La ricerca dell’Assoluto in Clemente Rebora

Tematiche: Letteratura

Parlare di Rebora mi fa immensamente piacere: tutta la vita di Rebora è stata un itinerario verso l’assoluto e una volta che l’ha raggiunto, ed è diventato rosminiano, l’unica sua preoccupazione è stata quella di vivere in modo totale questo rapporto con l’assoluto. Quello che dirò sarà un po’ un intersecarsi di tematiche che riguardano la biografia di Rebora e di tematiche che riguardano ovviamente la sua poesia, chiaramente in maniera molto sintetica, perché qualche volta si potranno fare soltanto degli accenni, sperando che gli accenni invoglino ad approfondire il discorso.

Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885: notino bene che nasce il giorno dell’Epifania e muore il giorno di Ognissanti. Per lui, che era attento a tutti i segni, questo era molto importante. I suoi genitori, specialmente il padre, seguono un po’ la tradizione risorgimentale di Mazzini. In famiglia non si vive la tradizione cattolica, tuttavia, più sotto la spinta dei parenti e dei conoscenti che non per vera convinzione, il bambino viene battezzato. E Rebora penserà sempre che il battesimo in lui abbia fatto nascere una specie di esigenza che lo spingeva senza tregua verso Dio. Come carattere tendeva ad essere abbastanza irregolare; per esempio i genitori non riuscivano mai a farlo camminare sul marciapiede quando uscivano e questa abitudine la conserverà anche molto più tardi. La sua vita era intessuta di atti di generosità grandissima, ma anche di dispetti, quindi un continuo altalenare, e nel Curriculum vitae che scriverà quando era già rosminiano, verso la fine della sua vita, in cui ripercorre la sua esistenza alla luce di Dio, egli nota che fin da piccolo aveva il senso dell’infinità, della immensità. Ed era anche molto riflessivo. Molte volte si chiudeva in se stesso e pensava. Quando va al ginnasio riflette sul suo nome, che all’inizio non portava con molto piacere, ci teneva ad essere vivace piuttosto che buono nel senso di remissivo, e nota che da Clemens si può ricavare Ens Mens Clemens e questo per lui è un barlume che gli fa intravedere la trinità. Ama la natura, nella casa di campagna va nei campi, gioca, ed è soprattutto attento alle parole e a quello che fa il contadino Carlo e si innamora della gente semplice. Questo sarà un tema fondamentale della sua esistenza. Ed apprezza, per esempio, anche i cibi della campagna. C’è un tema che ritorna anche nelle lettere di Rebora, la polenta, che lui vede come una specie di rappresentazione del sole, luce che però accetta, si accontenta di tramontare in noi, quindi per lui diventa un simbolo del dono. Rebora, anche prima della conversione, ha una sensibilità religiosa eccezionale, cioè sa cogliere tutti i simboli della religiosità. Egli ama la natura perché gli permette il silenzio, perché è armonia. Dove si vedono delle tensioni, queste si risolvono in un’armonia superiore, perché la natura è generosità. Vedremo che Rebora concepirà la vita come zampillare. Tuttavia ben presto, fin da adolescente, egli avverte un profondo disagio esistenziale. Da una parte egli è proteso verso i grandi ideali, ha una tensione intensa verso l’infinito, però spesso ricade, spesso si sente deluso perché questa tensione la vorrebbe vivere ancora più intensamente e non se la sente perché le sue forze sono deboli. Si sente come l’allodola, dirà più tardi, un’allodola però legata, che cerca di volare e non si può staccare da terra. E questo gli crea un profondo rovello. I suoi problemi sono problemi interiori, problemi di senso della vita e quando sente che la gente gli dice di badare alle cose concrete (… basta la salute, perché ti vai perdendo in queste cose astratte…) egli rimane molto colpito. Ad un certo punto, sono parole sue, ha l’impressione di avere sbagliato pianeta [Curriculum vitae]. Perciò prova un profondissimo senso di solitudine. Non capisce gli altri e non riesce a farsi capire, perché le sue preoccupazioni sono profondamente diverse da quelle degli altri. Nel 1903 inizia l’università, e qui conosce personaggi di grande valore come Antonio Banfi, filosofo, poi anche senatore, e Angelo Monteverdi, il grande filologo romano. Egli esternamente è apprezzato da tutti, per la vivacità, anche per la sua persona attraente, addirittura affascinante. Però c’è una distonia tra questo apparire esteriore e la sua interiorità, che è invece profondamente tormentata. Gli altri, egli vede, sono concreti. Fanno le cose necessarie per inserirsi nella vita, invece egli si perde verso preoccupazioni, verso aspirazioni che non hanno niente a che vedere con l’utile immediato.

E se si sentiva solo ai tempi dell’adolescenza, si sente solo anche adesso, durante il periodo dell’università. Non riesce nemmeno a studiare come gli altri; studiare in maniera mnemonica per preparare un esame per lui non aveva senso. Egli studiava tutto, ma dal suo punto di vista, punto di vista che gli interessava nel senso della vita e della tensione verso l’assoluto. Potremmo dire che egli è incapace di pensare alla vita concreta dal punto di vista dell’utilità; potremmo dire che egli è il primo grande inetto della letteratura italiana del ’900. Molti scrittori hanno rappresentato inetti nei loro libri, ma erano molto bene inseriti. Invece lui ha vissuto sulla sua pelle questo senso di inettitudine ad inserirsi nella vita, perché è un po’ come il famoso albatro di Baudelaire, che riesce soltanto a volare e quando si abbassa sulla terra non riesce a camminare, appunto perché è fatto per una dimensione diversa. Anche il suo comportamento verso le donne è diverso da quello di tutti gli altri suoi amici. Egli conserva una castità rigorosa, proprio perché si accorge che il modo in cui veniva inteso il rapporto uomo-donna in quel periodo, soprattutto da parte di molti scrittori, era per lui inaccettabile. La donna, come vedremo più avanti, per lui è un qualcosa di sacro, è essenzialmente madre, è essenzialmente capacità di dono, non strumento di piacere, non strumento di interesse. Però questa situazione indispettisce il padre, che era un uomo piuttosto concreto. Insomma, di fronte al padre Clemente diceva di sentire queste istanze: – I miei sentimenti sono questi e il mio cuore mi porta a questo-. E il padre ad un certo punto lo rimprovera in maniera piuttosto decisa, perché gli anni passavano e non si laureava. E gli dice: – Tu devi usare la ragione e non abbandonarti al cuore -. Rebora, che era profondamente buono, è colpito in maniera tremenda da questo rimprovero. Ad un certo punto medita il suicidio, e lo tenta. Poi però riesce a superare il momento di crisi e scrive al padre: – Sì, sono d’accordo con te che io devo cercare di essere più concreto, che devo cercare di ragionare, ma lasciami dire che dopo che ho tentato di fare questo con grande sforzo mi devi anche concedere di lasciare spazio al mio cuore e di lasciare spazio alla mia tensione verso il volo, verso l’infinito -. E proprio per obbedire al padre incomincia in maniera decisa a preparare la tesi di laurea, che era su Romagnosi. E sente tutta la ristrettezza di questo personaggio che, dal punto di vista di Rebora, badava alla mondanità, al mondo all’interesse, all’utile, all’organizzazione concreta della vita, ma non aveva i voli, i voli in senso positivo, che invece dominavano l’anima di Rebora. E tuttavia egli accetta di sottomettersi a questa disciplina e riesce a laurearsi. Come tesina, perché allora si portava anche una tesina, porta un lavoro su Leopardi, Per un Leopardi mal noto, in cui studia il valore e il significato della musica in Leopardi. Sappiamo che per la letteratura del periodo il tema della musica, anche per la poesia era molto importante, era fondamentale; però secondo Rebora la musica autentica doveva essere un qualcosa che avvicinava all’assoluto, all’infinito, quindi doveva essere una musica sorgiva, spontanea, non una musica dominata da schemi cerebrali. Per Rebora l’arte diventa, almeno in questo momento (è l’unico mezzo che lui ha), lo strumento privilegiato, ripeto in questo momento, per avvicinarsi all’assoluto. Ed egli pensa, un po’ pitagoricamente, che la realtà stessa sia costituita dall’armonia. Però ancora una volta Rebora non si ferma alla realtà nella sua limitatezza, egli tende sempre all’assoluto, perciò egli pensa che l’armonia vada intesa come bontà. Cioè l’armonia è unione di momenti, di aspetti diversi, ma la bontà è unione. Quindi si può dire che l’armonia è amore, la realtà è retta in qualche modo dall’amore, e l’amore per sua natura porta una vastità immensa, perché chi ama vuol amare tutto il bene ovunque sia nella sua totalità. Nel maggio del 1909 in una lettera scrive: “Mi convinsi che la bontà è l’unica realtà alla quale l’anima si avvicina quando è più vasta- notiamo bene il senso della vastità- più divina e meravigliosa d’amore; che l’arte ci prepara ad accedervi e che in singolar modo la musica la interpreta più da vicino e quasi direi la crea; e che il sollievo più possente- notiamo bene il sollievo più possente- della vita è l’aspirazione infinita a questa vastità, -notiamo bene il ripetersi di queste parole come infinito, vastità- a questa vastità che ci circonda, nel qual tendere è anche l’unica moralità”. Quindi per Rebora se la musica, se l’arte avvicina l’assoluto, questo assoluto è la bontà. E nel tendere alla bontà è l’essenza della moralità. Per Rebora il vero ideale verso cui sente di poter tendere in questo momento è quello di sacrificarsi totalmente perché gli altri abbiano quello che lui non ha, quindi dono totale. Rebora, abbiamo visto bene, è in continuo tumulto nel suo animo, non riesce a realizzare niente, eppure ha il dono stupendo di dare invece unità alla vita degli altri, di consigliarli bene, di renderli concreti, quindi egli effettivamente dà agli altri quello che non ha, e che vorrebbe avere, che però in pratica non ha. Ed egli è ben contento di rinunciare a queste prerogative pur di darle agli altri. Vedremo più avanti che la sua vocazione, da adesso, ma anche quando sarà religioso, è quella di essere concime per l’albero della vita. Quindi dare agli altri, magari disprezzato, magari misconosciuto quello che egli non può avere.

Si laurea, abbiamo visto, finalmente. Però questa situazione di disadattamento si accresce. Sì, egli ha delle supplenze, però molto scomode, a Treviglio, Novara, e allora era anche difficile tornare continuamente a Milano; quindi trova qualche alloggio, anche molto scomodo, e perde moltissimo tempo sui treni. Non riesce a vincere un concorso, appunto perché non era capace di studiare in modo sistematico e una volta, quando si sente veramente trattato in modo ingiusto, litiga con la commissione, come aveva litigato con qualche professore anche quando era all’università, perché non sapeva adattarsi all’ipocrisia, all’ingiustizia. E ad un certo punto il padre fa intervenire un generale che riesce a fargli assegnare una cattedra, che tuttavia egli rifiuta perché non accettava raccomandazioni. Questo era un comportamento ingiusto e quindi lo rifiuta. E non solo egli è incapace di adattarsi alla vita, vero inetto in senso positivo, in senso sublime, se volete, ma non riesce nemmeno ad adattarsi a nessun indirizzo ideologico, a nessun movimento culturale.

E come frutto, come espressione di questa situazione di disagio, di tensione, nascono i Frammenti lirici, l’opera poeticamente più importante di Rebora, che vengono pubblicati nel 1913. È molto istruttivo ricordare i titoli che lui proponeva per quest’opera a Prezzolini. Ne cito alcuni, perché molto significativi. I guinzagli del Veltro (il veltro è una figura anche dantesca, però per Rebora il veltro era l’aspirazione all’eterno); Chicchi dell’immenso (ecco ancora il senso d’infinito); La sponda e il mare (e il mare è infinito); infine Il nuovo Fedone (e voi sapete che il Fedone è il grande dialogo di Platone che parla della morte, che per Platone è apertura alla vita autentica perché è andare verso la verità e verso l’autentica realtà). Quindi essi manifestano, proprio nei titoli che egli voleva dare, questa aspirazione all’infinito e all’eterno che egli non riesce a concretizzare e ad attingere.

Ma vediamo meglio. Nelle lettere del periodo in cui Rebora pubblica Frammenti lirici noi troviamo delle espressioni molto significative, che anticipano molte tematiche della filosofia e della poesia del ’900. Per esempio, egli esprime più volte un senso di nausea perché il mondo è un caos incomprensibile. Sartre dice che la realtà suscita la nausea perché è incomprensibile e inspiegabile e ingiustificabile. Ecco alcune espressioni molto efficaci tratte dalle Lettere: Rotolo di ora in ora (ecco la vita priva di qualsiasi senso); Provo un senso infinito di umidore, di grigio affogare, di corrosione e sgretolamento– è ancora il senso di nausea- di scolo di fogna.

Eppure, direi anzi proprio per questo, la tensione, l’aspirazione all’infinito, all’eterno è ancora più intensa in Rebora. Egli ha l’impressione chiara che l’uomo sia un enigma, sia un essere composto di due aspetti che per certi versi sono contrastanti fra di loro: “l’enigma del finito” è un’espressione proprio reboriana. Da una parte l’uomo aspira all’infinito ed aspira all’eterno, però nello stesso tempo è limitato, misero, caratterizzato da tantissime deficienze. Rebora sottolinea in maniera efficacissima il senso di contingenza che gli dà la realtà. Egli dice che il tempo è “vorace”, porta via tutto, è “usura”. Le cose gli appaiono costitutivamente fragili. Sono quasi tutte espressioni estratte dai Frammenti lirici, come queste:

L’essere guardo come aria nell’aria / vanire [Fr. XLIII]: senso quindi di pericolo, senso di minaccia.

Le cose battono i denti [Fr. XLVII]: la paura, la paura di svanire, di andare, di cadere nel nulla.

Quindi ecco un senso di nulla, anche questo è un tema che nel ’900 è importantissimo e fondamentale, cioè le cose trapassano continuamente nel nulla. Sentite questa espressione: Vuoto rombar di sepoltura [Fr. LIX], che comunica un senso di angoscia. Pensiamo a Heiddegger, al senso di angoscia, per cui tutte le cose sono insicure, possono cadere nel nulla, al senso di sgomento. E anche l’uomo è almeno in parte sottomesso a questo passare, a questo divenire, perché il passato si allontana sempre più, diventa un qualcosa di sempre più inconsistente. Il presente è un qualcosa che tende a scomparire, e il futuro (abbiamo visto il senso di pericolo perché tutto è minacciato), il futuro è soltanto una minaccia. Però, ecco il senso di tensione, di contrasto all’interno dell’uomo. L’uomo è misero, per certi versi è sottoposto al tempo, quindi anche allo scomparire, però egli è l’unico che ne ha coscienza ed avendone coscienza in qualche maniera riesce a mettere insieme, ad unire presente, passato, futuro; quindi egli per un certo verso è soggetto al tempo, ma per un certo verso lo supera. Ed ecco allora che l’uomo, proprio perché sente questo svanire, sente il tempo che porta via, tende ancora più intensamente all’eterno. E questa tensione tra due aspetti, noi la vediamo in Rebora da un altro punto di vista. Egli tende all’infinito, ma l’infinito da un punto di vista simbolico si esprime nell’alto. Il cielo è proprio per lunga tradizione religiosa il simbolo dell’infinito, il simbolo dell’assoluto, il simbolo della trascendenza. Quindi Rebora sente fortemente questa tensione verso l’alto, però nello stesso tempo sente anche un qualcosa che lo trascina, che lo porta verso il basso: lo abbiamo visto prima nell’immagine dell’allodola, l’allodola legata. Egli amava molto la montagna perché amava la natura, ma amava la montagna anche perché dava questo senso di altezza, e quando egli si dedicherà totalmente alla vita religiosa chiamerà la sua ascesa interiore “un alpinismo spirituale”. L’altezza, ho detto, è il simbolo del divino come lo è il cielo; la montagna dà il senso dell’infinito: quando guardiamo intorno, essa è il centro dell’universo perché unisce le tre regioni dell’universo, cioè cielo, terra e ciò che c’è sotto la terra. Tutte le grandi religioni hanno una montagna sacra, l’Olimpo, il Golgota, per noi, il Sinai, il Tabor, anzi in molti casi i templi dedicati alle divinità erano proprio costruiti sulle montagne, e Rebora vive intensamente questo simbolismo religioso dell’altezza, della montagna, però nello stesso tempo si sente spinto da un’altra forza verso la terra, si sente legato alla terra.

Un altro contrasto è quello tra bene e male. Egli sente l’aspirazione ad essere buono, ad essere generoso, però nello stesso tempo sente l’attrattiva del male, del chiudersi in se stesso, dell’egoismo e qualche volta dice: Cristo ha ragione e Machiavelli vince [Fr. XXXII]. Cioè: Cristo ha ragione, vedo che l’ideale sarebbe questo, purtroppo Machiavelli vince concretamente perché anch’io faccio quello che è utile concretamente. Quindi possiamo dire che l’uomo è questo enigma, questo contrasto e la vita è misera e grande nello stesso tempo. Rebora cerca una soluzione a questo problema di fondo, a questo enigma nell’amore perché soltanto l’amore, egli ritiene, può dare il senso dell’infinito e dell’eterno; infatti abbiamo visto che l’amore apre a tutto il bene, vuole amare tutto, perché un amore a tempo è un amore che non ha senso. Quindi l’amore autenticamente vissuto può essere un mezzo per raggiungere in qualche modo l’infinito e l’eterno. Per questo Rebora vuole amare, e per questo ogni tema fondamentale che è presente quasi in ogni lirica dei Frammenti lirici è proprio questo, il tema dell’amore. Pensiamo, per esempio, a come Rebora concepisce la vita. Rebora ha presente, e sviluppa in tutte le sue sfumature, la tematica della vita, della vita però come slancio, come zampillare, come creatività, come libertà, come amore, in contrasto col modo in cui veniva concepita la realtà del positivismo, che ha invece un qualcosa di statico, dominata da leggi necessarie, senza slancio e senza libertà. Egli pensa alla vita come a un albero. Nel paradiso terrestre c’era l’albero della vita, c’era l’albero della conoscenza del bene e del male. Perché l’albero è simbolo della vita? Perché dà l’impressione di morire, ma poi in primavera risorge e invece quelli che non perdono le foglie sono il simbolo, quasi, dell’eternità della vita. Anche l’albero unisce le tre regioni, con le radici sotto terra, con il tronco sulla terra, però la sua vetta tende verso l’alto, quindi è caratterizzato dalla verticalità, dalla tensione verso l’alto. Per tutti questi motivi per noi l’albero è importante proprio da un punto di vista religioso ed è importante ancora di più per questo, perché l’albero è costitutivamente dono, è amore, senza l’albero non ci sarebbe l’uomo, perché non ci sarebbe l’ossigeno, perché non ci sarebbero i frutti, non ci sarebbe il legno, non ci sarebbe il fuoco (almeno fino ad un certo punto il fuoco veniva acceso con il legno). Quindi per Rebora l’albero è simbolo del dono, è simbolo dell’amore. Se la vita è un albero, la vita è amore. Ma la vita è un altro simbolo che è presente in Rebora, ma che è presente anche in Bergson e in tanti altri filosofi contemporanei, quello dell’acqua che zampilla. L’acqua, notiamo bene, è dono, è ritenuta secondo la tradizione religiosa il dono più grande della divinità perché senza acqua non c’è vita. L’acqua è dono, ma nello stesso tempo dona perché essa dà la vita. Quindi l’acqua è simbolo di vita ed è simbolo di amore, dice cioè che la vita è costitutivamente amore. L’acqua dà la vita e la ridà, perché purifica chi è sporco, chi è vecchio, rifonde ciò che è vecchio, lo rigenera e gli dà vita nuova. Secondo Rebora il simbolo più bello dell’acqua come dono è quello del ruscello, il quale si butta totalmente nel fiume, senza conservare niente di se stesso. E nella stupenda lirica Inaridita la terra [dalle Poesie sparse] noi troviamo che per Rebora l’uomo ha sete e l’acqua che lo disseta è colui che è la fonte di ogni acqua di vita eterna, è cioè Gesù.

Un altro tema presente nei Frammenti lirici, legato a quello che stiamo dicendo, è la concezione reboriana della ragione. La concezione reboriana della ragione è sostanzialmente quella di Bergson. Per Bergson la ragione è utilitaristica, è un po’ l’anticipazione di quella ragione strumentale di cui parleranno i filosofi della scuola di Francoforte, cioè serve soltanto per l’utilità pratica. Quindi essa non ci fa conoscere l’autentica realtà, l’autentica realtà per Rebora è conosciuta dal cuore. Qui Rebora forse si rifà a Pascal, ma direi che forse immediatamente si rifà soprattutto a Leopardi. Pensiamo alla tematica del cuore e al senso dell’animo di Leopardi: la vera conoscenza per Rebora è una conoscenza amorosa che è rispettosa della realtà, la coglie com’è in tutte le sue sfumature e cerca di creare unità e di creare amore. E sulla scorta di questa tematica Rebora sviluppa anche la tematica del contrasto tra città e campagna. Abbiamo visto la campagna silenzio, armonia, generosità e abbiamo cercato di illustrarlo parlando della vita come albero e come acqua. Invece nella città si tende all’utilitarismo, si tende all’egoismo, quindi c’è divisione, tensione, contrasto e c’è appunto un senso di grande rumore, di grande confusione. Rebora però non vive questo contrasto in maniera limitata. Egli pensa di rientrare in città, cioè non pensa di abbandonare la città a se stessa, ma pensa di ritornare in città con lo slancio d’amore per trasformare anche la città.

Dopo i Frammenti Rebora si sente sempre più in crisi e ad un certo punto è colpito sempre più intensamente dalla forte personalità di Sibilla Aleramo. E se ne innamora. Sibilla Aleramo lo rifiuta e gli preferisce un altro. Forse colpito anche da questo, Rebora incomincia a vivere con una pianista russa, Lydia Natus, che aveva conosciuto attraverso le sue frequentazioni musicali, una donna che indubbiamente aveva delle qualità, aveva delle doti anche di generosità. Però da quando se ne innamora, da quando comincia a vivere con questa donna, egli sente anche profondamente l’insoddisfazione. Dunque in fondo aveva anche cercato un rapporto con una donna perché aveva anche pensato: – Se in nessuna maniera riesco a superare la mia crisi interiore, mi sembra giusto anche tentare questa via -. Anche perché egli è tormentato da un senso di colpa, da un senso continuo di insoddisfazione.

Viene poi la guerra (vado avanti a tappe molto sinteticamente). Inizialmente Rebora non la prende molto sul serio, perché la vede da lontano. Però quando entra dentro la guerra la vive con una intensità straordinaria. Egli che, come abbiamo visto, pensava che l’unico ideale autentico che si potesse vivere fosse quello della bontà, vive a contatto con l’odio, una specie di odio istituzionalizzato. L’unico aspetto che lo salva è l’amore per i soldati, per i soldati semplici, così generosi, così capaci di amare. Ed egli desidera di potere sopravvivere alla guerra per cantare questi soldati semplici che sono capaci di amare. Ad un certo punto avviene un episodio che lo impressiona molto, cioè una granata gli scoppia vicino. È chiaro che da un punto di vista psicologico è un contraccolpo terribile e quindi è colpito da un esaurimento nervoso piuttosto importante. D’altra parte abbiamo detto che la Natus non era una persona superficiale. Ella dice, promette, fa un voto alla Madonna, che se fosse sopravvissuto ai pericoli della guerra, e ai pericoli anche della malattia, lo avrebbe lasciato. Viene curato dall’esaurimento. Ad un certo punto va a Mantova dove era stanziato il suo battaglione e un medico lo visita e lo rassicura dicendo che è solo un po’ nervoso, gli suggerisce di “andare a donne” che avrebbe risolto tutti i problemi. Rebora lo guarda, prende un calamaio che era sul tavolo, glielo butta sulla faccia. Era incapace di essere ipocrita. Ovviamente questo gli poteva costare anche la vita, perché si era in periodo di guerra; invece lo ricoverano nel manicomio di Reggio Emilia, e lì il medico stila una diagnosi: “mania dell’eterno”. Colpito dalla mania dell’eterno, per dire come fosse quasi una specie di ossessione questa tensione all’assoluto. Dopo la guerra e dopo tutte queste terribili tempeste, Rebora rimane esausto e veramente la vita per lui non ha nessun significato e ritornano quei sensi di nausea, di sgomento, di pericolo che avevamo già notato prima. Però a poco a poco si riprende e gli nasce un senso profondo di attesa, di attesa di un qualcosa di grande che doveva nascere nel suo cuore. Ed è in questo periodo, nel 1920 più o meno, che nascono i Canti anonimi. Anonimi perché egli voleva esprimere non la sua personalità, ma la personalità degli altri, di tutte le persone semplici che sanno amare. E in una lettera alla madre dice: “Il D’Annunzio è capace di mettere da parte tanti tesori per beneficare in suo nome, io metto tutto nella cassa comune e voglio che il mio nome scompaia, e voglio che il bene mio sia il bene di tutti senza che nessuno lo sappia”. Anche sotto la spinta precedente della Natus che, come abbiamo visto era di origine russa, comincia a frequentare degli scrittori russi, che traduce anche, come Andreev, come Tolstoj, come Gogol ed è colpito in maniera particolare da L’idiota di Dostoevskij. Effettivamente se leggiamo attentamente il romanzo di Dostoevskij questa persona totalmente generosa non era capace di fare del male a nessuno, e in questo è molto simile a Rebora. Direi che riceve ancora un’ulteriore spinta verso l’amore, verso la dedizione totale. E poi incomincia ad interessarsi anche di religioni orientali. Per esempio quando Tagore viene in Italia lo va a trovare, legge e si informa di Gandhi, e ancora una volta il tema che più gli interessa è il tema dell’amore. Però soprattutto lo aiuta in questo momento Mazzini. Abbiamo visto che Mazzini era una tradizione di famiglia. Egli cosa prende da Mazzini? La concezione che Mazzini ha di Dio è una concezione molto generica e molto vaga. Tuttavia Mazzini insiste a sua volta sull’amore. Cioè secondo Mazzini lo scopo principale della nostra attività e del nostro tendere deve essere la divinizzazione dell’umanità attraverso l’amore, attraverso l’unione di tutte le patrie e quindi di tutta l’umanità. Perciò l’uomo deve produrre, deve originare una nuova vita che deve essere una vita spirituale basata essenzialmente sull’amore. Cristo viene visto come una di queste manifestazioni della tensione all’amore, una delle tante, non l’unica, e la Madonna viene vista più che come persona concreta come una specie di simbolo della maternità. L’ideale è unire tutta l’umanità ed egli è contro il papa che non voleva unirsi allo Stato, voleva avere il suo Stato separato da quello italiano ecc. quindi era profondamente mazziniano da questo punto di vista perché dice: – Roma deve diventare amore, ma prima di tutto deve esserlo il papa che deve rinunciare ai suoi privilegi -. E da questo punto di vista Rebora diventa veramente quasi ossessionato dall’importanza della donna. Per lui deve nascere una nuova vita che è una vita d’amore e chi può dare origine a questa vita? Soltanto la donna, la donna che deve essere soprattutto maternità. Anzi lui dice: – Io stesso mi sento mamma e io cosa devo fare? Devo essere il concime per l’albero della vita. Il mio destino è di donarmi-.

E nella sua vita concreta aiuta i poveri, dà tutto. Per spingere l’umanità, prima di tutto gli uomini di cultura, a questa unità di tutta l’umanità, egli riesce a combinare con l’editore Paravia la pubblicazione di quelli che lui chiama Libretti di vita, cioè dei libretti che devono favorire questa unità. Prima di tutto in questi libretti devono essere presenti tutte le religioni, non il cristianesimo solo, e devono essere presenti i grandi spiriti di tutte le grandi culture. Quindi da Budda, a Plotino, a S. Agostino… Rebora era entusiasmato da questo progetto, però i Libretti non vengono purtroppo molto venduti e quindi la cosa è destinata a fallire. Allora egli si accosta al così detto “Gruppo di Azione per le Scuole del Popolo”. Egli si sente molto vicino a questo tipo di scuola perché, come abbiamo visto, era stato colpito dalla bontà del popolo, della gente semplice. Le persone che inizia così a frequentare di più sono Giulietta e Adelaide Coari. Soprattutto la pedagogista Adelaide Coari è stata un personaggio molto importante dal punto di vista dello sviluppo delle scuole italiane: è stata ispettrice, ma ha svolto un compito anche teorico, oltre che organizzativo. Esse parlano di frequente con lui, gli suggeriscono dei libri da leggere ed egli viene anche in contatto proprio tramite questo gruppo con Ezilde Carletti, che si è molto avvicinata alla spiritualità rosminiana tramite padre Bozzetti, che allora era il generale dei Rosminiani e andava spesso a Milano a fare delle conferenze (come fanno ancora adesso i padri rosminiani) e in silenzio, senza dirgli niente (Rebora lo verrà a sapere dopo), aveva offerto la sua vita per la conversione di Rebora.

Nel 1928 accade un evento straordinario che incide molto sulla vita di Rebora. Durante un corso di storia delle religioni, egli vuole parlare dei martiri scillitani, perché i martiri scillitani erano tutte donne. E quindi l’importanza della donna, il valore della donna, ho detto, era diventato un tema fondamentale. Egli inizia la conferenza al Lyceum di Milano e legge gli Atti. Queste donne martiri si presentano ad una ad una e quando viene chiesto: -Tu chi sei, cosa vuoi ecc. – rispondono: “Sono cristiana”. Poi dirà: “Ho sentito anch’io l’impulso di dire Sono cristiano”. Però non l’ha detto, ha avuto una specie di folgorazione, non ha più potuto parlare. È stato muto per un po’ di tempo, poi ha cominciato a singhiozzare. Nell’aula, silenzio assoluto. È stato trasportato in una stanza vicina e dopo qualche tempo se ne è andato. E da quella volta, fino a qualche anno dopo il suo ingresso dai Rosminiani, non ha più parlato in pubblico, perché egli ha avuto la sensazione, la folgorazione, che Dio lo volesse avvicinare a se stesso. Scrive nel Curriculum vitae: “La Parola zittì chiacchiere mie”. Come dire: io avrei parlato male di queste martiri, avrei interpretato il loro agire mazzinianamente, e Dio me l’ha impedito, mi ha impedito di fare del male.

Le persone, soprattutto le donne che gli erano vicine, hanno continuato sempre più a frequentarlo, a dargli dei libri sulla Sacra Scrittura, sulla teologia cattolica, sulla liturgia cattolica; ogni tanto facevano qualche accenno in maniera sapiente. Nell’Epifania del 1929 abbiamo una lettera nella quale Rebora (pensiamo alla nausea, all’angoscia, al senso di pericolo che c’era prima) dice: “Sono felice di essere nato”. Quindi in lui è avvenuto un capovolgimento totale. E lo aiuta a diventare cristiano anche un altro evento. L’11 febbraio del 1929 vengono firmati i Patti Lateranensi, e questo per lui era un altro segno di Dio, perché il Papa aveva cercato l’unione, aveva accettato l’unione, superate quindi tutte le contrapposizione, le tensioni. È il luglio dello stesso anno, e ad un certo punto sente il bisogno di pregare. A Merano, nella chiesa di S. Leonardo, egli si raccoglie dopo aver guardato la chiesa stessa. Incomincia a riflettere, e pensa alla neve che aveva appena visto sulle montagne. E questo candore della neve gli ricorda (pensiamo all’importanza dei simboli religiosi in Rebora) l’acqua virginale di Maria che purifica le nostre colpe, e improvvisamente comincia a recitare l’Ave Maria. Papa Roncalli, che allora era nunzio in Turchia, si fa mediatore perché Rebora possa parlare con il cardinale Schuster, che lo affida a qualcuno che lo possa istruire, che lo possa guidare, e quindi Rebora si avvicina alla prima comunione. Possiamo dire che Rebora diventa cristiano sotto la spinta di una istanza di amore, in quanto egli nel cristianesimo trova la risposta al suo problema: come va concepito l’amore, che cos’è autenticamente l’amore. C’è una lettera al fratello, che da questo punto di vista è veramente stupenda, nella quale scrive che tutte le altre religioni che egli aveva frequentato sono religioni egoistiche, non dominate dall’amore; infatti tutte badano alla realizzazione dell’uomo sulla terra, tutte sono in vista dell’uomo e non in vista di Dio. Pensiamo a Mazzini, che diceva che lo scopo della Religione, della religiosità dell’agire umano, doveva essere la divinizzazione dell’uomo. Mazzini dice esplicitamente: non mi interessa quello che c’è al di là, mi interessa quello che c’è al di qua. Quindi tutte le religioni, comprese, almeno nella concezione di Rebora, anche alcune religioni orientali non hanno una vera concezione dell’assoluto, e dell’assoluto come amore distinto dal mondo e dalla realtà che ci circonda. Quindi sono religioni egoistiche. D’altra parte Rebora sente sempre più intensamente che il mondo non basta l’uomo, perché l’uomo vuole tutto, vuole amare tutto, l’amore vuole amare il bene e tutto il bene. E allora questo bene può essere soltanto il bene infinito. E, notiamo, per Rebora questo bene infinito che è l’unico che può saziare la tensione dell’uomo, è anche l’unico essere che può veramente amare. Infatti, siccome egli è la perfezione assoluta, se fa qualcosa, se produce un qualche cosa di diverso da sé non lo fa per interesse suo, perché non ha bisogno di niente, ma lo fa soltanto per amore, lo fa disinteressatamente. E quindi Rebora si sente come un dono di questo amore, e sente l’istanza di amarlo in maniera totalmente disinteressata. Allora possiamo dire che per Rebora il cristianesimo è l’unica soluzione ai suoi problemi, alle sue ansie, alle sue angosce, perché è la risposta all’autentico senso dell’amore. L’amore così concepito è il senso ultimo dell’esistenza, giustifica tutto in sé, alla propria giustificazione non ha bisogno di niente, assolutamente di niente altro. All’inizio è l’amore e alla fine è l’amore, ed è stupendo notare come, per esempio nelle lettere dal ’28 al ’29, ci sia un continuo sviluppo anche terminologico sul modo di esprimere l’amore. Se abbiamo visto che il Dio mazziniano è difficilmente concepibile come una persona, ebbene possiamo dire che le espressioni di Rebora fanno sempre più risaltare che Dio deve essere una persona, perché se è amore deve essere persona, nel senso che l’amore autentico è frutto di libertà, ma soltanto la persona è autenticamente libera. E a poco a poco entra anche la tematica della trinità. È molto importante, perché noi sappiamo che la trinità è l’esistenza in un’unica sostanza di tre persone che sono se stesse soltanto in quanto una in rapporto con le altre, il padre è il padre soltanto perché in rapporto con il figlio, il figlio è figlio soltanto perché è in rapporto con il padre, quindi l’amore è soltanto frutto di una persona e la persona si realizza soltanto nell’amore. E a poco a poco noi vediamo che Cristo non è più una delle tante manifestazioni, delle tante rivelazioni, ma diventa l’unico rivelatore e l’unico salvatore. Maria non è più un simbolo, ma è una persona concreta che ama e che avvicina a Gesù. Rebora concepisce veramente l’umanità come aspirazione al corpo mistico, cioè ad un amore totale. Qui penserei un po’ alla società teocratica di Rosmini, cioè ad un rapporto totale di amore tra tutte le persone indistintamente con al centro Dio, che è l’amore da cui deriva ogni amore delle persone umane.

A questo punto io dovrei parlare del Rebora rosminiano. Possiamo dire che il Rebora rosminiano vive quello che abbiamo detto, vive questa istanza, perché Rosmini, sostanzialmente, aveva proposto l’amore in questo senso. Ed egli confessa che quando entra nei Rosminiani, e allora, come tutti sapranno, spesso si leggeva durante i pasti qualche lettura edificante, ebbene mentre leggevano queste pagine di Rosmini sull’amore egli diceva: “Anche le mie ossa sembrava che andassero a posto perché mi sentivo a mio agio”. Ed ecco che allora Rebora sente veramente la sua esistenza come totalmente piena di Dio e dedicata a Dio. Il suo libro prediletto diventa il messale, che egli postilla continuamente, e quando si avvicina alla liturgia è talmente commosso che spesso diventa anche maldestro. Piange. Quando egli pronuncia i voti religiosi è preso da tanta commozione che il padre che li riceveva deve intervenire per aiutarlo. Anche nella realtà tutto è visto dal punto di vista di Dio: per esempio si alzavano alle 5, per ricordare le 5 piaghe di Cristo, andavano a mangiare alle 7, per ricordare i 7 dolori della Madonna, il campanile batteva il quarto, la mezza, i tre quarti, il quarto il Padre, la mezza Padre e Figlio, i tre quarti Padre Figlio e Spirito Santo. Poi egli voleva donare tutto se stesso a Cristo e tramite Cristo a tutta l’umanità, quindi aveva un senso profondo del sangue, perché chi ama deve per forza essere pronto a dare anche il suo sangue. E quindi la professione religiosa diventava una specie di offerta di martirio. Pensiamo che Rosmini ha pronunciato i primi voti lui, come fondatore dell’Istituto della Carità, con i primi che l’avevano seguito, nelle catacombe, proprio per dare questo senso di martirio, e Rebora era come inebriato di questo e prendeva tutti questi segni. Per esempio, la mattina quando egli sarà per essere ordinato diacono si taglia la barba, ecco il sangue, il simbolo; quando viene ordinato sacerdote, prima dell’ordinazione, gli esce sangue dalla bocca. Quindi egli vive tutta la vita pervasa assolutamente dalla dedizione totale e fa un voto: di vivere solo per Cristo e per gli altri essendo dimenticato, dimenticato dice, come il concime che sembra che non conti niente, anzi fa schifo, però è necessario, come il pavimento su cui si cammina che però si dimentica subito: “Vorrei essere come il pedale di un organo che nessuno vede, e però effonde una musica stupenda nella chiesa”. Quindi totale dedizione e totale tensione verso l’alto. E credo che niente possa esprimere questa tensione meglio di una poesia di Rebora stesso. Loro sanno che Rebora quando diventa religioso, all’inizio, non scrive niente; poi scrive il Curriculum vitae che è un mostrare come Dio l’abbia sempre seguito nonostante lui fosse lontano, gli fosse sempre presente per indirizzarlo, Dio che egli vedeva e intravedeva in tutte le cose. Cristo lo vedeva, per esempio, anche in una rupe, lo vedeva in un agnello e in una pecora (Cristo e la Madonna), che gli salvano la vita perché con il loro belato gli indicano la strada giusta… Vede Cristo e Dio dappertutto. E termina con i Canti dell’infermità. Ebbe infatti una infermità terribile a causa della malattia, che lo faceva vergognare, quindi prendeva alla lettera l’affermazione del salmo … et de stercore erigens pauperem… Gli ultimi giorni della sua vita sono stati terribili, perché aveva paura di essere abbandonato da Cristo, di avere sbagliato tutta la sua vita, poi sragionava, aveva paura di essere avvelenato. Poco prima di morire si è rasserenato, in maniera trasfigurante, i suoi occhi si sono trasformati e il suo viso era gioiosissimo, poi è iniziata l’agonia ed è morto, chiamando mamma. Evidentemente la mamma di questo mondo è la mamma anche di un altro mondo, è la Madonna. E quindi la sua vita è stata una tensione inesausta verso l’alto.

Leggo questa poesia dai Canti dell’Infermità:

La cima del frassino

approva, disapprova,

con lenta riprova

la vicenda del vento;

e in fine sempre afferma

il tendere massimo al cielo:

richiama così la vetta dell’anima,

che alla Divina Persona

si accosta o si scosta

nel transito del tempo

verso un vertice eterno;

e misericordiosamente, ogni volta,

si conferma l’unione di amore

per l’unanime gloria.

 

Per Clemente Rebora la vita è cominciata con questo senso insormontabile dell’assoluto come armonia, come misura, come bontà, come unione, come amore. Poi per mania dell’eterno l’hanno messo pure in manicomio; infine ha trovato una conclusione nel cristianesimo come unica forma, unica modalità, unica modo religioso che rispondesse all’amore stesso.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 2.3.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.