L’antica Roma costruita sulle diversità

Non è mai esistito un gruppo etnico romano puro, neanche nel senso in cui si parla di Sabini o di altri popoli dell’Italia antichissima. È esistita invece una civiltà romana, frutto dell’integrazione nel tempo di popoli diversi. La leggenda delle origini è emblematica a questo proposito. Romolo fonda una città vuota, nel senso che non ha dietro a sé un gruppo da stanziare. Per riempirla, chiama uomini da ogni dove e di ogni risma. Per rimediare alla mancanza di donne, interviene il ratto delle Sabine. A questo non segue una guerra interetnica, ma al contrario la fusione di Romani e Sabini, mediatori politici le donne stesse. Così il destino della città e poi della repubblica è segnato lungo la via dell’integrazione, per assorbimento e arricchimento insieme. L’omogeneizzazione a volte segue, a volte precede la conquista. Tuttavia a un certo punto, quando si è formato uno zoccolo duro di romani, che si sentono esclusivamente tali, comincia la resistenza a nuove integrazioni alla pari, alla quale non derogano le concessioni individuali o a piccoli gruppi della cittadinanza romana, cioè alla pienezza dei diritti nello Stato. La resistenza si traduce e si identifica anche nella distinzione tra patrizi e plebei, con le relative lotte di parte. Sono significativi a questo proposito due episodi, che si succedono a distanza di mezzo millennio l’uno dall’altro, il discorso di Canuleio e quello di Claudio. Intorno al 445 a.C. il tribuno Canuleio difende la sua proposta di completa equiparazione tra patrizi e plebei nell’elettorato passivo. Il suo intervento è rielaborato e letteraturizzato da Livio nel c. 3 del libro quarto dei suoi Annali. Nel testo si leggono almeno tre passaggi significativi: nei secoli precedenti Roma, non solo ha concesso la cittadinanza a popoli ex nemici, ma ha addirittura portato al potere gli stranieri; il secondo re era sabino (Numa Pompilio è un cofondatore della città, perché, se Romolo le ha dato le istituzioni civili e militari, Numa ha gettato le fondamenta morali e religiose); uno stato progettato per durare deve rinnovare continuamente le sue istituzioni e il ius gentium, cioè il complesso dei diritti civili; il criterio di scelta per l’integrazione non deve essere etnico, ma morale: molti romani si comportano peggio degli stranieri. Questo nobile discorso richiama quello dell’imperatore Claudio, quando deve affrontare l’opposizione senatoria all’inserimento nel supremo consesso di personaggi eminenti e meritevoli della Gallia Comata, già cittadini romani. Il discorso riportato da Tacito (Annali XI, 24) non lascia sospetto di totale invenzione letteraria, perché una copia, benché frammentaria, del discorso reale è stata trovata incisa su una stele a Lione. Nella abbreviazione tacitiana Claudio tace sulle eventuali qualità negative dei romani, ma sottolinea la logica storica delle innovazioni e si dilunga a fornire un elenco di popoli via via introdotti nella Romanità: prima dal centro sud, poi da tutta l’Italia, in seguito dalla Transpadana e fin dalla Spagna e dalla Gallia Narbonese. L’integrazione non si limitava a singoli, ma riguardava intere province, proprio perché si amalgamassero le zone e le genti nel loro insieme. L’opposizione aveva inutilmente opposto i privilegi storici del Centro, considerando uno strappo già l’integrazione dei Transpadani. Ma non sempre la diffidenza verso l’integrazione era dettata da egoismi nazionalisti o di classe. Una pagina singolare si legge nell’Agricola tacitiano. Il governatore della Britannia negli anni ottanta vi esercita una politica illuminata: blocca gli abusi e le umiliazioni ai danni dei provinciali, fa educare i giovani nobili nelle arti liberali, sovvenziona la costruzione di templi, piazze e case, fa opera di promozione (egli pensa) alla pace. Il risultato è straordinariamente rapido e inatteso. La gente non solo impara il latino, ma aspira all’eloquenza (e si sa l’ostilità di Tacito verso lo stato di corruzione di quest’arte), adotta il modo di vestire romano. Gradatamente cede al fascino dei vizi, alle raffinatezze dei portici, dei bagni e dei conviti, E questo, che essi ingenuamente credevano civiltà, era invece un aspetto del loro asservimento. Questo quadro è tanto più severo in quanto Agricola era suocero di Tacito, che a lui dedica il libretto omonimo con intento elogiativo. Eppure il governatore era uomo d’antico stampo, che viveva modestamente nonostante il suo ruolo, univa in sé virtù civili e militari senza contrasto, e obbedì all’ordine di Domiziano di ritornare cittadino privato abbandonando la spedizione vittoriosa e il governo, esempio raro al suo tempo. Evidentemente l’indice accusatorio dello scrittore è puntato sulla società romana nel suo complesso. Implicitamente le si nega la capacità di favorire una corretta integrazione (sottinteso: se prima non riforma se stessa). Per non giudicare Tacito un misoneista o un razzista, bisogna considerare il punto di vista, da cui lo storico si pone. Egli è certamente un conservatore, che considera virtù proprie dei Romani quelle che la tradizione attribuiva agli antichi: laboriosità, sobrietà, disciplina, senso dello Stato. Invece al suo tempo i romani, specialmente quelli della capitale, se poveri, vivevano di sportule e di clientele, se ricchi, sprofondavano nella cortigianeria e nel benessere. Molti si ritiravano dalla vita pubblica, e in genere trionfava l’individualismo. La diffusione di una simile civiltà doveva pertanto considerarsi un male sociale. In questa prospettiva i popoli barbari paradossalmente apparivano più vicini ai romani antichi e come tali destinati a sopraffare una civiltà ormai in declino. Solo la loro disorganizzazione statuale allontanava per il momento questo pericolo. Qualche traccia degli antichi costumi si poteva trovare in provincia: Tacito annota il disagio, in cui trovavano al tempo di Nerone i provinciali venuti nella capitale per affari, quando erano coinvolti in manifestazioni pubbliche. Questa miglior valutazione della periferia rispetto al centro risponde a una verità storica. L’impero romano deve in gran parte la sua longevità al continuo ricambio regionale e culturale assicurato dalla periferia vicina e lontana, dall’Italia Settentrionale prima, dalla Spagna, dalla Gallia e fin dall’Africa poi, per indicare solo alcuni poli di provenienza. Infatti forze sempre nuove erano meno intaccate dalla decadenza.

Giornale di Brescia,19.11.2004