La siccità al tempo di Tebe

Tempo di caldo, afa, siccità diffusa: il male di stagione appare ora appesantito dalla somma di combinazioni meteorologiche e di insipienza umana, di colpevoli sprechi e insensibilità ecologica.
Anche la poesia che racconta i miti greci si occupa spesso di paesaggi caldi e di lande assolate, nella quali si ricercano l’ombra e il fresco: ma è raro trovare la descrizione di climi che possano definirsi torridi o di periodi stagionali completamente siccitosi. La patologia climatica resta come eccezione in un mondo che lamenta sì il forte caldo, ma senza arrivare di norma all’ esasperazione delle situazioni.
Una di queste eccezioni climatiche è rappresentata da una lunga sequenza all’ interno di un poema epico, che è latino di lingua ma greco di ambiente, cioè la Tebaide di Stazio. Dei dodici libri che la compongono, e che trattano della guerra di sette eroi di Argo contro la città di Tebe, uno è dedicato alla marcia di avvicinamento alla città, attraverso il modesto altipiano della zona di Nemea, nel Peloponneso settentrionale. Il cammino viene percorso dai sette guerrieri guidati dal re Adrasto, col seguito dei loro eserciti: è una massa di uomini in marcia verso nord, che vuole arrivare all’ istmo di Corinto e da lì passare nella Grecia centrale, con obiettivo Tebe.
Ma l’ intervento di una divinità, in questo caso Bacco, rallenta la loro avanzata: perché i sette non devono arrivare troppo in fretta alla meta, dove gli avversari non sono ancora pronti alla lotta. Ecco dunque che il dio del vino e dell’ebbrezza, protettore di Tebe, sollecita le divinità dei fiumi e delle sorgenti a bloccare i corsi d’acqua e a provocare quindi un’ondata di siccità nella zona, per ostacolare la marcia degli attaccanti. Insieme, la collaborazione del Sole e l’aumento della canicola rafforzeranno i mali provocati dalla mancanza d’acqua. Bacco sa bene che in queste condizioni nessuno è più in grado di muoversi adeguatamente, e quindi le operazioni belliche sono bloccate, almeno momentaneamente.
A questo punto Stazio dedica una lunga sezione del canto a descrivere gli effetti del caldo e della siccità nella zona di Nemea. Subito una sete infuocata attanaglia i campi, l’acqua sparisce dai terreni, le fonti e i fiumi risultano disseccati. I letti dei corsi d’acqua diventano duri e bollenti e le colture, quasi pronte per il raccolto, non ricevono più la linfa vitale: le messi si piegano sugli steli appena spuntati e la terra attende disperatamente la pioggia, come accade in Egitto quando il Nilo si ritira dai campi dopo averli inondati. Anche fiumi dal corso solitamente torrentizio risultano ora inariditi: l’Inaco era imponente con i suoi gorghi ma ora non vi scorre più niente, il Caradro una volta trascinava pietre e tronchi e adesso invece nulla si muove, l’Erasino erodeva gli argini mentre ora è completamente asciutto. I soldati di Argo, stretti nelle corazze, non riescono più a sopportare l’armatura né a reggere gli scudi: la sete li tormenta, il sole li brucia e scrutano inutilmente il cielo, nella speranza di una pioggia che non può scendere. Non pensano più alla lotta, e la marcia di avvicinamento ha ormai perso d’interesse: da parecchi giorni ciò che li muove è solo la ricerca di acqua.
Ma gli dei che hanno voluto il male degli uomini hanno però in serbo anche la fine delle sofferenze: e agli stremati guerrieri appare la bella principessa Ipsìpile, che conosce una sorgente non toccata dalla siccità e dove ancora sgorga dell’acqua abbondante. E’ la fonte detta di Langia, verso la quale l’esercito stremato si affretta, sotto la guida di Ipsìpile. Dalla sorgente scende un fiume imponente di acque limpide, nelle quali l’armata assetata si riversa, incurante della gerarchia, dell’ ordine, dei possibili nemici. "Acqua, acqua…" è il solo grido che si ode; e tutti bevono avidamente, urtandosi e calpestandosi reciprocamente, ma placando insieme il bisogno naturale.
L’evento che ha portato alla loro salvezza ha del miracoloso, ma sotto il segno del numinoso era stato innanzitutto il dramma della siccità per l’ intera regione. Così il mito antico spiegava i fenomeni naturali e meteorologici, senza immaginare una forma di responsabilità umana, se non indiretta e legata a comportamenti in altri momenti della vita.

Giornale di Brescia, 15.7.2003.