La Rosa Bianca: la memoria e l’impegno

Con questo breve intervento non intendo ricostruire la storia di un piccolo movimento di resistenza al nazismo, finito tragicamente nella primavera del 1943. Piuttosto vorrei portare alla luce alcune delle provocazioni che questi ragazzi, giustiziati quando erano poco più che ventenni, ci lasciano ancora, nella convinzione che, al di là del diverso clima politico, vadano recuperati gli elementi di perennità della loro vicenda.

La Rosa Bianca nella resistenza tedesca

La resistenza tedesca si configurò come un moto diverso da quello che si è sviluppato in altri Paesi europei. Innanzitutto essa fu, come l’ha definita Hans Mommsen, una «resistenza senza popolo», una resistenza di piccoli gruppi, non sempre uniti anche se non isolati come si potrebbe pensare ad uno sguardo frettoloso. La caratteristica di questa resistenza, che rimase per forza di cose incapace di fermare la macchina del nazismo, fu quella di non rappresentare agli occhi di tutti una lotta per il ristabilimento del diritto, della giustizia e della libertà, ma di essere prima di tutto percepita come distruzione dell’ordine costituito, come tradimento della patria. Questa fu almeno la lettura che il regime volle darne attraverso una articolata e precisa propaganda. La cocente sconfitta della prima guerra mondiale, il peso del Trattato di Versailles, la gravissima crisi economica, avevano creato una situazione che condusse ben presto al fallimento della fragile Repubblica di Weimar, ingenerando sfiducia nell’efficacia storica delle istituzioni democratiche. Il nazismo aveva portato al rovesciamento radicale della concezione stessa dello Stato, sostituendo ad uno Stato fondato sulla sovranità popolare uno Stato nel quale si esaltava la funzione salvifica del Capo unico e infallibile. Un progetto politico e culturale affascinante, almeno nei toni in cui era stato proposto, che – puntando sulla rinascita della Germania, sul riscatto dalle umiliazioni di Versailles, sull’opposizione al pericolo rappresentato dal bolscevismo – aveva permesso a Hitler di conquistare il consenso politico della massa e, almeno in parte, le simpatie delle Chiese.

Ben pochi allora, in quel lungo 1933, quando i componenti della Rosa Bianca non erano che ragazzini, vedevano i pericoli di quanto stava accadendo: uomini di cultura, filosofi, giuristi ed anche esponenti delle varie confessioni cristiane salutarono il Führer come il salvatore della patria. Ma ben presto cominciarono gli assassinii degli oppositori, si aprirono i primi campi di concentramento (Dachau), si introdussero quelle norme che avrebbero condotto alla soluzione finale degli ebrei (a cominciare dal famigerato paragrafo ariano). Il nazionalsocialismo si configurava come un potere totale, preoccupato di costruire non solo strutture politico-amministrative, ma soprattutto una cultura neopagana fondata sul mito della razza, sulla divinizzazione dello Stato, sulla sostituzione del cristianesimo con l’ideologia nazista, sul progetto messianico di costituzione del Reich Millenario.

Ciò che oggi non può passare inosservato è rappresentato dalla rapidità con la quale il regime arrivò al potere e condusse il mondo alla guerra: dopo soli cinque anni si assistè all’Anschluß dell’Austria e alla crisi cecoslovacca. L’anno dopo scoppiò la seconda guerra mondiale. Nei dodici anni di regime «la persona del dittatore si era presentata come l’unico punto di riferimento del bisogno di identità nazionale» (Mommsen).

Non mancarono azioni anche di aperta resistenza, soprattutto all’inizio del regime, da parte del partito comunista o di quello socialdemocratico; ma, soffocate spesso nel sangue, costrinsero all’anonimato e non ottennero i risultati sperati. Più tardi sarà soprattutto negli ambiti militari e nell’élite altoborghese o nobiliare che si formeranno altri gruppi di resistenza, tesi soprattutto all’eliminazione del Führer, teorizzando anche il tirannicidio (ma non scartando l’emarginazione politica, la dichiarazione di incapacità di intendere e volere, l’arresto). A questa forma di resistenza non furono estranee personalità legate alla piccola Chiesa Confessante, che apertamente aveva scelto l’opposizione al regime, a partire dall’inconciliabilità fra il neopaganesimo nazista e il messaggio cristiano. Fu da questi gruppi, che ebbero collegamenti anche con i rappresentanti dei lavoratori e con i sindacati clandestini, che venne organizzato il colpo di Stato del 20 luglio 1944, dal quale Hitler era uscito illeso e che costò poi la vita a migliaia di persone perché accusate di complicità.

In questo quadro si inserisce la storia della Rosa Bianca, un mirabile movimento di giovani che fra il giugno 1942 e il febbraio 1943 stamparono e diffusero sei volantini contro il regime, incitando alla ribellione morale e alla rivolta politica. I fratelli Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf – e con loro il professore di filosofia Kurt Huber ed altri amici – non provenivano tutti dagli stessi ambienti culturali e religiosi. Ma nella culla del nazismo, a Monaco, si incontrarono e, convinti dell’inaccettabilità del regime, diedero vita a questo piccolo gruppo di resistenza. Le esperienze di guerra, prima sul fronte occidentale e poi sul fronte russo, proprio nel periodo più drammatico, nell’anno della svolta della guerra, avevano segnato questi ragazzi che pagarono con la vita, nel corso del 1943, le loro convinzioni.

Una storia anomala, per certi aspetti, la loro, giudicata a volte duramente da alcuni storici che vollero leggervi i tratti dell’entusiasmo giovanile, bello ma inefficace. Una storia che finisce male, con il fallimento e la ghigliottina: ma gli altri movimenti, meglio organizzati, ebbero forse sorte migliore? Una storia contrassegnata dalla convinzione dell’inaccettabilità del regime e dall’appello all’azione e al collegamento con gli altri gruppi che stavano organizzando il colpo di Stato del 20 luglio.

La riaffermazione della libertà negata dal regime (Es lebe die Freiheit, viva la libertà, furono le ultime parole di Hans che risuonarono nella prigione di Monaco Stadelheim prima che la sua testa cadesse) e dello Stato di diritto li avevano condotti fino al gesto più rischioso. E vennero così catturati, dal bidello Schmid, nell’Università di Monaco il 18 febbraio 1943.

La percezione del male

Vorrei ora individuare alcune “sollecitazioni”, che mi sembrano particolarmente attuali del pensiero dei protagonisti della Rosa Bianca.

La libertà cui aspiravano i ragazzi della Rosa Bianca, quella libertà che è l’ultimo grido di Hans Scholl, era prima di tutto percepita come qualcosa cui aspirare incessantemente, come la chiave stessa di ogni azione politica, la meta verso la quale spingere la prassi. È proprio la negazione della libertà che acuisce la percezione dello sprofondamento del popolo tedesco nel male, su cui tanto insistono i volantini della Rosa Bianca.

Il tema del male non va sottovalutato, perché viene affrontato in modi diversi negli scritti e permette in tal modo di cogliere lo sviluppo delle riflessioni dei giovani di Monaco.

È soprattutto nel quarto volantino, il più teologico di tutti, che emerge la prima dimensione del male. Vi si legge:

«È ben vero che si deve portare avanti con metodi razionali la lotta contro lo Stato terroristico; ma chi oggi dubita ancora sulla reale esistenza di forze demoniache, non ha ancora capito lo sfondo metafisico di questa guerra. Dietro al concreto, che è afferrabile con i sensi, dietro ogni riflessione obiettiva e logica sta l’irrazionale, sta cioè la lotta contro il demonio, contro il messaggero dell’Anticristo».

 

Il male dunque non proviene semplicemente dalle scelte dell’uomo, ma da una presenza demoniaca nella storia. Questo non rende inutile la battaglia, ma la rende certamente più difficile, proprio perché di fronte all’Anticristo non esiste la possibilità di salvarsi o di averne ragione semplicemente sul piano delle scelte di carattere etico. Di fronte al potere totalitario i giovani della Rosa Bianca ritengono che la posta in gioco sia, insomma, enormemente più alta della semplice valutazione di carattere politico.

Anche altri avevano letto la situazione del regime tedesco in modo analogo. Il contadino austriaco Franz Jägerstätter, giustiziato il 9 aprile del 1943 nel carcere di Berlino Tegel per aver rifiutato l’arruolamento, scrive nel suo testamento:

«Perché pensiamo così poco all’eternità? Perché ci costa tanto accettare dei sacrifici quando si tratta del cielo? Proprio perché esiste una potenza invisibile, almeno per il momento, ma di cui talvolta avvertiamo la presenza, che fa di tutto per trascinarci sulla via della perdizione: è la potenza dell’inferno. […] A noi non resta che questa alternativa: o progredire sempre nel bene, oppure affondare sempre più nel male; impossibile rimanere stazionari a lungo».

Dopo il IV volantino c’è, però, l’esperienza della Russia. L’ospedale da campo, le brutalità continue di una guerra che sentivano ormai perduta, la sofferenza letta nei volti delle giovani donne costrette a lavorare duramente nella posa dei binari in una stazione, sono fattori che li avvicinarono ad una visione più politica del problema.

Le parole che scrisse un altro martire della resistenza tedesca, padre Alfred Delp, ci possono aiutare a comprendere meglio i sentimenti che devono aver provato quei giovani studenti:

«Il male è così efficace nella storia perché è così inefficace il bene, perché il bene scambia la tradizione per sonnolenza conservatrice e abitudine; perché banalizza il rigore etico in perbenismo borghese e indifferenza; perché colloca la prova della vita così spesso non nell’ambito della vita, ma accanto».

Il male, tuttavia, non si presenta apertamente nella sua vera natura, ma rimane mascherato nella menzogna, e per questo è più difficile da riconoscere. Il riconoscimento di questo male nascosto sotto le spoglie della luce diventa l’essenza stessa della resistenza politica.

Nel IV volantino i ragazzi della Rosa Bianca scrivono:

«Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler è una menzogna. Quando egli parla di pace pensa alla guerra, quando egli in modo blasfemo pronuncia il nome dell’Onnipotente, si riferisce invece alla potenza del male, agli angeli caduti, a Satana. La sua bocca è come l’ingresso fetido dell’inferno e il suo potere è corrotto nel più profondo».

Nello stesso periodo il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer lasciava, come dono per il Natale 1942, queste parole per gli amici più cari:

«La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante; ma per il cristiano, che vive della Bibbia, è appunto la conferma della abissale malvagità del male».

La caratteristica del male, dunque, sia se lo consideriamo nella sua componente religiosa, sia se ne cogliamo la componente politica, sta nella menzogna. E la menzogna non solo era diventata allora la caratteristica principale del regime («È incredibile fino a che punto si debba ingannare un popolo per poterlo governare», aveva scritto Hitler), ma era penetrata nel tessuto stesso delle relazioni fra gli uomini, avvelenando i rapporti e costringendo addirittura a rivedere il concetto più normale, diremmo noi, di verità, intesa come conformità fra le parole e la realtà. La verità stessa poteva essere asservita al regime e dunque non esisteva solo una dimensione demoniaca della menzogna, ma addirittura una verità demoniaca.

Su questo ci si potrebbe fermare a lungo, anche solo per leggere le definizioni usate in relazione alla cosiddetta “soluzione finale”, che già nel 1942 i giovani della Rosa Bianca avevano denunciato, pur non sospettando quali fossero le dimensioni del genocidio. Era menzogna la frase che ancora campeggia all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz: Arbeit macht frei; era menzogna il linguaggio tragicamente asettico che nascondeva lo sterminio degli ebrei: «Soluzione finale; trasporto di materiale ebraico; materiale per il trasferimento degli ebrei [per indicare il gas Zyklon B]; da trattarsi secondo le direttive per l’applicazione del trattamento speciale [i dispacci di Eichmann che accompagnavano i treni della deportazione]».

A questo punto diventa più chiaro come il richiamo alla libertà assumesse una connotazione pericolosissima per il regime: la libertà scardinava un sistema basato sulla menzogna, nel quale la conoscenza stessa della verità rappresentava una colpa.

Il totalitarismo che viene dal basso

Quando il male si concretizza in un sistema politico, attraverso la menzogna tende al dominio e alla realizzazione dei propri scopi; occorre, però, fare attenzione a non semplificare il problema, scorgendo la causa del male solo nel potere esercitato dal tiranno. È ben vero che nella situazione di allora il Führer rappresentava il criterio ultimo dello Stato nazista, ma si commetterebbe un errore se si trascurasse di vedere il totalitarismo anche come richiesta che viene dal basso, come aspirazione della massa.

Lo aveva messo in luce già nel 1933, in una conferenza radiofonica prontamente interrotta, Dietrich Benhoeffer che allora affermava:

«Si può dire in effetti che abbia luogo uno straordinario trasferimento di diritti. Il singolo sa di essere legato ad un’ubbidienza incondizionata al capo. Egli si annulla realmente, è strumento in mano al capo, non è lui responsabile, ma il capo; nella sua fede, al capo egli affida la responsabilità ultima […] Il singolo rinuncia a favore del capo. Il capo è individualità, personalità, come non è permesso a nessun altro. Il rapporto di colui che è guidato a colui che guida è dato dal trasferimento a quest’ultimo del proprio diritto. È questa una forma di collettivismo, che si capovolge in un individualismo potenziato. Perciò non viene soddisfatto il vero concetto di comunità, che si fonda sulla responsabilità, sul reciproco essere responsabili. […] Il capo sta a una distanza inaudita da chi lo segue ma – e questo è appunto decisivo – è capo solo in quanto eletto dai seguaci, in quanto uscito da loro; egli riceve autorità solo da loro, dal basso, dal popolo.»

Il totalitarismo dal basso si trasforma dunque nella delega di responsabilità, o meglio nel rifiuto di porsi qualsiasi problema in merito alle conseguenze negative delle proprie azioni. La delega poggia, in ultima istanza, nel rifiuto di far parte della comunità umana e nella assolutizzazione del proprio individuale vantaggio. Diversamente è difficile spiegare la rete spontanea di spie che contraddistingueva la Germania di allora. Per i giovani della Rosa Bianca questa situazione era diventata immediatamente chiara; ai loro occhi questa costruzione dal basso del potere nazista era assolutamente colpevole e la passiva accettazione si trasformava in corresponsabilità. Si legge nel secondo volantino:

«Perché il popolo tedesco si mantiene così inerte di fronte a dei crimini tanto orrendi ed indegni di esseri umani? […] Il fatto viene accettato come tale, e passato agli atti. […] I tedeschi […] devono sentirsi corresponsabili. È infatti soltanto a causa del loro comportamento apatico che uomini malvagi hanno la possibilità di agire così; essi sopportano questo governo che si è macchiato di una colpa infinitamente grande; non solo essi sono anche colpevoli del fatto che un tale governo si è potuto installare! Ognuno vuol liberarsi da questa complicità, ciascuno cerca di farlo ma poi ricade nel sonno con la più grande tranquillità di coscienza. Ma egli non può scagionarsi: ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!»

Ciò che rendeva drammatico questo trasferimento di responsabilità non era solo l’accecamento nei confronti dei crimini del regime, ma soprattutto il diffondersi di una cultura che rendeva possibile ogni brutalità. La responsabilità dei crimini più efferati non può essere, ci dicono i ragazzi di Monaco, scaricata unicamente sul potere politico. Proprio la mediocrità in cui cade la massa, il sonno che la caratterizza, l’incapacità di rinunciare al proprio benessere, l’incapacità d’inquietarsi, forniscono il terreno migliore per i poteri che opprimono l’uomo. Nel 1938 Bernanos, che Hans, Sophie e Willi tanto amavano, scriveva queste righe che, forse, quei giovani avevano letto:

«Commettete un gravissimo errore a credere che la bestialità sia inoffensiva, per lo meno che esistano forme inoffensive di bestialità. […] Eppure ognuno di voi sa di che cosa sia capace l’odio paziente e vigile dei mediocri, e proprio voi ne spargete la semenza ai quattro venti! Infatti sono questi disgraziati che forniscono alle democrazie le pubbliche opinioni.»

L’uomo incapace di responsabilità, incapace dunque di relazione con gli altri (e con Dio!), diventa così lo strumento perfetto per l’oppressione degli altri uomini.

Nasce da questa consapevolezza l’appello ad individuare i piccoli vessatori, a non dimenticare, a guerra finita, le responsabilità dei milioni di uomini che attraverso la coscienziosa ubbidienza furono complici dei delitti del regime. Si legge nel quarto volantino:

«Per Hitler e i suoi sostenitori non vi è sulla terra una punizione adeguata alle loro azioni. Comunque, per amore delle future generazioni si deve dare alla fine del conflitto un esempio tale che nessuno abbia più la minima voglia di ritentare una simile avventura. Non dimenticate neppure i colpevoli meno importanti di questo sistema, ricordate i loro nomi, perché nessuno sfugga! Non devono riuscire, dopo una tale atrocità, a cambiare bandiera all’ultimo minuto e a fare come se nulla fosse accaduto».

La dinamica di questo esercizio del potere era ben chiara nei campi di concentramento, dove alla violenza subita dall’alto corrispondeva, in maniera quasi automatica, la violenza inferta. Ma ciò che non deve sfuggire, nelle parole stampate di notte con un vecchio ciclostile, sfiniti per la tensione nervosa, è l’appello a non dimenticare: se in una visione globale della storia i grandi responsabili, pur apparentemente sfuggendo al giudizio degli uomini, alla fine cadono, coloro che operano concretamente le piccole violenze per lo piú sopravvivono.

Non è questo un tema diffuso. In una pagina del romanzo, rimasto frammento, abbozzato in carcere da Bonhoeffer, leggiamo:

«I piccoli vessatori vivono nel favore del dominatore di turno e ne godono, e in questo modo sfuggono ad ogni giudizio terreno. Sono questi violenti in piccolo che mandano in rovina il popolo; operando dall’interno, sono come gli invisibili germi patogeni della consunzione, che, pur rimanendo nascosti, condannano alla rovina una giovane, fiorente vita. Non sono solo più pericolosi dei violenti in grande, ma anche più robusti, più tenaci, più difficili da colpire. Sfuggono fra le dita, quando li si vuol afferrare, perché sono sguscianti e vili. E inoltre sono come un’infezione contagiosa. Se uno di questi violenti in piccolo ha succhiato alla sua vittima la forza vitale, contemporaneamente l’ha contagiata con il proprio spirito; colui che fino a quel momento era stato solo vittima della violenza, appena ha in mano un minimo di potere si vendica per quello che ha subito. Ma tale vendetta – questo è il più terribile – non si compie sul colpevole, ma a sua volta si ritorce su vittime incolpevoli e indifese, e così all’infinito, finché tutto è contagiato e avvelenato e non si può più frenare la dissoluzione. […] Tuttavia, ragazzi, non è permesso lasciarsi scoraggiare dall’apparente inutilità del combattimento».

Il totalitarismo che viene dal basso è, dunque, prima di tutto un fenomeno di carattere sociologico, si fonda proprio sulla stupidità creata dall’ostentazione di potenza. A tale istupidimento della massa non fu estraneo il mondo intellettuale con il suo abituale asservimento al potere.

È interessante notare come compaia in contesti diversi esattamente lo stesso concetto per esprimere questa situazione: i ragazzi di Monaco parlano di sonno ottuso e stupido, Bonhoeffer scrive una magistrale pagina sulla stupidità intesa come il nemico più pericoloso del bene, Bernanos dedica lunghe pagine agli imbecilli, Benson si preoccupa di decrivere gli affascinanti stratagemmi delle liturgie del potere per catturare l’attenzione degli stupidi.

Ma tale totalitarismo dal basso rappresenta anche un problema legato allo svuotamento spirituale, poiché nasce anche dentro nell’uomo, come ci ricorda R. Guardini («c’è un totalitarismo che viene dall’alto ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro».). È questo, che ha in comune con il primo la rinuncia alla responsabilità, che si annida come minaccia in tutte le democrazie: se il totalitarismo dal basso degli anni Trenta, che oggi sentiamo così lontano, si fondava sulla coercizione diretta degli uomini, il totalitarismo dal di dentro si presta più elasticamente ad essere espressione della coercizione indiretta e sofisticata della cultura tecnologica. Ambedue sono legati, però, alla distruzione della libertà fondata sulla responsabilità. Scrive Guardini:

«L’uomo finisce per perdere la fede nella sua aspirazione alla libertà, perde la forza di affermare questa aspirazione sotto la pressione dell’istinto, dell’utilità e del potere e allora egli è, dal di dentro, maturo per la dittatura».

L’eredità da non disperdere

A distanza di cinquant’anni dalla fine della guerra, ma con la guerra di nuovo sull’uscio di casa, non ci si può limitare a ricordare: occorre domandarsi come è potuto accadere, se si vuol capire il messaggio che ci affidano coloro che hanno trovato la lucidità e il coraggio di resistere. Tutto ciò non è senza problemi, perché è sempre in agguato la tentazione di fermarsi a celebrare invece di mettere in atto quelle azioni preventive necessarie per fermare le nuove forme della barbarie.

Per concludere vorrei, dunque, sottolineare solo qualche aspetto della lezione che ci viene dalla vicenda della Rosa Bianca.

La resistenza costa. C’è una considerazione banale e tuttavia molto importante: la resistenza costa. Costa la fatica del riconoscimento del male e quindi costa la rinuncia alla seduzione del potere (Führer e Verführer). Riconoscere significa innanzitutto essere vigilanti, per distignuere subito i segni: politicamente il peso di questa parola è straordinario: non si dimentichi che il regime di Hitler durò un tempo brevissimo (12 anni), e che furono sufficienti meno di 6 anni (l’Anschluß è del 1938) per portare il mondo alla guerra. Troppe volte noi non vogliamo riconoscere, perché questo ci toglie tranquillità o perché siamo sprovveduti; ma l’ingenuità non è una virtù politica (la semplicità sì), e occorre imparare la fatica del discernimento. Non a caso, nei regimi, chi sa è già colpevole. La menzogna stessa dei regimi – «più grande è la menzogna, più sarà creduta», era solito dire Hitler – non si supera che con la vigilanza.

Elie Wiesel molto opportunamente, nelle prime pagine del suo libro La notte, ci ricorda che la gente si rifiutava di credere alla terribile tragedia che si andava preparando per il popolo ebraico. È veramente accaduto e noi non possiamo dimenticare questo insegnamento. Ricorda Wiesel: «Moshé lo Shammàsh raccontò la sua storia e quella dei suoi compagni. […] La gente non solo si rifiutava di credere alle sue storie, ma anche di ascoltarle. “Poveretto, è diventato matto …” e lui piangeva. “Ebrei, ascoltatemi. È tutto ciò che vi chiedo. Non soldi, non pietà, ma che voi mi ascoltiate – gridava nella sinagoga fra la preghiera del crepuscolo e quella della sera. Anch’io non gli credevo. […] – Tu non capisci – disse un giorno con disperazione – tu non puoi capire. Sono salvo per miracolo, sono riuscito a tornare fin qui. Da dove ho preso questa forza? Ho voluto tornare a Sighet per raccontarvi la mia morte, perché possiate prepararvi finché c’è ancora tempo».

Per dirlo con le parole di Dossetti, occorre essere vigilanti per riconoscere ogni inizio, anche quando è incredibile. Qui ancora una volta ci viene in aiuto Wiesel, che ricorda come il regime aveva sviluppato la sua politica antiebraica a poco a poco, gradualmente, riprendendo fiato dopo ogni misura, dopo ogni mossa, per vedere le reazioni. «Ci fu sempre una tregua fra una tappa e l’altra, fra le leggi di Norimberga e la “notte dei cristalli”, fra le espropriazioni e le deportazioni, fra i ghetti e la liquidazione di massa. Dopo ogni infamia i tedeschi si aspettavano un’appassionata reazione da parte del mondo libero; si resero ben presto conto dell’errore: li lasciavano fare» (L’ebreo errante).

Non è tanto il giudizio sui tedeschi che ci deve far riflettere, quanto la frase: «li lasciavano fare». Quante volte lasciamo fare i piccoli passi che conducono alla distruzione dell’uomo?

Costa poi anche la rinuncia alla protezione del potere. È difficile, in fondo, metter in atto, per amore della giustizia, azioni contro lo Stato anche quando esso venga meno al suo compito di essere garante della giustizia per i più deboli. In fondo adeguarsi allo status quo porta con sé anche dei vantaggi: se non altro quello di mantenere, indisturbati, agi e tranquillità, rispetto ai rischi tremendi cui si va incontro con la resistenza. Per i ragazzi della Rosa Bianca la lotta contro un sistema ingiusto era, però, assolutamente necessaria e fondamentale:

«Se lo sapete perché non reagite, perché tollerate che questi tiranni vi spoglino progressivamente, in modo aperto o velato, di un diritto dopo l’altro, fino a quando un giorno non rimarrà più nulla, null’altro che una macchina statale comandata da criminali e ubriaconi? È già così vinto dalla violenza il vostro spirito da farvi dimenticare che non è soltanto vostro diritto, ma anche vostro dovere morale rovesciare questo sistema?»

Parole che sembrano riecheggiare quelle di Teresio Olivelli, che altrettanto ardentemente caricava di un significato morale, ancor prima che politico, la ribellione contro le forme dello Stato totalitario.

«Siamo dei ribelli: la nostra è innanzitutto una rivolta morale. Contro il putridume in cui è immersa l’Italia svirilizzata, asservita, sgovernata, depredata, straziata, prostituita nei suoi valori e nei suoi uomini. Contro lo Stato che assorbe e ingoia, scoronando la persona di ogni libertà di pensiero e di iniziativa e prostrando l’etica a etichetta, la morale a prono rito di ossequio. […] Contro la massa pecorile pronta a tutti servire, a baciare le mani che la percuotono, contenta e grata se le è lasciato di mendicare nell’abominio e nella miseria una fievole vita. Contro una cultura fradicia fatta di pietismo ortodosso e di sterili rimuginamenti, di sofisticati adattamenti, incapace di un gesto virile. Contro gli ideali d’accatto, il banderuolismo astuto, l’inerzia infingarda, l’irresolutezza codarda, l’affarismo approfittatore ed equivoco, la verità d’altoparlante, la coreografia dei fatti meschini. Ne siamo nauseati. […] Chi non rispetta in sé e negli altri l’uomo, ha l’anima di schiavo. […] Mai ci sentimmo così liberi come quando ritrovammo nel fondo della nostra  coscienza la capacità di ribellarci alla passiva accettazione del fatto brutale, di insorgere contro il bovino aggiogamento allo straniero, di risorgere a una vita di intensa e rischiosa moralità».

Si commetterebbe un errore a sottovalutare il peso che ebbe il dramma della responsabilità nella resistenza tedesca. Assumersi la responsabilità non significava soltanto farsi carico dell’altro, ma accettare il caso-limite, la distruzione dell’ordine stabilito e l’eliminazione fisica del tiranno (era chiaro agli occhi dei gruppi della resistenza che l’esercito avrebbe giocato un ruolo fondamentale). Questa disubbidienza assume, da un lato, il valore dell’inquietante appello, della critica radicale; dall’altro, porta con sé la dimensione della colpa. L’uomo responsabile non vive nella difesa della propria purezza, della propria libertà, delle proprie convinzioni, ma accetta l’immersione nella storia, di cui riconosce l’ambiguità e la drammaticità. È qui fondamentale richiamare il discorso del professor Huber, che conclude la sua difesa con queste parole:

«Come cittadino tedesco, come professore tedesco, e come persona politica ritengo non solo un diritto, ma un dovere morale collaborare alla configurazione politica del destino tedesco, denunciare e combattere i guasti palesi. […] Rischio la vita per questo ammonimento, per avervi scongiurato di tornare indietro. Chiedo che sia restituita la libertà al nostro popolo. Non vogliamo trascinare in catene, come schiavi, la nostra breve esistenza, neanche se fossero le catene d’oro di un benessere materiale».

La resistenza costa l’accettazione della sofferenza

Franz Jägerstätter nel suo testamento scrive: «Forse molti cattolici pensano di essere tenuti a sopportare il martirio e a morire per la loro fede solo il giorno in cui si pretenderà da essi una dichiarazione pubblica. Io sono invece del parere che chiunque sceglie di soffrire e di morire piuttosto che offendere Dio con il più piccolo peccato veniale, è già un martire che si sacrifica per la propria fede». Teresio Olivelli ritrova anch’egli nella sofferenza il senso dell’azione, lasciando trasparire addirittura una dimensione storica della sofferenza. La sofferenza non riguarda solo il singolo, ma in qualche modo è l’elemento dell’azione redentiva di Dio sul mondo. «L’aratro è pungente – scrive – ma solo dove la ferita è profonda e sovvertitrice la messe è sicura. Nel dolore Dio espia e crea. Come nel caos primitivo, nello sconvolgimento delle istituzioni e dei cuori soffia lo Spirito. Ed intride la resistenza delle anime, lievita, agonizza, libera ed esalta.».

Per un’epoca nella quale la politica-spettacolo fa sforzi sovrumani per rassicurare, togliere la fatica di pensare, per nascondere la morte e la sofferenza, questo è un messaggio dirompente. A fronte della società dei due terzi la prospettiva della centralità della sofferenza è una sfida aperta ma inevitabile. Addirittura ci si potrebbe domandare se in fondo non potrebbe essere questo il banco di prova che ci attende e che continuiamo a spostare in avanti: «Non potremmo quasi essere felici – si domanda Willi Graf – di doverci caricare in questo mondo di una croce che talvolta supera la misura umana? In un certo senso questa è una letterale sequela di Cristo».

L’assunzione piena della sofferenza non è solo conseguenza della sequela, ma addirittura criterio interpretativo per giudicare tutta la storia e per operare in essa. Nelle pagine che abbiamo già incontrato, scritte da Bonhoeffer per il Natale 1942, troviamo queste parole:

«Resta un’esperienza di incomparabile valore l’aver imparato a vedere dal basso i grandi avvenimenti della storia del mondo, nella prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, dei deboli, degli oppressi e derisi, in breve dei sofferenti. È già tanto se in questo tempo l’amarezza o l’invidia non hanno divorato il cuore, ma anzi guardiamo con occhi nuovi la grandezza e la meschinità, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza, e la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile, e la sofferenza personale è una chiave più idonea, un principio più fecondo della felicità personale nell’accedere al mondo con la riflessione e la pratica. Tutto dipende solo dal non trasformare questa prospettiva dal basso in uno schierarsi con gli eterni scontenti, e invece nel far giustizia e nell’affermare la vita in tutte le sue dimensioni, sulla base di una contentezza maggiore i cui fondamenti non sono né in alto né in basso, ma al di là di queste dimensioni».

La storia della Rosa Bianca finisce tragicamente, con quelle sei condanne a morte (sette, se si comprende anche quella successiva), eseguite poco prima che la Germania e l’Europa potessero vedere la fine della guerra. Chiedersi se la testimonianza eroica di quei sei giovani e del professor Huber costituisca un fatto politicamente significativo è come domandarsi se gli ideali per i quali essi misero in gioco la loro vita abbiano o non abbiano valore per la politica. Forse che lottare per lo Stato di diritto è un’illusione giovanile? Davvero il rifiuto dell’oppressione sarebbe solo un impeto di coscienze inquiete e disadattate?

Chi non capisse il senso perenne e innovativo delle posizioni assunte dalla Rosa Bianca, si dimostrerebbe più miope del nazismo che, considerando «uomini non politici» i ragazzi della Rosa Bianca, in realtà sottolineava proprio la dirompente pericolosità politica del loro messaggio. Il rischio è quello di non capire

Trascrizione rivista dall’Autore.