La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Giovanni Pascoli

Tematiche: Letteratura
  1. Il segno della presenza di Pascoli nella nostra epoca è materialmente percepibile dalla fioritura di edizioni, saggi, strumenti e commenti pubblicati negli ultimi anni: è un autore che sta attraversando una fase non “di moda”, ma di riscoperta della complessità e di una articolazione di tematiche e di percorsi scarsamente approfonditi in precedenza, quando Pascoli era stato spesso ridotto semplicisticamente alla dimensione del poeta colpito dai lutti familiari, “del nido infranto”. Si citino ad esempio il bellissimo profilo di Guido Capovilla, pubblicato da Laterza nel 2000, o quello del professor Pazzaglia, docente all’Università di Bologna e Presidente dell’Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli. Vari sono i motivi di interesse che suscitano la nostra attenzione per un’indagine non scontata sul binomio proposto da questo ciclo di conferenze, ovvero “la ricerca dell’assoluto” e Giovanni Pascoli.

Innanzi tutto, oggi più che mai il poeta romagnolo ci appare essere uno degli autori più sensibili a certe domande, come quella qui esaminata, sulla ricerca di senso del mondo, dell’universo, del progresso scientifico, che sembra ora sempre più accelerato e ci coinvolge sempre di più; tali problematiche restano d’attualità per la somiglianza del momento storico contemporaneo con quello vissuto da Pascoli a cavallo fra Ottocento e Novecento, in cui si era diffusa la convinzione che il mondo fosse sull’orlo di un cambiamento radicale, grazie alle innovazioni tecnologiche che toccavano la vita quotidiana di tutti e sembravano sul punto di chiudere con un taglio netto il passato. Pascoli si rende conto di questa fase di trapasso, si pone il problema, e vuole mostrare ai sui contemporanei come una tale visione sia forse l’ennesima e la più grande delle illusioni, che può sì far smarrire qualcuno, ma che all’analisi dell’intelletto si mostra per quello che è, e rivela la fugace ed effimera condizione dell’uomo su questa terra.

In secondo luogo, proprio su queste tematiche sarà interessante analizzare le opere dell’ultimo periodo del poeta, quello meno noto al grande pubblico, dal 1895 al 1910, anno di opere significative come Fanum Vacunae e Pomponia Graecina, e fino al momento della morte nel 1912.

Questo periodo, soprattutto dopo il 1906 quando Pascoli sale sulla cattedra di Carducci all’università di Bologna, è solitamente considerato quello dell’”involuzione”, in cui il poeta si sente investito dell’autorità di “poeta vate”, poeta della Nazione, della “Terza Italia” con il compito di indicare alla società le mete future, sempre in competizione con quello che lui chiamerà poi, con apparente modestia che nasconde un certo senso di competizione, il “fratello maggiore e minore” D’Annunzio, minore per età e maggiore per fama, dato che D’Annunzio aveva cominciato a pubblicare, guadagnandosi ben presto notorietà e celebrità, in età molto giovane e ben prima di Pascoli.

Infine, un altro luogo critico comune da sfatare è quello della frammentarietà di Pascoli, spesso considerato solo come il poeta delle Myricae, della campagna, del bozzetto lirico, impressionista, con le analogie abbastanza facili col simbolismo francese e la pittura contemporanea, e ritenuto incapace di una visione più profonda, allargata, complessa e articolata, per cui in quest’ultima fase della produzione pascoliana si assisterebbe a un’involuzione su tematiche più “stanche”, più retoriche e magniloquenti ma meno ispirate. Analizzando invece selettivamente l’opera di Pascoli di questo periodo si vede come ciò non sia del tutto vero, e soprattutto si vede come parallela alla produzione italiana ci sia una produzione latina, da cui emerge la grandezza di Pascoli, altrettanto grande in latino quanto in italiano, ma infinitamente meno conosciuto, sia a causa della lingua che ne ostacola la diffusione, sia perché la critica fatta dagli italianisti non sempre è stata in grado di capire la poesia di Pascoli in latino. È con il magistrale saggio del professor Alfonso Traina dell’Università di Bologna del 1961 (seconda edizione nel 1971) che si dà l’avvio alla rilettura e alla riscoperta dei poemetti latini di Pascoli, circa una trentina, con i quali Pascoli concorse per vent’anni consecutivi, dal 1892 al 1912 al Certamen Hoeufftianum di Amsterdam. Questo concorso dava in premio al vincitore una medaglia d’oro di due etti e mezzo e il corrispondente equivalente in fiorini, che al poeta servirono anche concretamente per pagare quella che lui chiama “la bicocca di Castelvecchio”, la casa in Garfagnana, vicino a Barga (ulteriore elemento che gli consente l’analogia con i poeti latini Virgilio e Orazio, suoi maestri e suoi alter ego, ai quali la poesia, apprezzata da Augusto attraverso Mecenate, aveva consentito di permettersi le ville in Sabina, lontano dalle cure e dalla vita frenetica della città). La partecipazione per venti anni al Certamen ci consente quindi di avere questa produzione di trenta poemetti, raccolti solo dopo la morte del poeta, che si affiancano alla poesia italiana recependone le stesse tematiche moderne, di analisi psicologica dell’anima, di scavo dell’interiorità secondo i canoni del decadentismo, ma riferite e “messe in bocca” ai poeti antichi: un latino cioè che non si compiace dei virtuosismi dei suoi contemporanei che lo usavano per cantare il treno, l’elettricità, la caldaia a vapore o la pesca del pesce spada e dell’anguilla. Pascoli vinse quindici volte e ottenne la magna laus per altrettante. La stessa cronologia dimostra quanto stiamo affermando: la sua produzione latina è del tutto concomitante a quella italiana. La prima partecipazione al Certamen infatti è del 1892, anno della prima edizione di Myricae, mentre l’ultimo poemetto premiato è Thallusa nel 1912; Pascoli riceve la notizia in marzo, e muore il 6 aprile. Questa produzione accompagna quindi il poeta per tutta la vita, e il suo capolavoro latino è considerato dalla critica proprio quest’ultimo poemetto, Thallusa, a dimostrazione che questa involuzione, forse presente nella poesia italiana, non coinvolge la poesia latina nella quale Pascoli conserva la sua originaria capacità poetica, i suoi temi più profondi, con un interscambio continuo tra la poesia latina e quella italiana, nella cui lettura parallela si ritrova certamente lo stesso poeta, con le stesse tematiche affrontate.

Altri testi, infine, ai quali attingerà la conversazione odierna sono le prose, pure esse misconosciute, eccezion fatta per Il fanciullino, ma saggi come L’Avvento o L’Era Nuova sono certamente profetici, pensando al momento in cui furono composti. Facciamo attenzione infatti alle date: i Canti di Castelvecchio sono del 1903; Odi e Inni vedono tre edizioni nel giro di pochissimi anni, nel 1906 e nel 1907 le prime due, vivente ancora il poeta, e nel 1913 la terza postuma curata dalla sorella Maria; i Nuovi Poemetti, che nascono dalla divisione dei Poemetti del Novecento (poi scissi appunto in Primi Poemetti e Nuovi Poemetti), sono editi nel 1909, a dimostrazione della coesistenza parallela tra poesia italiana e latina.

Prima di analizzare specificatamente i testi va sottolineato come il 1900 fosse “l’anno secolare”, l’anno del cambio di secolo, con tutte le aspettative di “palingenesi”, di nuova nascita, una sorta di “attesa millenaristica”, oltre che Anno Santo, con tutte le celebrazioni che questo comporta nella liturgia cattolica. Pascoli fa riferimento nelle sue poesie e nelle sue prose anche a questi fatti di cronaca, prendendone spunto per la sua riflessione sull’assoluto, su Dio, sul mistero, sul senso della vita e della morte dell’uomo.

  1. Preliminarmente, è opportuno analizzare le definizioni di religione e di fede che possiamo trovare nei testi pascoliani. Negli scritti in prosa, infatti, Pascoli ci ha dato almeno tre definizioni, di cui due particolarmente interessanti, della sua idea di religione.

2.1. Innanzitutto nella Prefazione ai Canti di Castelvecchio, dedicati alla tomba della madre, leggiamo:

 “E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.”

Una prima definizione di religione, altamente “attendibile” in quanto scritta esplicitamente e in prosa, senza quindi possibili dubbi per l’interpretazione, è quella di religione come “il pensier della morte”, la consapevolezza che la vita dell’uomo è effimera. È nota l’incidenza che l’esperienza personale dei lutti famigliari subiti durante l’infanzia, – dall’assassinio del padre, rimasto impunito, e inizio della rovina, anche economica, della famiglia, alla morte della madre di crepacuore l’anno successivo, alla morte nel giro di pochi anni dei tre degli otto fratelli -, ha avuto su buona parte della sua riflessione poetica. Chiaramente queste drammatiche esperienze hanno avuto un peso non indifferente nella poetica di Pascoli, ma non più di quanto si possa credere se vengono analizzate sempre solo le stesse poesie, come il X Agosto; da questi fatti il poeta invece è indotto alla riflessione sul destino che incombe su ogni individuo, sia sulle vittime che sugli oppressori, anche per i quali in ogni caso giungerà nella morte il momento di raggiungere il padre da loro uscciso, e che di conseguenza dovrebbe spingere gli uomini alla fratellanza.

Questo è in estrema sintesi il fulcro dell’ideologia pascoliana: si riconoscono le istanze del socialismo, al quale Pascoli aderisce in Romagna negli anni di Costa, insieme ad una sorta di “leopardismo”, pensando all’ultimo Leopardi della Ginestra, con la riflessione sulle formiche e sullo “sterminator Vesevo”, il Vesuvio che ha ridotto alla morte completa le città di Pompei ed Ercolano, palesando la debolezza e la piccolezza dell’essere umano innanzi alla forza devastante della natura. Pascoli non fa altro che notare come, nonostante l’uomo suo contemporaneo si senta potente e “padrone del mondo”, al cospetto della potenza di questi eventi catastrofici nulla è cambiato per lui con il passare dei millenni, e l’uomo resta impotente e indifeso come duemila anni prima.

2.2. La seconda importante definizione di religione è nella Prefazione a Odi e Inni, e ci dà la misura del modo in cui Pascoli può esser considerato cristiano.

Pascoli era aperto anche ad altre culture: per esempio aveva letto e possedeva nella sua biblioteca di Castelvecchio i testi sacri dell’Induismo, che già allora, con le prime traduzioni che proprio in quel periodo andavano ad esser pubblicate, erano oggetto di una forte attenzione, ed in essi cercava interpretazioni diverse del cosmo e del mondo, che metteva a confronto con quella in cui egli era nato e cresciuto, quella del Cristianesimo, alla ricerca di analogie come di risposte diverse, magari più vicine alle sue esigenze interiori.

La questione della fede, analizzata in senso cristiano, va considerata in Pascoli pensando all’insieme dalle tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità.

La fede? Ve la chiedono come una cosetta da nulla che a negarla si sia degni del fuoco, che si usava un tempo, o della riprovazione, del ribrezzo, dello schifo universale, come si usa anche adesso. Si appagano che milioni e milioni e milioni di sordomuti intellettuali dicano «Noi crediamo tutto» senza nemmeno udire un articolo di questo tutto; simili al bonomo che si fida, e non vuol vedere la distinta, e paga senz’altro. Godono di tener sotto chiave, come la collana della Tecla, il credo dei loro parrocchiani, che lo ritireranno il giorno del giudizio, e ora non lo vedono più: i loro parrocchiani, che essi dicono semplici di cuore e poveri in ispirito. Eh! via! no. L’intelletto deve intervenire in questa virtù che di tutte è la più difficile, sì che i teologi non la concepiscono se non come grazia; deve essere presente di continuo, l’intelletto, se ha da sottomettersi ed assentire. Ora si può fare della fede un segnacolo in vessillo, e si può dire alle genti, che seguano quella bandiera ciecamente, senza chiedere che cosa ella rappresenti? Non si può. L’intelletto non si deve riporre, quando si tratta di fede, come si fa riporre, quando si tratta di milizia e di battaglia.

 In questo passo Pascoli si rivela veramente figlio della sua epoca, figlio del positivismo, della razionalità che deve esser il fondamento di tutte le vicende umane, per cui anche la fede non può esse accettata ciecamente come spesso viene fatto dalle persone semplici (“il buon uomo che paga senza guardare la distinta”), ma deve essere vagliata attivamente dall’intelletto.

2.3. Le altre principali definizioni che Pascoli ci dà della religione cristiana sono quella di “religione del dolore” e “religione dell’amore”. Egli si chiede cosa il Cristianesimo abbia portato in più rispetto alle concezioni precedenti elaborate dalla classicità. Come testimoniato dalle sue opere, conosce nei dettagli l’antico paganesimo del modo greco e romano, al punto che per lui questo può rappresentare una sorta di realtà alternativa di non poco conto: i filosofi e i pensatori classici non avevano conosciuto la Rivelazione, e interrogandosi sulle stesse questioni che tanto stavano a cuore al poeta si erano dati risposte filosofiche diverse, che però non avevano mai potuto dirsi appaganti.

Pascoli dirà quindi che dopo l’avvento del cristianesimo le vecchie favole, i vecchi dei pagani cadranno, perché sono stati cacciati dal Cristo che «non cadrà più poi ch’è il dolore umano! / Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!».

Il simbolo del crocifisso è per Pascoli la personificazione del dolore umano, del dolore di ciascun uomo, per cui innalzare a divinità il Cristo significa piegarsi a una religione che venera il dolore, che mette come proprio fondamento il dolore.

«È il dio sol esso, il solo dio fra tutti / che non può mai morire» (Hymnus in Romam vv. 294-296 = vv. 441-444 della traduzione).

Ecco spiegata la ragione per cui il Cristianesimo avrà una storia “vittoriosa” nei secoli successivi, perché l’umanità intera può riconoscersi nel Dio che soffre esattamente come gli uomini. Questa è la caratteristica dominante del Cristianesimo agli occhi di Pascoli: questo dolore che egli definisce “immortalis” (Pomponia Graecina 197: Mortalis amor, dolor immortalis!).

Il dolore è quindi connesso all’amore, in ogni sua forma; uno dei legami più analizzati nella poesia di Pascoli è l’amore tra madre e figlio, che risulta sempre destinato alla sconfitta, a causa della morte dell’uno o dell’altra per la violenza della storia.

Pascoli crea per le sue figure femminili più interessanti, Thallusa e Pomponia Graecina, delle situazioni di “empasse” tra condizione materna e fede religiosa, per cui ad es. la prima, una schiava romana, è consapevole che perderà per sempre il figlio, in vita, e anche dopo la morte (essendole stato venduto appena nato, non potrà crescere nella fede, e quindi salvarsi almeno nell’aldilà); mentre la seconda è costretta ad abiurare il cristianesimo per poter rimanere in famiglia e quindi col figlio, ben sapendo che con questo gesto precluderà l’Eternità sia a se stessa che a suo figlio, e quindi il Cristianesimo per queste madri diventa addirittura causa di dolore, e di dolore immortale, che va al di là della vita stessa.

Unica ammissibile delle tre virtù teologali per Pascoli è dunque solo la virtù della Carità, l’agape, l’amore. Data la mancanza di fede e speranza, in Pascoli comunque viene meno la dimensione che la teologia definisce “verticale” della carità, ovvero quella dell’amore verso Dio, dilectio Dei, mentre assume un ruolo cruciale la dimensione “orizzontale”, quella dell’amore verso i fratelli, verso il prossimo, la dilectio proximi. La consapevolezza del comune destino terreno di infelicità, di labilità, dolore degli uomini dovrebbe far sì che essi dovrebbero non combattersi e lottare gli uni contro gli altri procurandosi ulteriori sofferenze, ma diventare solidali, unirsi, aiutarsi e proteggersi per quanto possibile.

Emergono evidentemente in queste considerazioni le istanze del socialismo umanitario più care a Pascoli, e si vede come questa complessa e tormentata analisi religiosa porti alle riflessioni che leggiamo nel discorso L’Avvento, per cui l’uomo deve diventare “humanus”, e “il poeta dev’essere colui che della scienza fa coscienza”. Pascoli aspetta che avvenga l’inveramento dell’”homo humanus”. Questa è la definizione “darwinistica” di Pascoli, il quale aveva letto e conosceva i testi di Darwin e di altri filosofi e scienziati (come ad es. Haeckel) sull’evoluzionismo, e sperava che dopo le varie specie umane, “sapiens”, “sapiens sapiens”, venisse il momento dell’”homo humanus”, e il poeta doveva dare una consapevolezza morale ed etica alle nozioni che la scienza moderna era in grado di fornire.

Pur non potendo aver fede in una vita ultraterrena nell’aldilà, Pascoli la cercherà incessantemente nel corso della sua esistenza, con una fortissima tensione verso l’Assoluto, verso la ricerca di Dio, verso qualcosa che illumini il mistero in cui l’uomo è immerso, tensione che rimane comunque sostanzialmente inappagata, ricevendo di volta in volta risposte diverse ma mai pienamente soddisfacenti: l’immortalità può esser data dalla poesia, dalla scrittura, oppure anche questo genere di sopravvivenza dopo la morte può finire, e niente si salva dalla “dispersione cosmica”. Lo vedremo nei testi.

L’unica forma di sopravvivenza che per Pascoli eventualmente può esistere è quella “biologica”, ovvero della continuazione di se stessi attraverso i figli, come ben si legge nella poesia I vecchi di Ceo, dei Poemi Conviviali, in cui si vede la distinzione tra i due anziani atleti, uno dei quali è nonno, quindi destinato a sopravvivere grazie al nipote, mentre l’altro, non avendo avuto famiglia, nonostante le vittorie riportate, sa che è destinato ad esser dimenticato, anzi a morire ‘definitivamente’ (anche qui sono evidenti i riferimenti autobiografici, dato che Pascoli non si sposò e non ebbe quindi discendenti diretti).

Nel 1899 Pascoli era stato invitato a tenere a Messina il discorso intitolato L’Era Nuova, nel cui titolo già risuonano gli echi del positivismo, con la sua fiducia e speranza nei cambiamenti sociali che permeano quest’epoca. Tra il III e il IV capitolo (cito da G. Pascoli, Prose I, a cura di A. Vicinelli, Mondadori, Milano 19461, 19714, pp. 112; 123) egli scrive:

 “La scienza ha fallito! […] in questo! Che c’importa del rimanente? La morte doveva ella cancellare. Viaggiare più velocemente, sapere più presto e dare le proprie notizie, aver qualche agio in più, che cosa è mai se non un rimpianto maggiore per chi deve morire? Il morire doveva essere tolto dalla scienza; ed ella non l’ha tolto. A morte dunque la scienza! Noi torniamo alla fede che ( è verità? è solo illusione? ma illusione, a ogni modo, che ci vale per verità) che non solo ha abolita la morte, ma nella morte ha collocata la vita e la felicità indistruttibile!”

Questo è per Pascoli il paradosso del Cristianesimo, aver collocato nella morte la felicità e la vita, perché contrariamente a quello che è il sentimento comune degli individui il cristiano attende con gioia la morte, perché solo dopo di essa inizia a vivere veramente.

A conclusione de L’Era Nuova Pascoli afferma infine:

“La religione: non questa o quella in cui il terrore dell’infinito sia o consolato o temperato o annullato, ma la religione prima e ultima, cioè il riconoscimento e la venerazione del nostro destino.

Quella sarà la palingenesia, la povera e melanconica palingenesia che sola può toccare a questi poveri e melanconici esseri che abitano così piccolo pianeta, il quale è sulla via di tante comete distruggitrici. Avverrà nel secolo che sta per aprirsi? Aspettiamo. Io non oso dire: speriamo.”

  1. Le poesie

3.1. Le poesie qui affrontate nascono per lo più da spunti familiari, da ricordi giovanili, o del collegio di Urbino, o della morte del padre, o dei difficilissimi anni a Bologna, quando Pascoli aveva prima ricevuto il sussidio del comune per studiare all’università, e poi perduto poiché si era ritrovato suo malgrado coinvolto nelle manifestazioni studentesche.

Queste memorie autobiografiche tornano ad ispirare anche il filone cosiddetto della poesia cosmica, del quale fa parte Il bolide, dei Canti di Castelvecchio (in terzine dantesche).

La poesia è del 1903, pubblicata inizialmente sulla rivista «La Rivista d’Italia», ed è il penultimo componimento della sezione finale Il ritorno a San Mauro.

La critica nota come essa si distacchi dai modelli ottocenteschi, che pure ci sono (ad es. Hugo, in Italia Tommaseo, Zanella), di magnificazione ed esaltazione del macrocosmo, al quale fa da contraltare il microcosmo della terra e dell’uomo, ancora secondo la rassicurante armonia descritta da Dante.

Pascoli scardina queste sicurezze, mette l’uomo al centro del nulla, tant’è che la sua poesia è stata definita non più “geocentrica” o “eliocentrica”, ma addirittura “galassiocentrica”; egli tratta anche dell’esistenza di altri mondi, che a noi sono sconosciuti solo in quanto al momento irraggiungibili, relegando quindi il genere umano in una posizione di assoluta marginalità e fragilità rispetto alla vastità del cosmo.

Nel Bolide Pascoli descrive una situazione che aveva vissuto in gioventù a San Mauro: camminando di notte lungo le rive del Rio Salto immaginava di essere vittima di un altro agguato come era successo al padre, di udire uno scoppio e di trovarsi all’improvviso morto e senza nessuno in mezzo alla strada, e in un’occasione gli parve di udire effettivamente quello che poteva sembrare uno sparo, ma si trattava invece di un bolide, di una meteora fiammeggiante che dopo aver per qualche istante illuminato tutta la campagna era infine ritornata nel buio. Leggiamo i primi tre versi (a cui segue il tema memoriale di San Mauro, un attacco narrativo ‘consueto’) e poi la parte finale (vv. 31-52), ove si accampa l’imprevista ispirazione astrale:

Tutto annerò. Brillava, in alto in alto,
il cielo azzurro. In via con me non c’eri,
in lontananza, se non tu, Rio Salto.
[…]

Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio
del fosso, nella siepe, oltre un filare
di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio

truce, un lampo, uno scoppio… ecco scoppiare
e brillare, cadere, esser caduto,
dall’infinito tremolìo stellare,

un globo d’oro, che si tuffò muto
nelle campagne, come in nebbie vane,
vano; ed illuminò nel suo minuto

siepi, solchi, capanne, e le fiumane
erranti al buio, e gruppi di foreste,
e bianchi ammassi di città lontane.

Gridai, rapito sopra me: Vedeste?
Ma non v’era che il cielo alto e sereno.
Non ombra d’uomo, non rumor di péste.

Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno
di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso
mi parve quanto mi parea terreno.

E la Terra sentii nell’Universo.
Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso

errare, tra le stelle, in una stella.

Si vede come dal motivo familiare si passi repentinamente al motivo cosmico, con questa sensazione finale di appartenere a nient’altro che a una dei milioni di stelle del firmamento che errano nel loro movimento vorticoso e senza meta.

3.2. L’aurora boreale, appartenente alla prima parte della raccolta Odi e Inni (inizialmente pubblicata nel «Marzocco»), si rifà invece ad un’epoca ancora più infantile, quando Pascoli era in collegio a Urbino, e durante una notte insonne gli capitò di assistere a questo particolare fenomeno naturale. Sono quartine di endecasillabi e novenari, a rima Abab CDcd.

Ai miei primi anni… infermo ero e lontano

da tombe amate… udivo dei compagni

il suon del sonno, uguale e piano,

sommosso da improvvisi lagni;

e, solo, e come chi non sa se giunga

mai, traversava con il mio martirio

io tutta l’oscurità, lunga,

con, sopra, il fisso occhio di Sirio.

E nella notte giovinetto insonne

vidi la luce postuma, lo spettro

dell’alba: tremole colonne

d’opale, ondanti archi d’elettro.

E sotto i flessili archi e tra le frante

colonne vidi rampollare il flutto

d’un’ampia chiarità, cangiante

al palpitar del gran Tutto.

Ti vidi, o giorno che dalla grande Orsa

inopinato esci nel cielo, e trovi

le costellazioni in corsa

dirette a firmamenti nuovi!

Ti vidi, o giorno che su l’infinita

via delle nebulose ultime e sole

appari. M’apparisti, o vita

che splendi quando è morto il sole.

Un alito era, solo, per il miro

gurge, di luce; un alito disperso

da un solo tacito respiro

e che velava l’universo:

come se fosse, là, per un istante,

immobile sul sonno e su l’oblio

di tutti, nella sua raggiante

incomprensibilità, Dio!

Le quartine finali sono quelle che danno la chiave della poesia, in cui il poeta pone maggior enfasi sul tema che gli sta a cuore, che viene così ‘esposto’ all’attenzione del lettore.

Da notare il “come se” con cui si apre la quartina finale: in quel momento il poeta non “vede” Dio, ma ha l’impressione, la sensazione, di quello che invece può essere l’apparizione di Dio, nella strana e inspiegabile luce che irrompe improvvisa e repentinamente sparisce, “immobile sul sonno”, il sonno dei compagni della camerata come pure il sonno dell’umanità intera, che non si rende conto della sua condizione, ma che comunque è quasi protetta, nonostante il suo oblio, dalla veglia del poeta che si interroga e si pone il problema.

Particolare anche l’uso del termine “incomprensibilità”, un eptasillabo, quindi tipicamente un vocabolo prosastico e raramente usato nella tradizione della lirica italiana, e in questo caso la parola diviene quasi mimetica del senso di assoluta lontananza, distanza, incommensurabilità (e pure incomprensibilità) di Dio, che pure è messo, non a caso, in rima con “oblio”.

3.3. Il tema cosmico entra anche in testi nati apparentemente a seguito di fatti di cronaca, come la chiusura della Porta Santa da parte di Papa Leone XIII il 24 dicembre del 1900, a termine dei riti dell’Anno Giubilare, nell’inno La porta santa di Odi e Inni, scritto e pubblicato sotto l’impressione immediata, il 6 gennaio 1901, sul «Marzocco».

Pascoli stravolge il significato religioso del rito, immaginando che il popolo che vi assiste si senta in qualche modo escluso, tenuto fuori, dalla realtà oltre la porta, la Vita Eterna promessa da Dio e dalla religione, e allora invoca il Papa perché non chiuda questa porta, e lasci che il popolo dei fedeli possa vedere quello che c’è di là.

Sono sei sezioni di 11 versi ciascuna, composte da due quartine e una terzina di settenari (con una particolare leggerezza metrica quindi):

I

Uomo, che quando fievole

mormori, il mondo t’ode,

pallido eroe, custode

dell’alto atrio di Dio;

leva la man dall’opera,

o immortalmente stanco!

Scingi il grembiul tuo bianco,

mite schiavo di Dio:

la Porta ancor vaneggi!

Vogliono ancor, le greggi

meste, passar di là.

II

O nostro primogenito,

puro tra i bissi puri,

le pietre che tu muri

con la gracile mano,

nel sepolcreto sembrano

chiudere i tuoi fratelli

tutti; con tre suggelli,

tutto il genere umano.

Solo la bianca Morte

chiude così le porte,

che non riaprirà!

III

Oh! le tue mani tremano!

Dove sarai tu, quando

un secol nuovo, orando,

toglierà le tre pietre?

Dove anche noi. Le candide

culle ch’or vanno e stanno

tra un canto pio, saranno

tombe immobili e tetre.

Avanti quella Porta

chiusa non c’è che morta

gente; un’ombrìa che va.

IV

O vecchio, è vecchio, al nascere,

del suo morir futuro

anche il bambino, puro

là tra i puri suoi bissi.

Tutti i fratelli tremano

seguendo te che tremi,

come su gli orli estremi

d’invisibili abissi.

Vecchio che in noi t’immilli,

lasciaci udir gli squilli

dell’immortalità!

V

Di là, di là, risuonano

chiare le argentee trombe

che spezzano le tombe

d’inconcusso granito!

Di là, di là, risuonano

canti or soavi or gravi;

ché c’è di là, con gli avi,

qualche bimbo smarrito!

Tutto il di noi che vive

è ciò che a noi sorvive:

tutto è per noi di là!

VI

Non ci lasciar nell’atrio

del viver nostro, avanti

la Porta chiusa, erranti

come vane parole;

ad aspettar che l’ultima

gelida e fosca aurora

chiuda alle genti ancora

la gran porta del Sole;

quando la Terra nera

girerà vuota, e ch’era

Terra, s’ignorerà.

3.4. Sempre riguardo a Papa Leone XIII, che evidentemente doveva possedere un notevole carisma nel suscitare la creazione immaginativa con la sua sacralità (accentuata dall’estrema vecchiaia), Pascoli scrive La Morte del Papa (avvenuta nel 1903, ultranovantenne – era nato infatti nel 1810).

In quest’opera molto singolare, appartenente ai Nuovi Poemetti, scritta in terzine dantesche, il poeta immagina una vecchietta sua conterranea della Garfagnana che, essendo nata lo stesso giorno del Pontefice, di conseguenza si sia messa nella condizione di “dover” morire esattamente il giorno della morte del Papa stesso, condividendone il destino quasi fossero gemelli.

Quando la notizia della malattia del Papa raggiunge anche la sperduta campagna attraverso i giornali la vecchietta si prepara a morire, dando le opportune disposizioni ai figli e ai compaesani, e negli ultimi istanti, mentre attende il suo destino, ella ha una visione del Papa che si avvia per una strada (e va notato come questo riferimento sia tutt’altro che casuale, essendo la Via Lattea chiamata tradizionalmente “la via di Roma”). Delle 14 sezioni composte ciascuna di sette strofe caudate, leggiamo la XII (vv. 243-264):

Per quella via… Ma quella era la via

dell’Universo, l’alta sui burroni

dell’Infinito ignota Galaxia:

e prima d’essa Cani Idre Leoni,

raggianti nelle tenebre celesti,

gelide: stelle, costellazïoni:

Soli: sciami di Soli, anzi, con mesti

pianeti ognuno, dove il fuoco primo

par che si spenga e che l’amor si desti;

dove marcisce il puro fuoco in limo

di vita, impuro, su cui vola forse

l’uomo con l’ali, o sguazza il fauno simo.

Le costellazïoni indi trascorse,

dalla fulgida Lira alla Carena,

dalla fulgida Croce alle grandi Orse;

ecco la fitta polvere, la rena

ogni cui grano è Mondo che sfavilla

nella sua solitudine serena;

dove pare un pulviscolo, una stilla,

il nostro cielo dalla volta immensa…

se pur là c’è la notte, una pupilla

nell’ombra, uno che veglia, uno che pensa!

3.5. Un altro testo emblematico della poesia cosmica di Pascoli è La Vertigine, pubblicato nel gennaio 1908 e poi incluso nei Nuovi poemetti, che prende spunto dalla notizia di cronaca di un giovane che aveva perso il senso della gravità e si sentiva “cadere verso il cielo”. Leggiamo alcune terzine delle due sezioni in cui è divisa la poesia (vv. 1-6, 10-34, 47-56):

I

Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto,
voi vedo immersi nell’eterno vento;

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

[…]

Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.

Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.

Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;

che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblìo che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!

Ma quando il capo o l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega?…

Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

II

Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche, azzurre e rosse,

su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!

[…]

precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso;
sprofondar d’un millennio ogni momento!

di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;

forse, giú giú, via via, sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,

di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!

Anche in questo caso l’ultima parola della poesia è Dio, questa volta in rima con “io”, il poeta, l’individuo che cerca di identificarsi (si noti anche l’accostamento dei pronomi al v. 55: «io te», in una frase ellittica del predicato, in cui sarà da sottintendere il precedente infinito «sperare»); Pascoli insomma ha tentato qui di penetrare il grande mistero di Dio con questa impressione paurosa di vertigine.

3.6. Nel gennaio del 1910 è pubblicata Alla Cometa di Halley, in risposta ad un articolo di R. Davidsohn, che annunciava il passaggio della cometa, apparso sulla rivista «Il Marzocco» il 26 dicembre dell’anno precedente.

Davidsohn raccontava che la cometa era stata descritta in passato da molti letterati (la cometa di Halley è quella vista nel 1301 da Dante), i quali non erano però a conoscenza dei principi alla base della realtà astronomica di cui parlavano, e in particolar modo della periodicità del passaggio della cometa (76 anni), affermando che ora che la scienza aveva svelato tutto ciò, la cometa perdeva tutta la sua suggestione poetica, ma che, se pure a discapito della produzione poetica e letteraria, quantomeno la sua epoca era pregna del progresso tecnico e scientifico.

Pascoli immagina che di fronte agli abissi cosmici che minacciano di sprofondare l’uomo si levi Dante in persona, il quale però, pur con tutto il suo coraggio e la sua grandezza, nulla può contro la potenza devastante del cosmo, e finisce annientato al cospetto di Dio (che nuovamente compare nel verso conclusivo). La terzina iniziale si rivolge alla cometa stessa:

O tu, stella randagia, astro disperso,
che forse cerchi, nel tuo folle andare,
la porta onde fuggir dall’universo!

[…]

Nella quarta sezione compare in primo piano Dante (vv. 49-78):

Egli era il peregrino del Mistero.
E tu la morte gli accennasti, ed esso
la vide, e l’abbracciò col suo pensiero,

e sì l’uccise nel potente amplesso.

V

Ma tu sdegnosa ti spargevi avanti,
torva Cometa, in un diluvio rosso
le miche accese d’altri mondi infranti.

Dante era l’uomo. E tu dicevi: – Io posso
spezzarti, o Terra. E niuno saprà mai
che v’era un globo, ora da me percosso,

nei freddi cieli. […]

Egli solo nello spazio immenso
stava a te contro, a guardia degli umani,
astro di morte. – Io mi son un che penso –

egli diceva – e sempre è il mio domani. –

VI

Tu gli solcasti della tua minaccia
la dura fronte; e il pensator terreno
le mani aperse ed allargò le braccia.

E immobilmente ascese tra il baleno
delle tue scheggie, ascese senza fine,
come in un plenilunio sereno.

Gli si frangean, col croscio di ruine,
bolidi intorno; in polvere lucente
ridotto il cosmo gli piovea sul crine.

Negli occhi aperti, accese appena e spente,
morian le stelle. E Dante fu nessuno.
Terra non più, Cielo non più, ma il Niente.

Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l’Uno.

3.7. La poesia in cui il tema cosmico risuona con maggior vigore è probabilmente Il Ciocco, dei Canti di Castelvecchio, in cui Pascoli immagina l’annientamento e la morte dell’individuo, del poeta, della terra, della galassia e del cosmo intero, una vera e propria esplosione universale, che riduce il cosmo in frammenti, lasciando come unica speranza la possibilità che questi frammenti possano in futuro riaggregarsi e ricostruire così l’universo.

E la speranza compare solo nei versi conclusivi della parte cosmica del secondo canto (235-248):

io grido il lungo fievole lamento

d’un fanciulletto che non può, non vuole

dormire! di questa anima fanciulla
che non ci vuole, non ci sa morire!
che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,
vuole sotto il chiaror dell’avvenire!

morire, sì; ma che si viva ancora
intorno al suo gran sonno, al suo profondo
oblìo; per sempre, ov’ella visse un’ora;
nella sua casa, nel suo dolce mondo:

anche, se questa Terra arsa, distrutto
questo Sole, dall’ultimo sfacelo
un astro nuovo emerga, uno, tra tutto
il polverìo del nostro vecchio cielo.
[…]

3.8. La speranza di qualcosa che riesca a sopravvivere al di là di un tale sfacelo universale è un tema proprio anche delle poesie in latino.

In Sermo, poemetto del gennaio 1895, tradotto da Pascoli stesso in prosa, il poeta riflette prendendo spunto dal terremoto che aveva colpito Calabria e Sicilia l’anno prima, e scrive (vv. 18-:

[…]

E il sapiente: « Di morte improvvisa, a lor volta, sotto i piedi ti muore un popolo, sopra la terra ti muore un astro. Che dici tu? tu dici che a te non fa nulla, se in alto un astro schizza e va in polvere, se in terra una formica è calpestata. Ebbene a nessuno importa se l’Uomo viva o non viva, ché ogni genere è morso da un suo proprio dolore, e tutti gli esseri, presto o tardi, si troveranno all’ombra delle ali della morte […].

In Ultima Linea Orazio spera che almeno la poesia, sua e dell’amico Virgilio, sopravviva all’uomo, ed è questa quella che può essere la Speranza per un poeta laico come Pascoli, che gli viene insegnata dai suoi grandi maestri spirituali classici: “non omnis moriar” aveva detto Orazio (carm. 3, 30, 6) e Pascoli gli fa dire ora (vv.104-107):

[…]

   Quamquam… num mors est ultima rerum

linea? Delendum est hoc. Quanto rectius illud
NON OMNIS MORIAR! Quin pars mihi multa … Quid? Omnis,
omnis ut es, Publi, tibi, ero mihi ego ipse superstes!”

[…]

«Eppure… è proprio vero che la morte sia il limite estremo? Si disperdano quelle parole: quanto meglio dissi: non morirò tutto! Una gran parte di me… Ma no! Tutto io sopravviverò, come tutto tu sopravvivi, o Publio» (trad. di U. E. Paoli).

Il poeta si rifiuta dunque di considerare la morte come “ultima linea”, termine e fine di “tutto”, e proclama con fede laica che non tutto morirà, e la sua opera potrà sopravvivere.

Questa fede nell’esistenza di una via per la sopravvivenza nell’eternità da parte dei poeti viene però meno in Finis Rerum, la “fine del mondo”, XVII componimento della satura Fanum Vacunae del 1910 (vv. 372-379):

Heu tempus veniet cum domitum pulvere corruat
templum sole nitens et tremulis sideribus, neque
iam sit quid videat quis neque iam qui videat, neque

iam mundus solium sustineat quo sedeat deus:

 unus qui vacuo tunc spatio permeet undique,
seque ipso omne quod est, compleat, atque ipse sit omnia
unus.
Quid tua tum carmina, quid tum tuus hic labor,
et spes et metus, haec gaudia, tot sollicitudines?

Tempo verrà che il tempio, illuminato dal sole e dalle tremule stelle, cadrà logoro in polvere, e non ci sarà più che vedere né chi possa vedere, e il mondo non sosterrà più il trono su cui siede dio: egli solo allora spazierà nell’immenso vuoto e riempirà di sé tutto quello che esiste ed egli solo sarà il tutto. Che sarà allora dei tuoi canti, che sarà di questo tuo faticare, di speranze e timori, delle gioie, di tanto agitarsi? (trad. di A. Traina).

Pascoli, con la classica locuzione “tempus veniet”, formula della predizione negativa (usata addirittura quattro volte nel Ciocco) tipica della cultura occidentale, che ha inizio con Omero nell’Iliade, quando Ettore nel sesto canto immagina il momento in cui Troia sarà caduta, annuncia la venuta futura di un tempo in cui l’universo intero cadrà in polvere, non vi sarà più nulla da vedere, né nessuno in grado di vedere alcunché, e il mondo non sarà più in grado di sostenere il trono su cui siede Dio, poiché secondo la raffigurazione degli antichi il mondo intero costituiva il fondamento su cui si ergeva il trono di Dio.

Se il mondo conflagrerà riducendosi in polvere, resterà solo Dio a spaziare nell’immenso vuoto, e riempirà di sé tutto quello che esiste, ed Egli solo sarà il Tutto (e si nota come sia ripresa in latino la stessa tematica propria della poetica in italiano).

Che potrà mai essere allora dei canti e delle fatiche del poeta? Ora nemmeno la poesia può scampare alla distruzione totale, ed in una sorta di nichilismo cosmico è negata la sua capacità di donare immortalità, in cui prima il poeta pareva sperare.

3.9. Ancora ad Odi e Inni, infine, appartiene l’odicina A una morta, originariamente pubblicata sul «Marzocco» il 10 dicembre 1905 (col titolo L’anima), una poesia (poco nota e letta), che pure può essere considerata tra i capolavori del Pascoli (si veda ad es. Pazzaglia 1999, p. 72 s.). è scritta in strofette di settenari, metro tipico del Settecento, ovvero proprio di ariette di melodramma, cantabili e leggere («al limite dell’ironia metalinguistica», Perugi), in cui invece Pascoli si esprime come un «Metastasio all’orlo del raccapriccio» e «riesce molto più cosmico che altrove, molto più angoscioso che nei grandi poemi cosiddetti astrali» (così Garboli, uno dei critici più severi, che la include nella sua scelta); con un attacco, come notava Emilio Cecchi nel 1959, che ha uno slancio poetico talmente eccezionale, «troppo veemente per potersi sostenere fino in fondo con l’impeto sul quale [la poesia] è partita». La poesia infatti è di una apparente semplicità e spontaneità massima, ma allo stesso tempo frutto di una grandissima elaborazione retorica. Si vedano solo le riprese in variazione dei concetti-chiave ‘vita’ e ‘pensiero’: ai vv. 1 e 5, «vivi», prima sostantivato e poi forma verbale geminata (a costituire quindi rima equivoca); ai vv. 8 e 9, 12 e 13, a collegare le strofe quasi a coblas capfinidas e di nuovo con la figura etimologica: «quando / non ti penserò più! // Resta di me, pensiero!», «pensiero, anima, no! // Ch’io resti col pensiero», ma già al v. 2: “solo perché ti penso” e ancora al v. 18 “l’eterna doglia / del mio pensiero sperso”, (e si ricordi l’«uno che veglia, uno che pensa» del v. 264 della Morte del papa e Dante «Io mi son un che penso», al v. 64 della Cometa di Halley, «pensator terreno» al v. 67); il chiasmo pronomi-avverbio e lo scambio, di nuovo a chiasmo, delle persone fra pronomi e predicato ai vv. 15-16 “E sempre in me sarai, / in te sempre sarò”, mimetici dell’unione indissolubile, al di là della morte, dei due partners – la funzione di fortissimo rilievo dei pronomi evidente fin dal vocativo d’esordio, v. 1, “O tu”, e dall’inizio della seconda strofa, vv. 5 s., “ma con me vivi, vivi / tu pure un po’” (Apollo aveva promesso più semplicemente all’amato, e involontariamente ucciso, Giacinto semper eris mecum memorique haerebis in ore, Ov. met. 10, 204).

O tu che sei tra i vivi
solo perché ti penso;
come se odor d’incenso
fosse il pino che fu;

ma con me vivi, vivi
tu pure un po’: tremando
l’attimo io vedo, quando
non ti penserò più!

Resta di me, pensiero!
Ch’io creda, o Dio! Tuoi servi,
Morte, sian vene e nervi;
pensiero, anima, no!

Ch’io resti col pensiero,
che non si estingua mai!
E sempre in me sarai,
in te sempre sarò.

Ma… Oh! l’eterna doglia
del mio pensiero sperso,
quando nell’Universo
cerchi ciò che non v’è!

quando le braccia voglia
per ricondurti al seno!
la bocca! gli occhi! almeno
perch’io pianga su te!

Si coglie in quest’ultimo testo un drammatico anelito a quella che pare l’ultima possibilità di vita ultraterrena: il vivere nei ricordi dei viventi, con la tensione continua della ricerca della fede, delle risposte ai propri dubbi, che hanno accompagnato l’intera opera di Pascoli.

  • Ringrazio sentitamente i responsabili della CCDC-Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura di Brescia, innanzi tutto per l’invito rivoltomi a parlare in una sede così prestigiosa; poi, per la registrazione video e la successiva trascrizione dell’intervento prontamente apprestati e gentilmente inviati. Sul questa trascrizione si basa il presente testo, e della sua veste originaria mantiene il tono colloquiale e lo stile discorsivo.
  • Per le doverose citazioni puntuali e i necessari riferimenti bibliografici si è apprestata la seguente Nota bibliografica, che contiene anche qualche corollario non inutile a integrazione del discorso.
  • Dedico questa lettura pascoliana, su un tema che tocca ancora profondamente tutti noi uomini all’alba del terzo millennio, e che non può lasciare indifferente nessuno, a livello esistenziale, nella propria privata e personale esperienza individuale di vita e di morte delle persone amate, alla memoria di Fausto Battini.

 

Modena, luglio 2004

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

1.1. I recenti volumi a cui si fa riferimento sono soprattutto: G. Capovilla, Pascoli, Laterza, Roma-Bari 2000; M. Pazzaglia, Pascoli, Salerno, Roma 2002; G. Pascoli, Tutte le poesie, a cura di A. Colasanti, trad. e note delle Poesie latine a cura di Nora Calzolaio, Newton-Compton, Roma 2001; G. Pascoli, Poesie e Prose scelte, progetto editoriale, introduzione e commento di C. Garboli, voll. 2, «Meridiani» Mondadori, Milano 2002; G. Pascoli, Poesie, a cura di M. Pazzaglia, «Diamanti» Salerno, Roma 2002 e G. Pascoli, Poemi e Canzoni, a cura di M. Pazzaglia, «Diamanti» Salerno, Roma 2003; C. Mazzotta, Concordanza dei “Poemi Conviviali” di Giovanni Pascoli, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1997; C. Mazzotta, Concordanza dei “Carmina” di Giovanni Pascoli, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1999; della «Rivista Pascoliana», pubblicata dall’Accademia Pascoliana di San Mauro per i tipi dell’Editore Pàtron di Bologna, diretta da Mario Pazzaglia, sono usciti finora 15 fascicoli a cadenza annuale (1989-2003).

 1.2. Per il Pascoli latino il punto di partenza è A. Traina, Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Antenore, Padova 19611, Le Monnier, Firenze 19712, dal quale si è sviluppata la serie dei commenti ai singoli carmina curati dallo stesso Traina e dalla sua scuola .

Per i rapporti tra Pascoli e il cristianesimo ho seguito fondamentalmente la ricostruzione di A. Traina, Introduzione ai Poemata Christiana di G. Pascoli: la religione del dolore, in Poeti latini (e neolatini) V, Pàtron, Bologna 1998, pp. 237-252, già in G. Pascoli, Poemi cristiani, intr. e comm. di A. Traina, trad. di E. Mandruzzato, Milano 19841, 20012, pp. 5-40; ma si veda anche E. Pasquini, Pascoli e gli albori del cristianesimo, «Rivista Pascoliana» 3, 1991, pp. 103-115 (già in Giovanni Pascoli e l’Osservanza, Studi in occasione delle “Giornate dell’Osservanza” Bologna, 18-19 maggio 1991, «Zenit Quaderni» 1991, pp. 9-17: in questo fascicolo è da notare l’equilibrata, serena obiettività con cui due religiosi francescani, il padre superiore O. Gianaroli nella Premessa e nella nota finale (pp. 3 s. e 53 s.), e il padre provinciale B. Rossi nel suo Saluto, p. 8, trattano della problematica questione della presunta/pretesa conversione del Pascoli sul letto di morte, accogliendo sostanzialmente, – e quindi dandone implicitamente un’autorevole conferma -, la posizione di A. Traina sull’argomento, espressa a p. 30 nei citati Poemi cristiani = p. 243 PL V).

Ho pure tenuto presente due importanti articoli di M. Pazzaglia, su una tematica affine a quella qui presa in esame, Figure della morte nella poesia del Pascoli, in Pascoli, la storia, la morte, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 45-90, e Appunti sulle figure della morte nei carmina pascoliani, «Rivista Pascoliana» 12, 2000, pp. 151-168.

Una interessante testimonianza sugli anni di insegnamento bolognese del Pascoli, in relazione alle tematiche intorno a cui si svolgeva la sua riflessione, sia di poeta che di insegnante, ci viene anche da un testo poco citato e in apparenza pertinente solo in parte, l’ampia trattazione di C. Calcaterra, Alma mater studiorum. L’Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Zanichelli, Bologna 1948, pp. 366-368 (sottolineature nostre): «Gli scritti che mostrano quasi in atto l’assillo dell’indagine pascoliana sono le due memorie di Giovanni Federzoni, Era il Pascoli credente? e San Michele in Bosco [articoli pubblicati rispettivamente nella «Rassegna italiana» e nella «Strenna delle colonie scolastiche bolognesi»del 1920] […] Egli conferma implicitamente che al Pascoli si sentivano vicini quegli spiriti che avevano un consimile tormento interiore, specialmente coloro che, non potendo accogliere senza persuasione i dogmi e i precetti della Chiesa e, anelando alla nozione di un principio che loro fosse stella polare nel mare dell’essere, cercavano di giungere a Dio con l’intelletto per soddisfare il desiderio con un atto di ragione. Queste pagine collimano a pieno con la prefazione del volume Odi e Inni, che nel 1906 il poeta dedicò “Alla giovane Italia” più particolarmente a’ suoi allievi, e dimostrano chiaramente che il nuovo suo insegnamento s’informava dichiaratamente a una progressione spiritualistica […] La ricerca se l’anima dell’uomo sia mortale o immortale divenne in lui non meno assillante del desiderio di Dio. Sulla nuda e desolata contemplazione della morte, egli […] inalzò la fede nello spirito [cita i vv. 9-12 di A una morta]. Di questo pathos insistente apparvero permeate le sue lezioni su Dante, sugli inni sacri del Manzoni, sul Foscolo, sul Leopardi, su alcune liriche del Carducci».

1.3. Per i rapporti del poeta con la scienza positivistica, le sue letture in materia documentate dalle presenze nella Biblioteca della casa di Castelvecchio, la conoscenza delle teorie dello Haeckel, ecc., mi sia consentito rinviare alla mia Introduzione al carme Pecudes: G. Pascoli, Pecudes, intr., testo, trad. e comm. a cura di Patrizia Paradisi, Pàtron, Bologna 1992, pp. 22-27. Successivamente si veda anche di Marina Marcolini, il secondo paragrafo (La poesia degli astri) del suo articolo Il peso della cultura scientifica di fine secolo nell’opera di G. Pascoli, «Filologia e critica» 22, 1997, pp. 358-422 (pp. 373-382), poi ripreso nel paragrafo Poesia copernicana del volume Pascoli prosatore. Indagini critiche su «Pensieri e Discorsi», Mucchi, Modena 2992, pp. 246-264.

I due decenni a cavallo del passaggio di secolo, nei quali vede la luce la poesia pascoliana, sono stati di recente oggetto della Mostra tenuta a Palazzo Reale di Milano Il Mondo Nuovo. Milano 1890-1915, curata da Stefano Baia Curione e Marco Cattini (10 novembre 2002-28 febbraio 2003) per celebrare il primo centenario dell’Università Bocconi (cfr. «Il Sole-24 Ore» n. 308, 10 nov. 2002, p. 31). In questi venticinque anni avviene in Italia per la prima volta il processo di modernizzazione inteso come risultato dell’applicazione della nuova scienza sperimentale e delle conquiste del progresso e dell’evoluzione tecnologica nei più svariati ambiti della vita – economica, sociale, culturale -; è un lungo periodo di fervore, dall’intenso clima morale e materiale, che realizza un contesto di speranze, ideologie, ragioni e lavoro, nelle quali si è sviluppata la vita delle prime generazioni del Novecento, e che si chiuderà con lo scoppio della prima guerra mondiale. È importante ricordare questo sfondo storico anche per capire le scelte poetiche del Pascoli, che ad es., a differenza di suoi epigoni neolatini come il calabrese Francesco Sofia Alessio e il comacchiese Alessandro Zappata, pure concorrenti e vincitori ad Amsterdam ed entrambi autori di lunghi poemetti sull’elettricità (rispettivamente Vis electrica del 1908, di 88 vv., e Lux electrica del 1904, di 213 vv.), scriverà del tutto occasionalmente nel 1911 solo un monostichum de vi electrica, un esametro che è da ascrivere più al genere epigrammatico (è riportato infatti da G. Ruozzi in Epigrammi italiani. Da Machiavelli e Ariosto a Montale e Pasolini, Einaudi, Torino 2001, p. 266), che come esaltazione delle nuove conquiste della scienza e della tecnologia.

 1.4. Il centenario dei Canti di Castelvecchio è stato poi celebrato con un Convegno promosso dall’Accademia Pascoliana a San Mauro Pascoli nel settembre 2003.

2.1. Per accostarmi correttamente al tema proposto, e indirizzare nella giusta direzione gli spogli dai testi pascoliani, ho consultato le definizioni di “assoluto” proposte da alcuni repertori e dizionari di filosofia. Alcune particolarmente sembrano adattarsi a descrivere quella che sarà la ricerca pascoliana, seppure prevalentemente poetica e non strettamente filosofica: exempli gratia «Il Romanticismo ha […] fissato l’uso della parola sia come aggettivo sia come sostantivo. Secondo questo uso la parola significa “senza restrizioni”, “senza limitazioni”, “senza condizioni”; e come sostantivo significa la Realtà che è priva di limiti o condizioni, la Realtà suprema, lo “Spirito” o “Dio”. […] il termine può essere considerato come sinonimo di “Infinito”. […] l’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) […] affermò l’esistenza e insieme l’inconoscibilità dell’Assoluto. […] La parola rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico, precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che comprende e risolve in sé ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non avendo nulla fuori di sé che possa limitarlo o condizionarlo» (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, ristampa riveduta, UTET, Torino 1968, p. 74); «Il termine viene impiegato nella forma sostantivata, “L’Assoluto” o anche Dio, comunque poi questo venga individuato […]. nell’età romantica […] l’assoluto sarebbe l’unica realtà omnicomprensiva nella quale la molteplicità si risolve […] Storicamente tale concezione è stata sommersa, nell’ultimo secolo, dalla crescente sfiducia gnoseologica nei confronti dei problemi metafisici che può essere così sintetizzata: dato che esista un autentico concetto di assoluto, di questo non si può avere una conoscenza assoluta» (P. Balestro, Enciclopedia europea, Garzanti, Milano 1976, vol. I, p. 744 s.); per la storia del vocabolo («è a Nicola Cusano, 1440, che si fa risalire l’attribuzione al termine di una valenza teologico-metafisica peculiare, per cui esso viene riservato propriamente a Dio, nel senso che Dio solo è assoluto»), i suoi usi e le sue interpretazioni, soprattutto nell’idealismo tedesco, si veda anche Enciclopedia Garzanti di filosofia, Milano 1981, rist. 1988, p. 56 s.

 

  1. Per la scelta e il commento dei testi mi sono avvalsa dell’ormai classico saggio di G. Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli, pubblicati nel cinquantenario della morte (Convegno bolognese, 28-30 marzo 1958), Commissione per i Testi di Lingua, Bologna 1962, vol. III, pp. 35-73, poi in G.G., Carducci e Pascoli, Sciascia, Caltanissetta-Roma 19773, pp. 77-136 (già dalla seconda edizione del 1965, ma non nella prima del 1957; e in «Lettere italiane» a. X, 1958, pp. 154-188, col titolo Ispirazione cosmica nella poesia di Giovanni Pascoli). Ma occorrerà ricordare anche i lavori pascoliani di Enrico Turolla, soprattutto i primi due, La tragedia del mondo nella poesia civile di Giovanni Pascoli del 1926 (Bologna) e il contemporaneo profilo del Formiggini, Giovanni Pascoli, Roma 1926 (Milano 19392): già allora «lo studioso navigava controcorrente rivendicando la grandezza e la difficoltà della poesia pascoliana (e per di più in rapporto a opere tutt’oggi poco esplorate come Odi e Inni) dopo la dittatoriale condanna del Croce […]: “Altro che poeta di uccelletti!”. E poi il Turolla ne intuiva, se non per primo certo tra i primi, la “vertigine” cosmica e il senso “copernicano” dello spazio, e gliene diedero atto i maggiori studiosi di questa tematica, il Getto e il Giannangeli» (A. Traina, L’Orazio di Enrico Turolla: un momento della critica oraziana in Italia, Introduzione a E. Turolla, Studi oraziani, a cura di D. Zamattio, Hakkert, Amsterdam 2000, p. VIII; cito da A. Traina, La lyra e la libra. Tra poeti e filologi, Pàtron, Bologna 2003, p. 119).

Per contro, questo filone della poesia pascoliana è tuttora sistematicamente ignorato dalla manualistica scolastica: le antologie del triennio superiore nelle loro scelte di testi non vanno oltre le Myricae, i Poemetti e i Canti di Castelvecchio, con qualche rara concessione ai Poemi conviviali (per non parlare ovviamente della poesia latina, completamente assente ) (tale affermazione è basata sull’analisi di almeno una decina di manuali, dalla seconda metà degli anni Novanta a oggi: ne cito solo tre: il fascicolo autonomo – dal titolo fin troppo eloquente – Pascoli e la poesia del quotidiano, di G. Bellini e G. Mazzoni, «Moduli di letteratura italiana» Laterza, Roma-Bari 1997; Itinerari dell’invenzione, direzione scientifica di R. Bruscagli e G. Tellini, vol. 5, Sansoni per la scuola, Firenze 2002; Tempi e immagini della letteratura, coordinamento di E. Raimondi, vol. 5, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2004.

3.1. Il bolide: cfr. anche i seguenti commenti: Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, vol. III Ottocento-Novecento, Einaudi, Torino 1999, pp. 523-526 (di Marina Marcolini); G. Pascoli, Poesie. Myricae. Canti di Castelvecchio, a cura di I. Ciani e F. Latini, Utet, Torino 2002, pp. 940-945. C. Garboli aveva già pubblicato autonomamente il commento al Ritorno a San Mauro (che leggiamo nel «Meridiano» citato sopra) negli «Oscar» Mondadori nel 1995. Proprio a proposito di quella che egli definisce la «teatralità di linguaggio» del Bolide, con «i bisticci a effetto, i lenocinii, le figure studiate e stupefacenti» (p. 93 Oscar = p. 910 Merid.), mi sento di dissentire facendo notare che al v. 35: «un lampo, uno scoppio… ecco scoppiare / e brillare, cadere, esser caduto» la successione delle forme verbali «cadere, esser caduto» non è un «bisticcio [che] gli piacerà anche in Rossini (PI), III III 7, “Sfavillò. Si spegneva… era già spento”» (p. 97 = p. 914), bensì il tentativo da parte di un profondo conoscitore delle dinamiche linguistiche classiche di rendere in italiano l’opposizione aspettuale degli infiniti greci aoristo-perfetto (proprio il verso di Rossini è addotto come esempio in tal senso da A. Traina – G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Patron, Bologna 19986, p. 213 n. 4).

3.2. L’aurora boreale. Si noti la certezza negativa del v. 24: «quando è morto il sole» (e al v. 163 del secondo canto del Ciocco: «O Sole, eterno tu non sei», e ancora al v. 245 s.: «distrutto / questo Sole»), che si può confrontare in opposizione con la fiducia nel sistema solare ancora presente nel Foscolo del finale dei Sepolcri, v. 294 s.: «finchè il sole / risplenderà su le sciagure umane», e per analogia preconizzante con un titolo di Oriana Fallaci, Se il sole muore.

 3.3. La Porta Santa. Per questa poesia si vedano i commenti di Goffis in G.Pascoli, Opere, a cura di C.F. Goffis, Milano, Rizzoli I 1970, pp. 616-619, e Treves in G.Pascoli, L’opera poetica, a cura di P. Treves, Firenze, Alinari 1980, pp. 544-552 (in particolare per i rapporti del poeta con papa Leone XIII). Ancora attuali i rilievi lessicali e stilistici della tesi di laurea di P.P. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti, a cura di M. A. Bazzocchi, Einaudi, Torino 1993, pp. 174 s.

Il movimento interrogativo che anima la terza strofa (vv. 24-27): «Dove sarai tu, quando / un secol nuovo, orando, / toglierà le tre pietre? // Dove anche noi», ha una lontana, ma a mio avviso inequivocabile (per l’ordine delle parole, la distanza fra domanda e risposta e soprattutto per l’ellissi del predicato nel secondo soggetto), ascendenza leopardiana, in quell’Imitazione da Arnault che si inserisce nel millenario topos delle “foglie”, vv. 1-3, 10-13 (esordio e conclusione): «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu? […] / Vo dove ogni altra cosa, / dove naturalmente / va la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro». Ma si noti la patetizzazione che subisce l’immagine del destino della (comune) foglia (di faggio) uguale a quello delle (nobili) foglie di rosa e d’alloro, applicata invece agli uomini, dal papa in persona – rappresentante di Dio in terra, ma non per questo esente dal comune destino di morte – al collettivo “noi” che ingloba poeta e lettori.

3.4. La morte del Papa. Per i Nuovi poemetti ora si dispone dell’ampio commento di R. Aymone negli «Oscar» Mondadori, Milano 2003.

3.5. La vertigine. Cfr. G.Pascoli, Antologia lirica, a cura di A. Vicinelli, Edizioni scolastiche Mondadori, Milano 19632 (19621), pp. 238-244.

3.8. Sulla presenza complessivamente comunque assai scarsa della componente cosmica nella poesia latina, rispetto a quella italiana, si veda A. Traina, Presenze antiche nella poesia cosmica del Pascoli, «Belfagor» 1973, pp. 266-270, poi in A. T., Poeti latini (e neolatini) I, Pàtron, Bologna 19862, pp. 379-387. Le poesie latine di Pascoli si leggono nell’edizione canonica G. Pascoli, Carmina, a cura di M. Valgimigli, Milano 19511, 19705 (ma ora anche in A. Carbonetto, La poesia latina di G. Pascoli, La Nuova Italia, Firenze 1996); in particolare si vedano i seguenti commenti: G. Pascoli, Ultima linea, intr., testo e comm. a cura di Marinella Tartari Chersoni, Bologna 1989; per il Fanum Vacunae G. Pascoli, Saturae, intr., testo, comm. e appendice a cura di A. Traina, Firenze 19681, 19772 e G. Pascoli, Saturae (Catullocalvos, Fanum Vacunae), trad. di A. Traina, «Rivista Pascoliana» 7 (1995), pp. 213-231.

3.9. A una morta. La preparazione alla lettura dell’ode ha consentito di stanare un refuso testuale abbastanza insidioso al v. 13 che, dalla vulgata mondadoriana delle Poesie a cura di A. Vicinelli (prima nei «Classici contemporanei», ora negli «Oscar», vol. II, p. 724), «Ch’io resti col pensiero», si ripete fino alle edizioni recenti, ad es. di Colasanti, cit., p. 406 e di Pazzaglia, Poesie 2002, p. 514; ma Perugi (G.Pascoli, Opere, a cura di M. Perugi, Milano-Napoli Ricciardi I 1980, p. 736 s.) dava «Ch’io resti sol pensiero», e così stampa anche l’ultimo editore e commentatore Garboli (che però riproduce la prima stampa della poesia in rivista; nelle note, comunque, che pure danno conto delle successive varianti, non dice nulla a proposito di questo verso). Che quest’ultima sia la redazione corretta conferma il controllo sull’ultima edizione zanichelliana di Odi e Inni del 1935, p. 7, ma si vedano anche gli abbozzi pubblicati da Garboli (p. 1311: «Che io sia / pensiero solo! […] Quando sarò solo pensiero!»); d’altronde è noto che l’edizione del Vicinelli, «anche se assurta al ruolo consolidato di edizione canonica, non brilla per affidabilità», e che opportunamente Perugi nella sua antologia si è attenuto alle lezioni delle ultime edizioni bolognesi di Zanichelli, «innegabili punti d’arrivo della tradizione d’autore» (Mazzotta 1997, pp. VII-VIII; ma anche Perugi tace su questo suo ‘restauro’ testuale nella Nota ai testi nel II vol. a p. 2463).

3.10. Nella conversazione non rimase tempo per leggere alcuni versi (32-43) de La pecorella smarrita (dai Nuovi poemetti), nè L’anima, da Odi e Inni: per giustificarne la lettura nell’ottica della presente indagine bastino queste osservazioni del Pazzaglia: «Liriche come questa e come L’aurora boreale appaiono due approdi della meditazione poetica pascoliana; della sua consapevole richiesta alla poesia di donare risposta ai dubbi assillanti dell’anima; di creare un mito di parole in cui l’ansia di assoluto dell’io possa, pure in modo precario e transeunte, consistere».

Ciò che accomuna i testi proposti e da cui si può ricavare una qualche forma di conclusione, è il tentativo compiuto da Pascoli di elaborare una specie di lessico (e di retorica) dell’assoluto. Vari sono i procedimenti a cui ricorre, e di cui tentiamo qui uno spoglio preliminare, – che potrà essere ulteriormente incrementato, aggiornato e completato, in seguito a ispezioni vieppiù fini, – sulla base dei testi che abbiamo letto (useremo le sigle seguenti: L’anima = An.; L’aurora boreale = Aur.; Il bolide = Bol.; Il Ciocco, canto secondo = Cioc.; Alla cometa di Halley = Com.; A una morta = Mor.; La morte del Papa = MP; La pecorella smarrita = Pec.; La porta santa = PS; La vertigine = Vert.). Che il lessico poetico pascoliano meriti un’attenzione speciale è dimostrato dal fatto che commentatori sensibili come Nava e Garboli abbiano ritenuto opportuno inserire nei loro apparati, rispettivamente, un Indice delle note linguistiche in G. Pascoli, Myricae, a cura di G. Nava, Salerno ed., Roma 19912 (19781), pp. 330-336 e un Glossario dei termini notevoli commentati, in Poesie e prose scelte, cit., vol. II, pp. 1719-1805, a cura di Silvia De Laude e Vanna Presotto (ancora suscettibili di ampliamenti: al Glossario mondadoriano ad es. mancano «alito», «gurge», «oblio», termine altamente ‘pascoliani’; ed evidentemente ideati dai loro autori non senza influenza da parte degli studi sul Pascoli latino, che hanno sempre sollecitato valutazioni critiche basate concretamente sui testi piuttosto che su fumisterie ideologiche variamente orientate a seconda delle mode).

L’evidenza che per prima si impone al lettore delle poesie ‘cosmiche’ è la creazione di categorie “assolute” grazie alla maiuscola applicata a sostantivi comuni, con una frequenza che non può passare inosservata: da «Mistero» (Com. 49) a «Eternità» (Cioc. 188) a «Morte» (PS 20, Mor. 11), passando per una serie di coppie antitetiche come «Tutto» (Aur. 16, Com. 78, Cioc. 97, 199) e «Niente» (Com. 77, 78) o «Nulla» (Cioc. 97), «Infinito» (MP 245) e «Vuoto» (Cioc. 95), o para-sinonimiche: «Mondo» (MP 259), «Cosmo» (Cioc. 19, 88, 142), «Universo» (Bol. 49, MP 244, Cioc. 187, Pec. 31, Mor. 19), «Spirito» (Cioc. 203), «Uno» (Com. 78), per arrivare ai più usuali e addirittura abusati «Terra» (Bol. 49, PS 64, 66, Vert. 36, Com. 17, 31, 57, 61, 77, Cioc. 9, 126, 150, 153, 156, 245, Pec. 33, 35, 38, 63, 93), «Cielo» (Com. 77, Pec. 35) e «Sole-Soli» (PS 63, MP 249, Com. 11, Cioc. 31, 32, 68, 75, 129, 140, 154, 157, 163, 187, 225-6, 234, 246, Pec. 82, 84). Per le numerose costellazioni e pianeti citati col loro nome proprio (i vari Sirio, Orsa, Cani, Idre, leoni, Lira, carena, Croce, Vega, Mira, Altair, Algol, Urano, Marte, Giove, ecc., ma anche i più generici «Galaxia», «Nebulose») la maiuscola ovviamente è d’obbligo, ma è la stessa citazione così precisa che è atipica nella tradizione poetica italiana. Una trattazione a sé merita «Dio», che è ultima parola, come abbiamo già notato, di due poesie (quindi in clausola e rima), L’aurora boreale e La Vertigine, e chiude le prime due strofe de La porta santa, e ancora ricorre in Cioc. 182, Pec. 34, 91, Mor. 10.

Altri fenomeni ricorrenti sono le espressioni geminate (seppur di ascendenza popolareggiante) per suggerire il senso di vertigine: Bol. 1: «in alto in alto»; PS 45 e 49 (inizio di strofe successive): «Di là, di là»; Vert. 23 s.: «lontan lontano / in fondo in fondo», 52: «da spazio immenso ad altro spazio immenso», 53: «giù giù, via via», 55-56: «di nebulosa in nebulosa, / di cielo in cielo»; gli avverbi polisillabici (che riempiono quasi da soli il verso), spesso in iuncturae ossimoriche o sinestetiche, anch’essi mimetici in qualche modo di ‘infinito’: PS 6: «o immortalmente stanco!»; Com. 69: «E immobilmente ascese»; An. 16: «innumerevolmente cupa»; Cioc. 108: «il veloce / immobilmente fiume della vita»; Vert. 13: «Eternamente il mar selvaggio»; o ancora, a rendere il dinamismo vorticoso e incessante del cosmo, da un lato i sostantivi astratti deverbativi: «tremolio» (Bol. 36), «spolverio» Cioc. 37), «luccichio»Vert. 34), «seminio, polverio» (Vert. 34), «pulviscolo» (MP 261), «riscintillamento» (Cioc. 8) ecc., dall’altro gli infiniti verbali ‘narrativi’ (e sostantivati), soprattutto nelle Vertigine (30: «pendere», 44: «veder», 47: «precipitare», 49: «sprofondare») e nel Ciocco. Infine, a drammatizzare le situazioni, non si può non segnalare l’allocuzione diretta o l’apostrofe, agli uomini, come singoli (PS 1: «Uomo, che quando fievole / mormori», 12: «O nostro primogenito», 34: «O vecchio», 42: «Vecchio che in noi t’immilli») o collettivamente (Vert. 1-4: «Uomini […] / voi vedo […] // voi vedo», 7-10, in anafora: «Oh! voi non siete», 16: «Ma voi…») e, più spesso (e inaspettatamente, o almeno, originalmente) agli enti del cosmo e della natura: Aur. 17 e 21: «Ti vidi, o giorno» (in anafora a inizio di strofe), 23: «M’apparisti, o vita»; Com. 1 e 14: «O tu, stella randagia» (in anafora a inizio di sezioni); Vert. 35 s. : «tu passi / correndo, o Terra»; Cioc. 163: «O Sole, eterno tu non sei – né solo! -»; Pec. 33: «Che sei tu, Terra», 35: «O Terra, l’uno tu non sei», 36: «Non sei, Terra, il porto / del mare».

Il tutto, in un tessuto metrico-sintattico tramato di ripetizioni e anafore, iperbati e anastrofi, serie asindetiche in climax, che tengono in sospeso le frasi e i periodi, in modo tale che anche la struttura espressiva si trovi sempre, per così dire, sull’orlo del baratro, si sporga quasi ai margini dell’abisso, per cercare di cogliere, e di rendere palpabile, la percezione di ciò che è ‘al di là’.