La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Eugenio Montale

Tematiche: Letteratura

Io credo che nella terza raccolta di Montale, La bufera e altro, la poesia montaliana raggiunga il suo culmine anche in rapporto al “varco”, che qui trova la sua indicazione più determinata nel nome di una donna, la cui funzione salvifica si è venuta gradualmente precisando fino a trovare proprio in questi testi una vera e propria espressione di tipo cristologico. È vero che Montale appartiene alla schiera dei poeti non dichiaratamente religiosi, ma credo anche che poche esperienze poetiche come quella di Montale possano essere indicate come profondamente religiose. Non potrò seguire il lungo percorso poetico iniziato con la raccolta del 1925, Ossi di seppia; mi limiterò a dare alcune sommarie indicazioni fino ai testi che leggeremo.

È innegabile che già negli Ossi di seppia questa ansia del varco è presente in una serie di metafore notissime: la maglia rotta nella rete, per esempio, il vento che riporta nel pomario l’ondata della vita, vento e bandiere, tutto ciò insomma che in qualche misura interviene ad incrinare la compattezza del “qui” e “ora”, se non per il soggetto lirico almeno per un’altra persona, per il tu montaliano. Negli Ossi di seppia, come dire, la “confrontazione”, è direttamente con gli emblemi della natura, perché si tratta di un diario che ha come corrispettivo, ma al contrario, l’Alcyone dannunziano. È un diario estivo, perché a Monterosso al Mare Montale trascorre tutte le sue estati da quando era bambino fino a quando abbandona Genova. Tutti conosciamo le caratteristiche del paesaggio che Montale ci propone nel suo primo libro: un paesaggio che non ha niente di descrittivo, ma designa da un lato emblemi, figure di resistenza nei confronti di una natura dura – il fiore dell’agave, l’erba che nasce sulla roccia, il girasole, e così via; e dall’altra il colloquio con quell’interlocutore muto ed assoluto che è rappresentato dal mare. Il confronto tra il soggetto e il mare negli Ossi di seppia rovescia completamente la posizione dell’Alcyone dannunziano che, come sappiamo, indicava la scomparsa del soggetto dentro la natura, attraverso una serie di metamorfosi, propiziate dall’elemento liquido, dalla pioggia, dal fiume, dal mare, per cui il soggetto si disperde in quanto tale e mentre l’uomo si naturalizza, la natura, per così dire, si “antropomorfizza”. Al contrario, nel diario lirico montaliano assistiamo ad una divaricazione radicale tra l’io, il soggetto, e l’altro, che è rappresentato fondamentalmente dal mare, direttamente o indirettamente accennato. Per questo all’interno degli Ossi di seppia, la sezione “Mediterraneo” occupa un posto assolutamente centrale, dove questo contrasto, questo confronto viene radicalmente tematizzato. Se nell’Alcyone il mare è femminile, è grembo materno, è il grembo fecondo da cui nasce la vita, in Montale invece il mare è maschile, il mare è paterno, nel senso che rappresenta l’essere da cui tutto proviene e che getta sulla riva, come un osso di seppia appunto, come le macerie del suo profondo, il soggetto, l’esistente. Una “confrontazione” dunque tra l’essere e l’esistere, in termini direi esistenziali. E io amo dire che se l’Italia non ha avuto, per colpa dell’idealismo dominante, per colpa del crocianesimo dominante, un autentico filosofo dell’esistenza, in realtà ha avuto in Montale un grandissimo poeta dell’esistenza. D’altra parte Montale negli anni in cui veniva componendo gli Ossi di seppia faceva letture abbastanza stravaganti ed inedite per la nostra cultura del tempo, ispirato, per esempio, dalla sorella Marianna, che era uno spirito intensamente religioso, e aveva però alle spalle l’amicizia coi Barnabiti del collegio dove lo stesso Montale ha fatto le elementari e le medie, e un personaggio come padre Semeria, che aveva più che sfiorato il modernismo, il rinnovamento cattolico di inizio secolo. E queste erano letture di filosofi russi fuggiti dalla rivoluzione di ottobre, che si erano trasferiti in Francia e i cui libri Montale trovava presenti nelle biblioteche pubbliche genovesi. Parlo di autori come Leone Sestov, come Nicolaj Berdjaev, che venivano dalla tradizione tolstojana e dalla tradizione di Vladimir Soloviev, il grande filosofo amico di Dostoevskij; un filone quindi abbastanza inedito, che rappresenta quello che noi chiamiamo l’esistenzialismo cristiano da cui viene fuori un personaggio come Gabriel Marcel. Ora in questa istanza dell’altro, del varco, bisogna anche mettere in conto l’influenza molto forte di Bergson e di Boutroux che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento segnano, come tutti sappiamo, la rottura nei confronti della posizione positivistica e introducono elementi di indeterminazione e appunto dicono come la legge del determinismo, la legge della causalità, non valga per i fenomeni dello spirito, che invece obbediscono a istanze diverse e introducono salti di qualità, creazioni vere e proprie nella cultura.

Nella seconda edizione degli Ossi di seppia (1928) ci sono due testi fondamentali che sono fra di loro in qualche maniera gemellati. Sono per la parte maschile, per così dire, Arsenio e per la parte femminile Incontro. Arsenio è uno degli pseudonimi di Eugenio Montale, che amava anche chiamarsi Eusebio. Arsenio ed Eusebio sono un po’ la faccia cattiva e la faccia buona, insomma le due anime di Montale in contrasto tra di loro. Ebbene, in questi testi proprio la tematica del varco si impone in maniera assolutamente fondamentale. Infatti in Arsenio siamo di fronte ad un temporale estivo, in una località della riviera ligure, che non è Monterosso (probabilmente è Rapallo) e il temporale estivo provoca la fuga dei villeggianti dalla spiaggia negli alberghi. Proprio in questa occasione invece Arsenio, solo, facendo il percorso contrario va dall’alto verso il basso, verso il mare. E intraprende una strada verso una voce che lo chiama e verso la tromba marina che il temporale ha formato, una tromba marina che unisce la superficie del mare alle nuvole e quindi indica in maniera simbolica evidentissima la possibilità del varco, dell’altra orbita.

Leggiamo qualche verso:

I turbini sollevano la polvere

sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi

deserti, ove i cavalli incappucciati

annusano la terra, fermi innanzi

ai vetri luccicanti degli alberghi.

Sul corso, in faccia al mare, tu discendi

in questo giorno

or piovorno ora acceso, in cui par scatti

a sconvolgerne l’ore

uguali, strette in trama, un ritornello

di castagnette.

Siamo di fronte alla rottura del tempo cronologico, un’indicazione che ci rimanda a Bergson e a Boutroux in quanto il tempo cronologico è, in certo senso, la traduzione della positivistica catena del determinismo. Invece, qui, è come se il temporale rompesse questa trama delle ore tutte uguali:

È il segno di un’altra orbita: tu seguilo.

Discendi all’orizzonte che sovrasta

una tromba di piombo, alta sui gorghi,

più di essi vagabonda: salso nembo

vorticante, soffiato dal ribelle

elemento alle nubi; fa che il passo

su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi

il viluppo delle alghe: quell’istante

è forse, molto atteso, che ti scampi

dal finire il tuo viaggio, anello d’una

catena, immoto andare, oh troppo noto

delirio, Arsenio, di immobilità…

Ecco questo istante che lo possa liberare dalla catena del suo “immoto andare”, sentite la forza di questo ossimoro, immoto andare, cioè del movimento quotidiano che non porta da nessuna parte, perché soltanto di là, soltanto dove si apre questo varco, dove si delinea quest’altra orbita sarebbe possibile fare veramente un salto di qualità. E mentre il temporale si scatena, in questo diluvio che spegne le lanterne per la festa che si stava svolgendo, egli, il soggetto, va, scende verso il mare attratto da una voce che lo chiama. La voce è quella della donna che lui chiama Arletta; infatti la poesia Incontro si intitolava prima Arletta; poi scompare il nome, ma noi sappiamo che è l’immagine della donna, che è la stessa della Casa dei doganieri e di tante altre composizioni, la donna che egli immagina morta e che lo chiama dall’altra dimensione, lo chiama a sé: – Se hai coraggio, vieni, salta questa orbita -. Ma Arsenio non ha il coraggio di intraprendere questo viaggio che significherebbe anche il viaggio verso la morte:

Così sperso tra i vimini e le stuoie

grondanti, giunco tu che le radici

(sono tutti gli oggetti della spiaggia come le chaises longues, le stuoie di cocco)

con sé trascina, viscide, non mai

svelte, tremi di vita e ti protendi

(cioè non mai sradicate dalla terra e per questo non è capace di fare l’ultimo passo)

a un vuoto risonante di lamenti

soffocati, la tesa ti ringhiotte

dell’onda antica che ti volge; e ancora

tutto che ti riprende, strada portico

(torna indietro insomma)

mura specchi ti figge in una sola

ghiacciata moltitudine di morti

(la sola ghiacciata moltitudine di morti si riferisce ai vetri luccicanti degli alberghi dietro cui ci sono i villeggianti che si sono ritirati per il temporale; come a dire che i veri morti sono questi vivi e l’unica persona davvero viva è quella morta che mi chiama; se io avessi avuto il coraggio di fare questo salto sarei andato verso la vita vera e invece sto ritornando verso questa ghiacciata moltitudine di morti)

e se un gesto ti sfiora, una parola

ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,

nell’ora che si scioglie, il cenno d’una

vita strozzata per te sorta, e il vento

la porta con la cenere degli astri.

Incontro è la lirica pendant dal momento che entra in scena la figura di Arletta. La scena questa volta è alla foce, quella che noi a Genova chiamiamo la Foce per eccellenza, che è la foce del Bisagno, il torrente che attraversa una delle vallate genovesi e sfocia in mare. Ora tutta questa parte è coperta dall’asfalto, allora era torrente con i sassi, fiancheggiato da una strada carraia. La scena si svolge qui, con la città alle spalle. È un testo abbastanza difficile; ne faccio una brevissima sintesi leggendo qualche riga. Il poeta dunque si trova qui:

la foce è allato del torrente, sterile

d’acque, vivo di pietre e di calcine;

(è un torrente in cui d’estate c’è solo un filo di acqua)

ma più foce di umani atti consunti,

(come se il torrente portasse in mare la trita vita della città che è alle spalle)

d’impallidite vite tramontanti

oltre il confine

che a cerchio ci rinchiude: visi emunti,

(notate la presenza di Dante, il Dante dell’Inferno)

mani scarne, cavalli in fila, ruote

stridule: vite no: vegetazioni

dell’altro mare che sovrasta il flutto.

Si va sulla carraia di rappresa

mota senza uno scarto,

simili a incappati di corteo,

sotto la volta infranta…

Se mi lasci anche tu, tristezza, solo

presagio vivo in questo nembo, sembra

che attorno si effonda

un ronzio qual di sfere quando un’ora

sta per scoccare;

(è come l’attimo di Arsenio)

e cado inerte nell’attesa spenta

di chi non sa temere

su questa proda che ha sorpresa l’onda

lenta, che non appare.

Poi il soggetto va verso la porta di un’osteria davanti alla quale c’è il solito vaso di ligustro: e qui bisogna tenere presente il mito di Dafne, la donna trasformata in alloro, anche perché uno dei giochi di società del gruppo dei giovani in cui c’era Montale era proprio quello di rendere al vivo qualche mito antico. Dietro dunque c’è questo da tenere presente, perché, come vedremo, Montale rovescia il gioco:

nella luce

radente un moto mi conduce accanto

a una misera fronda che in un vaso

s’alleva s’una porta di osteria.

A lei tendo la mano, e farsi mia

un’altra vita sento, ingombro d’una

forma che mi fu tolta; e quasi anelli

alle dita non foglie mi si attorcono

ma capelli.

(il mito di Dafne è rovesciato, la fronda diventa viva e la viva è la morta, è Arletta che è di là)

Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari

(come dire che la memoria di lei si dilegua di nuovo)

qual sei venuta, e nulla so di te.

La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari

del giorno sparsa già. Prega per me

allora ch’io discenda altro cammino

che una via di città,

(cioè quando io discenda di nuovo, quando io venga dove tu stai)

nell’aria persa, innanzi al brulichio

dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io

scenda senza viltà.

(senza la viltà di Arsenio, in altre parole: – Che io abbia il coraggio, aiutato dalla tua preghiera, di venire dove tu sei -).

Le Occasioni, poco per volta, attivano questo mito della donna, del tu femminile, che sempre più chiaramente assume funzioni salvifiche. Negli Ossi di seppia la funzione della donna è già viva, ci sono dei testi straordinari a dimostrarlo. A me piace moltissimo, per esempio, Tentava la vostra mano la tastiera, lirica che si riferisce ad un’altra donna, Paola Niccoli, che soggiornava anche lei a Monterosso, era una delle presenze femminili di Monterosso, come Arletta. Questa Paola Niccoli, che era una valente pianista, una concertista, una volta con lo spartito davanti si è inceppata, come se non sapesse più leggere le note; e per Montale è stata una specie di rivelazione, perché non era negativo questo fatto, non era una défaillance, ma apriva una possibilità inedita. Come dire: – Lei non è più capace di leggere le note perché ha intravisto qualcosa d’altro, ha intravisto qualcosa di più importante. – Questa ignoranza delle note diventa una ignoranza attiva, diventa una possibilità, una qualità:

Tentava la vostra mano la tastiera,

i vostri occhi leggevano sul foglio

gl’impossibili segni; e franto era

ogni accordo come una voce di cordoglio.

 Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva

in vedervi inceppata inerme ignara

del linguaggio più vostro: ne bruiva

oltre i vetri socchiusi la marina chiara.

 Passò nel riquadro azzurro una fugace danza

di farfalle;

(sappiamo quanto sono importanti le farfalle in Montale e quanto indichino il varco, proprio per il loro volo imprevedibile, perché la farfalla non va seguendo una direzione precisa, ma si muove qua e là e indica possibilità di aperture inedite)

Passò nel riquadro azzurro una fugace danza

di farfalle; una fronda si scrollò nel sole.

Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,

ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza.

(come dire questa dolce ignoranza delle note che schiude altre possibilità)

Anche qui dunque la donna come medium, come personaggio che negli Ossi di seppia rappresenta la possibilità dell’oltranza, un’oltranza che non è invece del soggetto. Quindi il tu in questo caso indica come una specie di alternativa rispetto all’io lirico che rimane invece confitto nel “qui” e “ora” dell’esistenza, nella sua condizione di male di vivere, di perdutezza, come a dire che la salvezza è dell’altro, è della donna, non è mia. Nelle Occasioni la funzione della donna tende sempre di più a diventare dantescamente quella della “Beatrice”, cioè di colei che salva, che non salva solo se stessa, dunque, ma salva anche gli altri. E qui è essenziale un elemento biografico, l’incontro a Firenze nel 1933 con Clizia, cioè con Irma Brandeis, un’americana, di origine austriaca, ebrea ma convertita al cristianesimo, che si era recata a Firenze per studiare i Padri della chiesa e Dante poiché doveva preparare la tesi su questo argomento. Aveva incontrato Montale al Gabinetto Vieusseux, del quale Montale era segretario in quegli anni. L’incontro è per Montale decisivo. Montale in quegli anni, come poi in seguito, conviveva con la Mosca, Drusilla Tanzi, che era la moglie del critico d’arte Matteo Marangoni. Drusilla era molto più anziana di Montale, era una donna molto brutta ed era soprattutto dotata di un carattere estremamente forte, dominante, e Montale in qualche misura era un po’ schiavo di questa donna. Quando incontra Clizia gli si apre una possibilità, non soltanto sentimentale, ma anche di natura intellettuale. In ogni caso Clizia diventa un punto di riferimento fondamentale per la poesia montaliana e da questo momento in poi, abbastanza bene individuabile e non mai nominata nelle Occasioni, assume il ruolo dell’angelo visitatore e addirittura poi della Cristofora, cioè della donna salvezza, della Beatrice che può rappresentare per il povero nestoriano smarrito la possibilità di salvezza. Ma notate bene, non soltanto per il povero nestoriano smarrito, ma per l’Europa stessa, che in quegli anni si avviava ad un’atroce vicenda, quella della seconda guerra mondiale, con tutto ciò che la seconda guerra mondiale ha portato.

Leggiamo dunque La primavera Hitleriana, che è stata scritta in parte nel ’38, cioè l’anno prima dell’uscita delle Occasioni, ma non fu terminata. È stata ripresa poi dal poeta alla fine della guerra e portata a termine, inserita nella raccolta La bufera e altro. In ogni caso l’evento centrale di questa poesia è proprio riferito al 1938, l’anno delle leggi razziali, l’anno del licenziamento di Montale dal Gabinetto Vieusseux, perché non aveva voluto prendere la tessera del partito fascista, l’anno della partenza di Clizia per l’America, e l’anno della visita di Hitler in Italia e della visita a Firenze in compagnia di Mussolini. Quindi l’episodio specifico a cui si fa cenno è appunto questo, la visita delle due persone, che sono configurate come demoniache, nella città del giglio. In questa poesia viene espressamente nominata Clizia. Il testo vede come incipit, un verso forse di Dante, o attribuibile a Dante, da un sonetto a Giovanni Quirini: “Né quella ch’a veder lo sol si gira…”. È qui adombrato il nome Clizia che, dal greco “clino”, è appunto colei che si gira, e il simbolo di questo girarsi verso il sole è rappresentato proprio dal girasole. Il girasole è figura che appare già negli Ossi di seppia (Portami il girasole ch’io lo trapianti / nel mio terreno…) e già là configurava l’aspirazione a sradicarsi dalla condizione terrena volgendosi verso l’alto, confondendosi con gli azzurri specchianti del cielo alla ricerca appunto del varco. Quindi già allora il girasole aveva una forte connotazione simbolica in questa direzione e adesso è straordinario vedere come il “senhal”, cioè il nome poetico che il poeta escogita per la donna, sia proprio quello di Clizia, e l’epigrafe “né quella ch’a veder lo sol si gira”. Nella simbologia dantesca il sole è il bel pianeta che rappresenta Dio, quindi volgersi verso il sole in Dante ha solo questo significato, volgersi verso Dio.

Vediamo il testo.

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite

turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,

stende a terra una coltre su cui scricchia

come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona

ora il gelo notturno che capiva

nelle cave segrete della stagione morta,

negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

La visita avviene verso la fine di aprile, cioè nel pieno della primavera, ed è capitato a Firenze un fenomeno, allora molto più frequente di oggi, cioè un’invasione di insetti, in questo caso di falene, le farfalle notturne, in così strepitoso numero da configurare una specie di nevicata vera e propria. Queste falene erano farfalle bianche che a toccarle mandavano una specie di scricchiolio, perché avevano le ali secchissime. In questo testo, dunque, la simbologia è molto ricca, perché questa “nevicata” fuori stagione di falene, questa gelata fuori stagione, allude evidentemente al gelo rappresentato dalla visita di Hitler nella città. Ora si capisce meglio che cosa è la folta nuvola bianca delle falene impazzite che turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette (le spallette del fiume Arno evidentemente) e che stende per terra una superficie su cui i passi scricchiolano come se calpestassero zucchero. L’estate imminente (perché siamo appunto nella primavera avanzata) sprigiona ora il gelo… che capiva, cioè che era chiuso nelle cave segrete, nelle cantine, negli antri, dove la primavera non è ancora arrivata, negli orti che da Maiano scendono a questi renai dell’Arno. È come se le cave segrete, le cantine, avessero sprigionato il gelo che avevano contenuto in sé. È l’idea della nevicata che è corroborata da questa indicazione del gelo.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale

tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso

e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,

si sono chiuse le vetrine, povere

e inoffensive benché armate anch’esse

di cannoni e giocattoli di guerra,

ha sprangato il beccaio che infiorava

di bacche il muso dei capretti uccisi,

la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue

s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,

di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere

le sponde e più nessuno è incolpevole.

È passato dunque un messo infernale e il riferimento evidente è ad Hitler, questo messo infernale, questo inviato dall’inferno. Tra un alalà (il grido fascista) di scherani (i fascisti in divisa schierati lungo il percorso) un golfo mistico (il discorso di Hitler si svolge nel teatro comunale di Firenze, e quindi il golfo mistico è quello del teatro) ha inghiottito questo messo infernale; il golfo mistico acceso e pavesato di croci a uncino è un evidente riferimento al simbolo del nazismo. E ancora: si sono chiuse le vetrine, perché è stato dichiarato il giorno festivo e allora tutti i negozi sono chiusi, non si lavora, perché tutti devono applaudire il messo infernale. Ma l’indicazione evidentemente non è solo cronachistica, non se ne farebbe niente il poeta, è allusiva: le vetrine, povere ed inoffensive, benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra. I cannoni finti, i carri armati finti ecc. stanno a dire che allora, e non soltanto allora, ma allora sicuramente, ai bambini si insegnava a giocare alla guerra. Ho appena pubblicato un romanzo che si intitola Prelio. Storia di oro e stricnina alludendo proprio a questa educazione alla guerra che ci veniva impartita. Ecco, dunque, un’allusione scoperta alla prossima guerra che sarà scatenata dal messo infernale. Ha sprangato il beccaio: un’altra vetrina che si è chiusa. Prima la vetrina dei giocattoli e adesso la vetrina del beccaio, del macellaio; anche questa evidentemente non scelta a caso, perché il beccaio esponeva nella vetrina, che ha chiuso adesso, capretti uccisi infiorati di bacche. Siamo nella settimana di Pasqua, probabilmente, e il capretto è l’agnello pasquale, ma è chiaro che l’agnello pasquale è il simbolo stesso del sacrificio cristiano, rinvia all’agnello Cristo, e comunque il rinvio è anche ai “capretti” che verranno sacrificati nella guerra, cioè alle troppe vittime che la guerra si appresta a fare. Il beccaio, il padrone dei giocattoli sono dei miti carnefici, senza saperlo, persone così tranquille, che tuttavia in qualche maniera sono compartecipi di questo tremendo gioco che è il gioco della guerra. E infatti questa sagra dei miti carnefici, questa festa che ha fatto loro chiudere le vetrine, si è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate e di larve sulle golene (compare di nuovo il rinvio alla pioggia delle falene). E ovviamente adesso questa cosa assume ancora di più un valore simbolico, è alludente ancora una volta alla guerra che si sta per scatenare. Montale usa molte volte termini tratti dalla danza per indicare qualche cosa di tremendo, qualche cosa di fortemente negativo. L’acqua segue a rodere le sponde, come dire l’Arno va tranquillo come sempre, e più nessuno è incolpevole: non è incolpevole neanche il beccaio, non è incolpevole più nessuno, perché tutti in qualche modo sono coinvolti in questa situazione scatenata dal messo infernale.

E poi viene una frase molto difficile:

Tutto per nulla dunque? – e le candele

romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente

l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii

forti come un battesimo nella lugubre attesa

dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando

sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi

gli angeli di Tobia, i sette, la semina

dell’avvenire) e gli eliotropi nati

dalle tue mani – tutto arso e succhiato

da un polline che stride come il fuoco

e ha punte di sinibbio…

Qui c’è il ricordo della donna, il ricordo di Clizia, che è partita ormai per l’America. Cosa vuole dire tutto per nulla? Ciò che c’è stato per me e te, ciò che tu hai rappresentato ai miei occhi, cioè la tua funzione salvifica non è valsa a niente contro questo che sta succedendo. E le candele romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte sono i fuochi a San Giovanni, perché San Giovanni Battista è patrono di Firenze e il giorno della festa normalmente si festeggia con fuochi d’artificio. Lo “sbiancare” ricorda il bianco delle falene impazzite, ma può anche rappresentare un’alternativa rispetto a quel bianco raccapricciante. In questo caso, lo sbiancare l’orizzonte è segnale positivo, perché quella luce che si apre nel buio della notte dei fuochi artificiali è un indizio di possibile salvezza. Comunque si lega strettamente a Clizia con la quale certamente il poeta ha potuto godere di questo spettacolo, e quindi il riferimento è a quando loro due assieme vedevano le candele romane accendersi nella notte di San Giovanni e attribuivano appunto un significato di salvezza allo sbiancarsi dell’orizzonte per questi fuochi artificiali. … ed i pegni e i lunghi addii: qui è l’addio che i due si danno quando lei va via, quando lei torna in America, e si scambiano dei pegni, che possono essere anche dei piccoli regali, dei piccoli simboli della loro amicizia. Sembrano non contare più niente nemmeno questi nella lugubre attesa dell’orda, cioè in questo momento in cui si stanno aspettando le orde barbariche che tra poco distruggeranno l’Europa. Poi si apre una parentesi, che contraddice in qualche modo questa visione desolata. Sono gli annunci, misteriosi come profezie, di una speranza oltre l’orrore che si prepara. Il poeta qui allude ad una stella cadente osservata la sera della partenza di Clizia: ma una gemma rigò l’aria, stillando sui ghiacci. E qui bisogna aggiungere un’altra cosa, perché Montale è difficile e complesso, ma ci sono chiavi interpretative valide. Il nome della donna è Irma Brandeis. Brandeis è come se fosse composto di due termini della lingua tedesca: Brand che vuol dire fuoco e eis che vuol dire ghiaccio. Molte volte l’immagine del ghiaccio e del fuoco compare in Montale, soprattutto nelle Occasioni e nella Bufera, proprio come relativo alla persona di Clizia. I ghiacci indicano anche il Nord, un Nord sentito come salvifico: si pensi a Ti libero la fronte dai ghiaccioli, un mottetto celebre delle Occasioni. Indica il Nord da cui proviene Clizia, che non sarà un Nord, evidentemente, da rosa dei venti, ma un luogo da cui viene la salvezza: Ritorna domani più freddo, vento del nord [da Notizie dall’Amiata]. Appunto per questo una gemma rigò l’aria stillando / sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi, i lidi di Clizia. E poi gli angeli di Tobia. Tobia, personaggio biblico, è accompagnato dall’angelo Raffaele, uno dei sette angeli che portano a Dio i meriti umani. Ecco dunque gli angeli di Tobia, i sette, la semina dell’avvenire, che promettono la possibilità di una salvezza che adesso è chiusa, ma che in un futuro potrà riaffacciarsi. Tutto per nulla, dunque? anche gli eliotropi nati dalle tue mani? Gli eliotropi sono i girasoli, nati dalle tue mani, perché Clizia è la donna-girasole (Né quella ch’a veder lo sol si gira…). Anche gli eliotropi dunque invano? E infatti dice: tutto arso e succhiato da un polline che stride (ancora un riferimento alla nevicata delle falene) come il fuoco e ha punte di sinibbio. Il sinibbio indica un vento gelido, in riferimento a quella immagine di freddo della nevicata fuori stagione delle falene. Ed ecco:

Oh la piagata

primavera è pur festa se raggela

in morte questa morte!

La comprensione è difficile, non so se la mia interpretazione può essere giusta. La piagata primavera, questa primavera raggelata dalla pioggia delle falene, può essere tuttavia una festa, se raggela questa morte rappresentata da Hitler, rappresentata dal messo infernale in morte, cioè in un certo senso se fa morire la morte. È quindi come dire: questo gelo, questo freddo, questo vento, questo sinibbio in qualche modo porta con sé la memoria di Clizia, la donna che viene dal nord e porta i ghiaccioli sulla fronte…

Adesso la supplica:

Guarda ancora

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

(e qui compare finalmente per la prima volta il segnale: è la tua sorte. Quale? Quella di volgersi in alto, come il girasole che guarda sempre nel sole)

che il non mutato amor mutata serbi,

(questo è un altro verso di quel sonetto a Giovanni Quirini di Dante. Cosa vuol dire? Che conservi, anche se sei cambiata, perché sei partita, sei andata via, quindi io non ti vedo più, non ho più davanti a me la tua immagine viva, ma pur mutata tu conservi il non mutato amor, il mio amore che non muta per te, e anche il tuo, forse, che non muta per me)

fino a che il cieco sole che in te porti

(quel sole di salvezza, che non si vede fuori, ma che tu hai dentro di te)

si abbacini nell’Altro e si distrugga

(da notare Altro con la lettera maiuscola: evidentemente l’altro sole è Dio)

in Lui, per tutti.

Ecco il culmine del sacrificio che la “Cristofora”, è il poeta che la chiama così, rappresenta. Come dire, il tuo sacrificio, come quello di Cristo è la possibilità della salvezza per tutti.

Ed ecco il finale:

Forse le sirene, i rintocchi

che salutano i mostri nella sera

(perché hanno fatto suonare tutte le campane della città, hanno fatto suonare tutte le sirene della città in onore di Hitler e di Mussolini)

della loro tregenda, si confondono già

(abbiamo visto questa duplice possibilità racchiusa nel gelo e che adesso viene rappresentata nei simboli delle campane che vengono fatte suonare)

col suono che slegato dal cielo, scende, vince

(liberato dal cielo, dall’alto, scende, vince il suono che tu rappresenti, Clizia)

col respiro di un’alba che domani per tutti

si riaffacci, bianca ma senz’ali

(di nuovo il bianco: il bianco delle falene è negativo, ma il bianco è anche quello di Clizia e dunque positivo)

di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

(senza le falene che simboleggiano il male, perché provenendo da nord e dall’alto, questo suono, che slegato viene dall’alto, possa rappresentare domani per tutti un’alba di salvezza).

Voglio chiudere con questo accenno. Nel ’96, a Genova, la città di Montale, si è fatto un convegno nel centenario dalla nascita del poeta e in questa occasione venne dall’America uno studioso e amico di Montale, che portò con sé un documento estremamente commovente: era un bigliettino di Montale, di pochi giorni prima della morte, scritto con una grafia ormai quasi incomprensibile, che Montale aveva mandato a Irma Brandeis per salutarla nel momento in cui sentiva di andarsene, di morire. E quel rigo di scrittura fu proiettato sullo schermo e fu un momento di grandissima commozione. Irma Brandeis non si sposò mai e continuò sempre a studiare soprattutto Dante e a fare un commento della Divina Commedia. Insegnò per moltissimi anni alla Columbia University di New York e morì non molti anni fa. Io fui in corrispondenza con lei nell’occasione in cui con Franco Contorbia e Gianfranco Contini si fece l’album fotografico E. Montale immagini di una vita, pubblicato una dozzina di anni fa dalla Librex, in cui però mancava proprio il personaggio principale, Clizia. E allora le scrivemmo alla Columbia University e lei ci mandò un suo bellissimo ritratto degli anni Trenta, quando conobbe Montale. Quel bellissimo ritratto è in questo album, che adesso ha pubblicato Mondadori.

NOTA: testo non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 26.2.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.