Matteo Perrini, la stella della scuola sul latifondo

Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, 2009 (16), pp.365-372

Matteo Perrini è figura felicemente atipica nella storia bresciana di età contemporanea. Nato a Laterza, in Puglia, nel 1925, ha saputo innovare già nel modo di radicarsi nell’esperienza novecentesca di un cattolicesimo d’opere e politico, vigoroso, a volte ruvido, che si vuole conquérant, non privo di picchi autoreferenziali, eppure pensoso, aperto agli apporti esterni e plurale. Un cattolicesimo innervato di sensibilità intellettuali, umori e timbri polifonici. Una coralità che non ha rifuggito il contrappunto, anche culturale oltre che politico: come quello tra “intransigenti” e “liberali” nell’età post-unitaria e, nel tempo più recente, tra “neointransigenti” e “democratici” (per ricorrere solo ad alcune delle categorie storiche in uso nel secolo scorso).

In questo microcosmo privilegiato Perrini, quinto di nove figli di una famiglia di agricoltori, giunge a Brescia nell’aprile del 1948 su sollecitazione di Vittorino Chizzolini, prima ancora di conseguire la laurea in Filosofia teoretica (1950) presso l’Università di Bari. A Brescia compie per intero il proprio percorso esistenziale e professionale, lungo un arco di quasi sessant’anni, la gran parte trascorsa come docente di storia e filosofia nei licei. Lascia la scuola nel settembre 1988, per motivi di salute. L’impegno anche nella vita politica della città non va mai a discapito dello studio e dell’approfondimento culturale e della “responsabilità verso i giovani”, in particolare i suoi studenti. Collabora con riviste («Humanitas», «Pedagogia e Vita», «Studium», «Nuova secondaria», «Città e Dintorni») e quotidiani («L’Osservatore Romano» e «Il Giornale di Brescia»). Alla formazione delle giovani generazioni sono finalizzate la gran parte delle sue pubblicazioni, nate dalla frequentazione dei suoi autori favoriti: Agostino, Bergson, Thomas More, Erasmo da Rotterdam, Seneca, l’ignoto autore dell’ A Diogneto, che trovano nel volume Filosofia e coscienza (Morcelliana, Brescia 2008), che Perrini non farà in tempo a vedere stampato, il punto d’approdo della sua riflessione e testimonianza come educatore.

La stagione più nota dell’impegno di Perrini in campo culturale ed educativo è quella che va dal 1976 alla morte, avvenuta nel febbraio del 2007. Un trentennio legato all’attività, a Brescia e in provincia, della Cooperativa cattolico-democratica di cultura (CCDC), da Perrini pensata e voluta insieme a un gruppo di suoi giovani allievi, allora poco più che adolescenti. Non è questa la sede per ripercorrerne la storia, che pure merita di essere indagata e approfondita, trattandosi della prima realtà di questo tipo sorta in Italia. Basti qui accennare che l’iniziativa di Perrini si colloca in linea di derivazione diretta con lo spirito del concilio ecumenico Vaticano II: di riscoperta delle fonti del pensiero e della spiritualità del cristianesimo, del dialogo ecumenico, del confronto cordiale e senza complessi (di superiorità o d’inferiorità) con gli uomini del proprio tempo. Tutto ciò in un periodo della storia dell’Italia repubblicana, segnata da violenze, spaccature e intolleranze molteplici: politiche anzitutto, ma in radice pure sociali, culturali e religiose, che trovavano nel contesto geopolitico dei blocchi contrapposti Est-Ovest il principale scenario e il terreno di coltura inevitabile, pur senza tralasciare le dinamiche e le tensioni Nord-Sud del mondo.

A distanza di tempo appare più nitido l’impianto storico e, in questo senso anche metodologico, dell’intuizione perriniana. Ne dà conferma una notizia che lo stesso Perrini mi fornì nel corso di una conversazione avvenuta nel 1998 e che poi lui stesso mise per iscritto nel 2001, nel sobrio opuscolo edito per i 25 anni della CCDC[1], ma assente cinque anni prima dal fascicolo che faceva il punto sui primi vent’anni di vita della Cooperativa[2], segno di una consapevolezza acquisita in modo riflesso quasi in seconda battuta, ma vissuta con naturalezza fin dagli inizi, ma che ora in sede storica merita d’essere evidenziata e compresa. Mi riferisco al tangibile incoraggiamento che papa Paolo VI diede, una volta appreso dell’avvio della CCDC, all’iniziativa. Scrive Perrini, elencando le persone cui sentiva il dovere di pubblica testimonianza di gratitudine per il sostegno ricevuto nei difficili momenti degli inizi: «Nel novembre del ’76 avevo incrociato casualmente Lodovico Montini in Piazza Loggia. Gli consegnai il testo del primo volantino3. Egli lo lesse con viva partecipazione e mi disse: “Domani parto per Roma e lo consegno a Giambattista”. Il risultato fu del tutto inatteso: dopo alcuni mesi, tramite il vescovo di Brescia monsignor Luigi Morstabilini, Paolo VI mi fece pervenire come suo contributo personale la somma di lire cinque milioni, scusandosi di non poter fare di più per un’iniziativa tanto necessaria perché in quei giorni aveva dato ciò di cui poteva disporre ai terremotati della Turchia»[3].

Gli accenti caldi con cui Perrini esprime la propria gratitudine non debbono tuttavia fare velo a due tratti molto spiccati della sua personalità. Anzitutto la capacità, meglio la determinazione – maturata in quello che considerava il sacrario della coscienza, vero luogo della deliberazione che l’uomo (e il cristiano) fa di se stesso – di assumere in prima persona tutte le iniziative cui il proprio dettame interiore lo vincola. In prima persona, nel senso di non vincolare con le proprie scelte l’autorità della chiesa nell’ambito dell’opinabile; ma pure senza soggezioni di maniera quando a essere in gioco era la sua libertà responsabile di battezzato e di cittadino chiamato a compiere il discernimento evangelico di ciò che, come amava ripetere, spettava a Dio e a Cesare, senza commistioni devote. Perrini si è sempre assunto la responsabilità delle proprie scelte e non ha mancato di richiamare con schietta trasparenza e lealtà – una parrésia priva d’animosità, un’indignazione evangelica priva di furbizie, ma non sprovveduta – anche esponenti di primo piano delle gerarchie ecclesiastiche e vaticane o certi notabili cattolici ed esponenti delle Istituzioni o uomini politici a fare altrettanto. Stile certo poco adatto a crearsi “amicizie”, che se ha valso a Perrini l’affetto profondo e la stima di quanti l’hanno ritrovato maestro, la consonanza spirituale degli amici – senza aggettivi e sottintesi –, la considerazione di molti e il rispetto di tanti che pure nelle sue idee non hanno potuto ritrovarsi e talvolta le hanno avversate anche con virulenza, ma ne hanno riconosciuto la dirittura morale e l’onestà intellettuale, gli hanno procurato pure qualche ostracismo. Non a caso è stato fatto notare che avrebbe meritato un più ampio riconoscimento anche pubblico, proprio per la fedeltà a ciò che attiene allo specifico della fede cristiana nel suo porsi in dialogo con il pensiero e le istanze dei contemporanei[4].

Chiarito che il riferimento a Paolo VI non ha il significato da parte di Matteo Perrini di voler spendere un padre nobile che dispensi dall’assunzione di responsabilità, in sede storica non si può non rilevare la singolare sintonia tra l’intuizione educativa perriniana – che nasce da un’istanza di confronto con i suoi giovani studenti ma subito si dilata, e li coinvolge, in una iniziativa che vuole aprirsi alla città (il pensiero corre immediato alla figura di Socrate, così cara a Perrini) – e quello che è stato chiamato il disegno educativo montiniano, volto alla costruzione di una convivenza umana dove il religioso e lo spirituale si fanno custodi dell’umano. Questo aiuta pure a dare il giusto peso ad alcune letture troppo univocamente in chiave pessimista dell’ultima fase del pontificato di Paolo VI. All’anziano pontefice non è affatto sfuggita la novità rappresentata dal sorgere nella propria città natale di uno stile di presenza culturale che – in una stagione nella quale si imputava al concilio ciò che, per fare un solo esempio, forse lo stesso concilio aveva aiutato a contenere, ma che di fatto scatenava ripiegamenti soidisant integrali come quelli lefebvriani o che vedeva il deflagrare dei terrorismi – si faceva discernimento critico e processo di formazione alla civile convivenza tra gli uomini, nel solco di un afflato squisitamente evangelico, interrompendo quella che lo stesso Perrini ha definito «la troppo lunga latitanza dei cattolici in campo culturale». Il che avveniva proprio nelle condizioni storiche meno favorevoli, stante il «clima d’intolleranza dell’epoca». D’altra parte proprio in quel clima plumbeo – «subito», non tra un po’ – è necessario, per Perrini, fare riscoprire concretamente «la forza liberatrice del messaggio cristiano».

Direi che da questo punto di vista il contributo di Perrini e della Cooperativa, che è l’invenzione al servizio di tale intuizione, sta nell’aver aiutato gli stessi cattolici bresciani ad approfondire e comprendere la valenza spirituale e autenticamente evangelica della democrazia. Proprio nel momento in cui le istituzioni democratiche sono scosse dalla fosca e depistante geometria delle ideologie, l’ancoraggio della democrazia e della sua paradossale fragilità alla dinamica delle coscienze, sempre da formare e nel rispetto della loro libertà, è un richiamo alla stessa comunità credente a non scegliere mai le – presunte – scorciatoie degli scambi con il potente di turno, rispetto alla via, mai definitivamente percorsa né dominabile nei suoi esiti, del non avere paura e del non turbarsi ed essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza, con rispetto e con retta coscienza»[5]. Via che può essere lunga; ma Perrini invita a riflettere se tra le cause di tale non immediatezza di persuasione, tanta parte non dipenda dal fatto che forse la speranza manca e tanti che si vogliono maestri non trovano ascolto perché, secondo la felice espressione montiana, non sono anzitutto eco vissuta di ciò che affermano a voce.

Ciò detto, nella prospettiva di una più articolata storicizzazione della figura di Matteo Perrini, molto lavoro resta ancora da compiere, in particolare sul versante della sua formazione. Il testo che qui viene pubblicato è forse il primo scritto edito di Perrini, almeno per quanto emerge dal suo archivio. È un testo breve, ma che già evidenzia, oltre ai tratti della personalità di Perrini, alcuni dei temi cui si manterrà sempre sensibile. Anzitutto è significativo che esso abbia già un impianto educativo, solo a prima vista “tradizionale”.

Emerge poi l’ancoraggio al suo Mezzogiorno, humus imprescindibile fino a divenire la cifra dello pseudonimo – Levi Appulo – che Perrini adotta per siglare alcuni aforismi pubblicati nella rubrica settimanale (“Detti e contraddetti”), curata ininterrottamente su «Il Giornale di Brescia» a partire dal 1988.

Un Mezzogiorno non idealizzato, ma immediatamente storicizzato e ricondotto al sistema di lacci e laccioli sociali, di retaggio quasi feudale, con le micro suddivisioni del potere che, in una prospettiva altrettanto parcellizzata, permettono di assumere un simulacro «padronale» anche al più «misero» che riesca a inchiodare alla sua piccola casella uno ancor più miserrimo di lui: «gerarchia dell’oppressione», nota manzonianamente Perrini, che in questo rivela una tempra di “moralista”, che avrà un seguito, in particolare nei “Detti e contraddetti”. Uno sguardo affilato quello di Perrini, ma subito circonfuso di pietas, perfino per la «famiglia marchesale», per certi versi la più povera perché prigioniera della propria ottusità.

E tuttavia è già chiaro che – siamo nel 1945, ma sono parole che trovano eco ancor oggi – l’accesso alla cultura, pur nella forma elementare dell’alfabetizzazione, è visto come pericoloso fattore di destabilizzazione sociale, perché immette un nucleo di gioia e un embrione di coscienza di sé che fa sollevare lo sguardo. La “stella” evocata dal titolo è sì quella dei Magi, ma anche quella della conoscenza, di chi coi pastori comunisti discorre del Vangelo, quasi aggiornamento del presepe al tempo presente, come peraltro non disdegnava di fare più o meno in quegli anni il sacerdote cremonese Primo Mazzolari, non coi pastori ma con i contadini della Bassa, e con il quale Perrini ed altri richiamati a Brescia da Chizzolini non mancheranno di interloquire.

Infine il tema forse più caro a Perrini: l’impossibilità di ascoltare il Vangelo e restare come prima. La parola di Cristo non può essere udita dai cristiani e non diventare nucleo di gravitazione dell’intera coscienza. La vita non è altrove. Lo stesso vale per la parola degli uomini: le loro richieste non possono rotolare via come su una superficie levigata. Anch’esse sono seme per la coscienza. Di qui nasce anche la preghiera: «Insieme pregammo per l’affratellamento di tutti gli uomini nella divina eguaglianza del Vangelo», dove “divina” non è parola pia, ma impegno vincolante per chi il Vangelo ha ascoltato. E in tutto questo è presente il tepore del tratto perriniano: sui «fanciulli» si riversa sempre la vigile tenerezza e la «carezza» del maestro della scuola rurale posta alle dipendenze del fattore del “marchese”, alla cui famiglia nella messa della vigilia di Natale non riserva «saluti e auguri speciali», ma anzi la accomuna «alle famiglie che essa sfruttava».

Per comprendere quali fili concorrano a intessere la sensibilità di Matteo Perrini evidenziata da questo breve scritto, giova soffermarsi sulla figura di uno dei suoi maestri: Giovanni Modugno. Credo che questo permetta pure di introdursi a un tratto dialogico che avrà un seguito: la disponibilità di Perrini a porsi in ascolto di un interlocutore a prescindere dalla posizione ideale o politica in cui questo si pone, ma cercando piuttosto di riconoscere quanto di vero possa essere pronunciato dalle labbra più impensate. Non è un caso che a Modugno Perrini dedichi diversi interventi, fino a redigerne nel 1990 la voce omonima sulla Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng e pubblicata dall’Editrice La Scuola. Non è difficile, come sovente accade parlando dei propri maestri, ritrovare nelle parole di Perrini su Modugno un profilo in controluce di se stesso. Caratteristica, questa, che in Perrini è particolarmente spiccata: anche parlando degli autori più distanti nel tempo, i classici, la cura filologica è il tronco su cui egli innesta sempre uno sguardo – una rilettura – che se li fa contemporanei.

Di Modugno, che vive a Bari tra il 1880 e il 1957, scrive nell’incipit della voce menzionata: «Scelse da giovane di essere socialista, quando il socialismo era un ideale di sacrificio – siamo nel 1990, si noti –, e di servire il popolo nella scuola. Pedagogista attento all’incidenza della politica, ravvisò nell’educazione morale il fulcro della promozione umana. Pervenne, infine, sul finire degli anni ’20, alla fede nel Cristo dei Vangeli, aderendo al cattolicesimo di Manzoni, Rosmini, Don Bosco e Newman. Da allora la sua opera assunse sempre più il duplice carattere di appassionata difesa della dignità umana contro i “tre pilastri del totalitarismo” (comunismo, fascismo e nazismo), la più tipica forma di neopaganesimo del XX secolo, e di apologia pedagogica del cristianesimo. Profonda fu la sintonia con l’amico tedesco Fr.W. Förster e, negli ultimi anni, con J. Maritain» (vol. IV, col. 7812). Un percorso di letture e di riflessione che Perrini ripercorre sulla scia del maestro, anche se differenti sono gli autori su cui principalmente scriverà nei libri. Ma se si fa attenzione ai nomi menzionati nei “Detti e contraddetti”, si vede che tutti questi autori vi hanno un peso notevole.

Perrini si sofferma pure sulla diretta riflessione di Modugno intorno al Mezzogiorno. Ma ciò che più preme rilevare è come egli evidenzi le tesi circa il rapporto tra educazione e democrazia formulate nel 1917 da Modugno nel volume Il programma scolastico della nuova democrazia. La scuola va estesa a tutti: «una scuola che si prolunghi per tutti oltre le elementari e che privilegi con la formazione civica e professionale l’iniziazione all’umano, cioè alla vita dello spirito che è fatta di poesia e di pensiero, di tolleranza, di fraternità, di gentilezza d’animo, di devozione a una causa superiore all’utile dei singoli o dei clan» (col. 7814). Per Modugno, prosegue Perrini, «la “questione sociale è anche, e non in via secondaria, un problema di educazione della persona a documentarsi, a ragionare, a prendere possesso delle sue capacità e ad esercitarle al più alto grado». Senza cedere «alla tentazione della violenza e al mito della dittatura liberatrice», la scuola deve aiutare il popolo ad accedere alla «consapevolezza della sua dignità morale». Per parte sua «il socialismo deve incorporare le conquiste della rivoluzione liberale e cercare la giustizia sociale attraverso la democrazia. La democrazia, però, si svuota e lavora alla propria fine se rinuncia alla sua idea-forza, che non è “la gara degli agi”, ma la promozione di tutti i membri di una collettività, a cominciare dai più indifesi» (ibidem).

Perrini segue l’evoluzione del pensiero di Modugno anche in campo filosofico, con il superamento delle posizioni storicistiche e un progressivo orientamento verso il «realismo spiritualista» (col. 7815) e una concezione della verità come «inclusiva e non esclusiva». Solo con la conclusione del ventennio fascista Modugno può tornare a «educare alla democrazia come forma di convivenza e ideale etico-politico, a mostrare agli educatori il disumanesimo dei “tre pilastri del totalitarismo”, ad insegnare l’arte del dialogo e della integrazione dei veri. Egli fu per molti una presenza stimolatrice e un testimone dell’umanesimo cristiano, contro ogni miopia conservatrice così come contro i guasti del clericalismo e le perversioni del totalitarismo». Da ultimo Perrini ricostruisce la rete dei rapporti sviluppati da Modugno, che poi è la medesima che porta a Brescia lo stesso Matteo Perrini. Incontri e scambi ha a partire dall’autunno del 1943 con G. Salvemini, don P. Mazzolari, G. Miglioli, A. Olivetti, A. Moro e i pedagogisti N. Petruzzellis, V. Chizzolini, G. Calò e A. Agazzi.

(introduzione di Rodolfo Rossi)

La stella della scuola sul latifondo[1]


[1] Pubblicato su una rivista di pedagogia non identificata presumibilmente nel 1946. La nota in premessa dice: “Abbiamo pubblicato un articolo che è un’opportuna rivalutazione del Mezzogiorno e delle sue possibilità spirituali. Pubblicheremo via via documenti e relazioni sulla realtà scolastica e sociale del Sud. Ecco un’autentica pagina di un caro giovane tarantino. É un’esperienza rivelatrice. Perché è proprio davanti a un Presepio che si ripensa alla giustizia dei poveri e al vero rinnovamento sociale, in Cristo. Sollecitiamo gli amici ad inviare altre pagine sincere alla Rivista, che non ha come centro né il nord né il sud, ma tutta l’anima dell’educatore italiano”. L’articolo è firmato M.P.

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Nell’Avvento del 1945 mi giunse la nomina di supplente in una scuola rurale del mio Mezzogiorno. La mia scuola cadeva sotto la giurisdizione di uno dei «fattori» del Marchese. M’accorsi subito di trattare con un uomo di ottime qualità native, contorte purtroppo da quel «sistema» feudale e spagnolesco che, inceppando la vita di gran parte del popolo meridionale, contribuisce potentemente a porlo in un tragico complesso di inferiorità. Quest’uomo, che io vidi piangere dirottamente ascoltando la lettura de’ «Fratelli Karamazov» di Dostoevskij, doveva «distaccarsi» dai mezzadri che da lui dipendevano, trattarli a distanza. Sempre intimamente preoccupato di adattarsi al nobile «padrone», doveva imitarlo verso i mezzadri i quali, a loro volta ci tenevano a farsi chiamare «padroni» dal pastore o dal misero bracciante: servendo tutti da schiavi e ciascuno cercando di comandare da despota, quasi per una segreta rivincita dell’umiliazione che si è costretti a subire.

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 La sera del mio arrivo in campagna, un ragazzo dodicenne mi accompagnò dalla fattoria a scuola, e, approfittando del buio, si prese una vendetta preventiva sul «maestro di scuola»: mi fece sprofondare malamente in un fossato. Ma il caro Michele, orfano di padre, lontano dalla mamma, a servizio di estranei, fu conquistato dalla mia carezza, e il giorno seguente mi confessò il brutto tiro giocatomi e mi rivolse la domanda più bella ch’io potessi attendere da lui: «Mi insegni a leggere e a scrivere? Verrò da te un poco. Ogni sera, dopo il lavoro!». Ma la gioia di aver imparato a scarabocchiare il suo nome e i primi numeri, anche se sopraffatto dalla stanchezza, al lume fioco di un lucignolo alimentato da sentina d’olio, si tramutò ben presto in lacrime di rabbia: il massaro più anziano gli rese impossibile quel sacrificio a lui pur tanto caro, anticipandogli di due ore la sveglia e tenendolo impegnato fino a tarda ora la sera. Ecco la conclusione logica della vigente… gerarchia dell’oppressione! … Quando potevo, prima di ritornare alla scuola-dormitorio, entravo nella stalla per baciare in fronte quel fanciullo che, accucciato, dormiva su di una brandina di assicelle, non svestito, riscaldato dal fiato velenoso degli animali che ruminavano; spesso ho colto sulle sue labbra un inconscio sorriso: sognava forse una carezza materna, o trasfigurava fantasticamente in vittorie quei violenti ed aperti moti di ribellione che, durante il giorno lo avevano sconvolto e rattristato dinanzi all’asprezzadi un comando, alla viltà di un abuso, alla dolorosa cecità di un’ingiuria.

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 Alla residenza marchesale io mi recavo in bicicletta ogni domenica, per ascoltare la messa, in una antica chiesetta. Le pubbliche accoglienze fatte al maestro furono solenni: non deve la gleba convincersi che le persone «per bene» e «quelli che sanno» stanno tutti da una parte e che le stesse scuole sono frutto generoso dell’illuminismo padronale? Ma il marchese, che pur si fregiava del titolo ad honorem (!) di «avvocato», avendo capito che le mie preferenze erano per lo studio e che ignoravo la caccia, non esitò a manifestare il suo disprezzo per gli «idealisti gratta-nuvole». Né dimenticherò mai la sgradita, malcelata sorpresa dei figliuoli del marchese che, in visita turistica alla mia umile e umida scoletta – ne fui malato dopo, per due anni – scoprirono tra i libri un fascio di riviste che portavano un motto pericoloso: «Né la monarchia, né il conservatorismo ci attireranno mai nella loro orbita ». Come potevano conciliarsi quelle tendenze del maestro col fatto ch’egli faceva la comunione ogni domenica? Ah, sì, doveva essere proprio… un sovversivo quel giovane che ogni pomeriggio conversava sul Vangelo coi pastori comunisti riuniti a quotidiano convegno per abbeverare le pecore: ero un eretico, un cattolico… comunista!

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 Due settimane prima del Natale si lavorò a preparare cori di fanciulli e di contadini, a  scavare e ad impastare la creta, a fare e rifare ponti e grotte, animali e Re Magi. La Vigilia tutti si dettero appuntamento alla scuola: fu una festa bellissima, originale, ordinata. Io tacqui; parlarono i fanciulli che, con le loro poesie, dissero a Gesù i loro propositi, affidarono alla Sua benedizione il lavoro e le speranze dei familiari, e, mentre invocarono da Lui la forza di non rassegnarsi alla ingiustizia perché l’ingiustizia è un male e cedere al male è peccare. Gli dissero «Grazie» per il privilegio concesso ai bimbi e ai poveri nell’economia meravigliosa del Suo Regno. Insieme pregammo per l’affratellamento di tutti gli uomini nella divina eguaglianza del Vangelo. Che cosa passò nella mente della famiglia marchesale, per la prima volta, senza saluti e auguri speciali, accomunata da «un maestro di scuola» alle famiglie ch’essa sfruttava, i cui ragazzi osavano con semplicità e carità indicar loro la via della salvezza? Nacque anche in loro Gesù? Se la voce della scuola popolare cristiana non trovò pratica risonanza nei cuori «padronali», essa fu generosamente raccolta da tutti gli altri come un’alba di vita nuova.

 


[1] M. Perrini, L’Umanesimo cristiano fonte di ispirazione e stile di vita. 1976-2001. Nel