, assume nel romanzo il significato di una rappresentazione artistica del vero “luogo sacro”, del vero “tempio”. Mentre infatti tutte le altre chiese e chiesette dei Promessi Sposi sono più che altro luoghi o di transitorio rifugio, come la chiesa dei convento di Pescarenico (cap. VIII) o luoghi topografici e monumentali, come “la gran macchina dei Duomo” che appare a Renzo nel cap. XI, e che nel successivo diventa la “gran mole” che Renzo ammira da sotto in su “con la bocca aperta”, o ancora espressione di costume socioreligioso, come la parrocchiale del villaggio presso il castello dell’Innominato, dove il cardinale celebra la messa durante la visita pastorale: il lazzaretto realizza artisticamente il concetto teologico essenziale dei tempio come luogo della preghiera, concretizzazione visibile del rapporto tra gli uomini e Dio in tutti i suoi aspetti e momenti; cosicché non è un caso che anche la predica l’unica reale predica rappresentata nel romanzo, sia quella del padre Felice ai guariti dal contagio, all’interno del lazzaretto e precisamente in quella cappella “aperta da tutti i lati”, che sembra rappresentare emblematicamente non già una chiesa circoscritta entro i limiti materiali di un tempio, ma aperta sul mondo, ad animarlo e rianimarlo in tutte le direzioni: la chiesa della Pentecoste. Direi pertanto che questa dislocazione del sacro, considerata in tutti i suoi aspetti, non sia che una forma, ma forse la più rilevante, di quel processo tipico del realismo manzoniano che è merito del De Sanctis aver colto per la prima volta e riassunto nella famosa formula dell’ideale (in questo caso il concetto religioso, teologico) calato nella realtà. Con un simile realismo, Manzoni ha operato e cooperato potentemente, all’interno della Chiesa, a liberare l'”ideale” cristiano, cioè Dio, Cristo e i valori soprannaturali dalla prigione istituzionale per ridarli alla gente comune e riconsacrare con essi il mondo. Anche la natura, il paesaggio si colora di divino, e direi proprio di un divino inteso nel senso cristiano, nel romanzo del Manzoni. Ed anche la Provvidenza diventa un tema intimamente religioso, quando il Manzoni non si limita a nominarla o a farla nominare dai personaggi, ma ce ne fa sentire la presenza immanente soprattutto come rapporto tra uomini e cose, e specialmente quando, dopo una momentanea rottura, il rapporto si ricostituisce; come, nella vicenda di Renzo, quando ritrova l’Adda dopo l’orrore notturno della solitudine, e in quella dell’innominato quando, dopo la terribile notte, le campane lo inducono ad affacciarsi a una finestra del castello, come al rivelarsi, nelle forme stesse del paesaggio albare, del prodigio di grazia che si è ormai compiuto.

Quanto al secondo aspetto, della “reticenza religiosa”, esso rappresenta il modo con cui il Manzoni riesce a rendere in termini d’arte quel senso di insondabile mistero e di infinita trascendenza che caratterizza la religiosità moderna, direi, indipendentemente dalla personale negazione o professione di fede.

Si è detto spesso: Leopardi non è credente, e di qui vengono le sue domande senza risposta: “Che fai tu luna in ciel? … A che tante facelle? …Che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?”, e la sua angoscia di non intendere “questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia”. Ma forse che la fede, e la speranza in una vita migliore, che infondono serenità e fiducia nel Manzoni e nelle pagine del suo romanzo, forse che esimono dall’angoscia e dall’esperienza del mistero? Mistero della libertà dell’uomo in rapporto al disegno divino, mistero della grazia e della salvezza, mistero della sofferenza degli innocenti, e di tutto ciò che supera i limiti della nostra ragione? Ora, supponiamo che il Manzoni avesse scelto di rendere il mistero che ci circonda allo stesso modo di Leopardi, cioè con domande che non hanno risposta. Poniamo, per esempio, che dopo quel passo del cap.X, dove osserva che Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta se l’avesse voluto, perché “è una delle facoltà singolari incomunicabiili della religione cristiana il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura a qualsivoglia termine, ricorra ad essa”, supponiamo cheavesse inserito quelle stesse domande che mi son posto io nel mio commento: come poteva Gertrude, con quel padre, con quell’ambiente familiare, con quelle educatrici e quei direttori di spirito con cui aveva avuto e aveva a che fare, come poteva averla conosciuta, questa religione, nella sua forma genuina”, che cosa sarebbe parso tutto l’episodio, se non il pretesto per una serie di riflessioni sul libero arbitrio o, al meglio, una meditazione tanto, edificante quanto impoetica sull’insondabilità delle ragioni divine? Invece il Manzoni tace, e poiché egli ha condotto l’episodio in modo che la domanda è nata, come in lui, così dentro di noi, ecco che la reticenza stessa si avverte, ecco che, per così dire, il silenzio si sente, diventa parola, in cui parla appunto il mistero, l’insondabilità di Dio, e si stabilisce così un clima spirituale di raccoglimento pensoso e di umiltà: quel clima in cui, più o meno sensibilmente, è avvolto non solo questo episodio, ma tutto il romanzo. Così s’intende anche un altro famoso caso di reticenza religiosa: quello relativo alla finale salvezza di don Rodrigo. Si sa che, nella prima stesura, don Rodrigo moriva in un accesso di delirio febbrile, andando a precipitarsi chi sa dove in groppa a un cavallo imbizzito. Era una conclusione che prolungava il castigo e l’oltraggio dei morbo, e concedeva troppo all’umana, soddisfazione di veder punito il malvagio: una conclusione che faceva colpo, ma cattiva e stonata.

Ma il Manzoni, nella stesura definitiva, non l’ha sostituita affatto con una opposta, di segno scopertamente edificante, come sarebbe stato se ci avesse detto che finalmente l’uomo era tornato in sé, e il padre Cristoforo aveva potuto udirne la confessione.

Come sia morto don Rodrigo, resta un mistero. Il lettore cristianamente sensibile può ovviamente pensare che quella di don Rodrigo sia stata comunque una fine cristiana, quanto meno ex opere operato, in quanto con la sua agonia egli ha contribuito alla salvezza di un’anima ch’era stata in preda all’odio e allo spirito di vendetta, accomunato in ciò dal Manzoni alle innocenti Ermengarda e Lucia. Ma il mistero obbiettivamente resta, e il senso che si leva dalla reticenza è, ancora una volta, un senso di pensosa umiltà di fronte all’imperscrutabile principio di ogni visibile presenza dei sacro tra gli uomini e tra le cose.

Per concludere, mi pare evidente che tra i due assoluti manzoniani, quello della sua fede personale, contenuto nel romanzo, e quello dell’arte sua, sia questo a prevalere, a vantaggio della bellezza e dell’universalità dell’opera stessa. In proposito, è particolarmente significativa una terza reticenza quella che si coglie nel finale del romanzo nella sua morale, trovata, “dopo un lungo dibattere e cercare insieme” dai due sposi e fatta propria, come “il sugo di tutta la storia”, dai due autori; che i guai, “quando vengono, o per colpa o senza colpa la fiducia in Dio li raddolcisce per una vita migliore”. La domanda s’impone: una vita migliore dove? Su questa morte o dopo la morte, nel mondo di là? Se Manzoni specificasse, non tutti i venticinque lettori ne sarebbero soddisfatti.

Nota bibliografica

Per questa lezione ho variamente utilizzato prospettive teoriche e spunti critici contenuti in queste mie pubblicazioni: Manzoni “reazionario”, cinque saggi sui Promessi sposi, Cappelli editore, Bologna 1966,11 ed.1972; Commento ai Promessi sposi, Petrini, Torino 1973, VI ed.1984 Gli “Inni sacri” del Manzoni, in AA.VV.,Manzoni cent’anni dopo, Provincia di Milano, Milano 1974, pp.133155; Il sacro nei “Promessi sposì”, in “Testo”, 9 (gen.giu.1985), pp.5‑18; Manzoni De Sanctis Croce e altri studi di storia della critica italiana, Vita e Pensiero, Milano 1986; Letteratura come arte, Lezioni di teoria della letteratura, E.S.I., Napoli 1991; Sacro e poesia, in “Atti del ciclo di incontri sul tema ‘Oltre il limite’, CUT La stanza, Brescia 1992; Letteratura e critica nel pensiero di T.S.Eliot (II), in “Testo”, 26 (Lu.~dìc.1993),pp.3‑26; Struttura e personaggi dei “Promessi sposi”, Jaca Book, Milano 1994; La “religione” di Leopardi e la condizione della poesia moderna, in “Otto‑Novecento”, N.S., a.XXII, Gen.‑Ago.1998, pp21‑37; Unità e dualità nei “Promessi sposi in “Studi in onore di Gianvito Resta”, in corso di stampa.

NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.3.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.