Le carceri in Italia: un problema di coscienza

Autori: Melesi Luigi

Dovrò usare talvolta la parola “delinquenti”, ma non è giusto chiamare così quei nostri amici che sono nelle carceri, anche quelli che hanno commesso errori gravi.

Che il carcere sia un problema è evidente, e lo è in modo particolare in Italia, per il ministero di Grazia e Giustizia, per i direttori generali e per tutti i magistrati che operano all’interno di questo ministero.

E’ un problema per tutti quelli che vivono in carcere: direttori, agenti di custodia, educatori e così via. Anche il prete deve “star dentro” ai muri di una istituzione che reprime l’uomo, lo imprigiona.

E’ un problema per tanti cittadini, che però in genere sono curiosi, un po’ come davanti ad uno spettacolo televisivo poliziesco.

E’ un problema perché può angosciare la società di oggi. Credo che a Milano si chiedano: “Se scappano tutti i 1400 detenuti di San Vittore, cosa succede?”.

E’ un problema, gravissimo, per i detenuti. Credo che loro lo percepiscano più di ogni altro, perché lo vivono sulla loro pelle. Lo dico già in partenza: solo chi lo sperimenta può capire. Diversamente rimane un problema a livello di conoscenza, ma non a livello affettivo. Sentendo parlare del carcere c’è sì, da parte nostra, un certo coinvolgimento, ma in modo molto diverso rispetto al detenuto privo di libertà, solo, che si trova davanti ad un buio assoluto e non sa come finirà la sua avventura.

Dovrebbe essere un problema per ogni uomo, ma soprattutto per ogni cristiano: se non riconosciamo che esiste un Padre, Dio, e che siamo legati tra di noi da un vincolo di fraternità, il cristianesimo perde in credibilità.

Il giorno in cui dirò: “Là dentro c’è un uomo che, poiché ha sbagliato, non è più mio fratello”, allora io non sarò più cristiano.

Nel messaggio cristiano evangelico è detto ripetutamente che chi sbaglia è un fratello da salvare: il figlio prodigo, scappato da casa, ad un certo momento ritorna; il padre organizza una festa ed il figlio che era rimasto in casa si arrabbia, si ingelosisce e se ne va; allora il padre gli corre dietro e lo chiama: “ Tu avevi tutto, la mia casa era tua”, e per giustificarsi usa quell’argomento che è poi di Gesù Cristo: “E’ tuo fratello”.

Amici carissimi: in carcere ci sono i nostri fratelli! Questo è un messaggio per i cristiani. Per chi non è cristiano questo discorso può anche far inorridire; ma trovo persone non cristiane che dicono: “A me non interessa che sia mio fratello, è un uomo!”. Una persona che la pensa a questo modo è molto più cristiana di tante altre che magari vanno a messa, ma non sentono questo come un problema.

Forse non è un problema, per molti, perché è una realtà poco conosciuta o presentata in maniera sbagliata. I giornali ci presentano queste persone come dei mostri; badate alla cronaca nera: è sempre un mostro chi sbaglia, che sia il medico, il farmacista, il truffatore, lo spacciatore, il drogato; queste persone sono sempre presentate con tinte mostruose, e sempre colpevolizzate prima che siano giudicate. Può darsi che al processo siano assolte non per insufficienza di prove, non per mancanza di indizi, ma perché non hanno certamente commesso il reato. In realtà la stampa ha bisogno di avere materiale che attiri l’attenzione: diversamente il pubblico non compra. Di sera a volte vedo le edicole a Milano: la gente va a curiosare nel giornale della sera e quando vede che non c’è niente di speciale dice: “Che razza di giornale è questo?”. Alcuni amici che qualche volta assistono con me ai programmi televisivi, quando non c’è il fattaccio si arrabbiano con quelli della televisione. Qui c’è una deformazione: un uomo non può vivere sul male degli altri e star male perché vede che gli altri non commettono il male! E’ un sentimento diabolico!

Credo che ciò sia dovuto alla cattiva informazione, così frammentaria, fatta di slogan. Chi informa non ha mai provato a stare in carcere. Ci sono stati reportage, c’è stato qualche libro (forse più all’estero che non in Italia), ad ogni modo sempre notizie filtrate, manipolate, strumentalizzate, certamente insufficienti per conoscere realmente questo grave problema, su cui dovremmo riflettere anche alla luce del Vangelo.

Questo problema nasce dal clima di paura e di insicurezza in cui viviamo, alimentato anche dall’estendersi della delinquenza e degli atti di terrorismo. Purtroppo tutti questi gesti sono super esaltati, ed io capisco questo. Non capisco invece l’esaltazione del male fatta dai mass media qui in Italia.

Talvolta incontro qualche detenuto che vive orgoglioso perché sul giornale hanno parlato di lui e l’hanno esaltato.

Certe riviste, poi, fanno queste cose solo per una qualche morbosità economica. Ricordo che ad un detenuto famosissimo ho detto: “Tu non sei come ti hanno dipinto. Tua madre ti ha cresciuto bene, sei un ragazzo come si deve, ed ora stai recitando una parte che ti hanno dato, a mio parere, i giornalisti. Sei un burattino”. Questi mi guarda e dice: “Sei anche uno psicologo oltre che un prete”. “Non c’è bisogno di essere psicologi, basta avere gli occhi aperti. Tu stai facendo quello che hanno detto e scritto di te i giornali”.

Occorre conoscere la psicologia di questi ragazzi, poiché ha delle reazioni opposte a quelle che può avere chi ha vissuto un’infanzia “normale”; dire “sei cattivo” ad un ragazzo che è cresciuto in una certa maniera è un’offesa; se lo dici a uno di questi, che ha vissuto invece secondo un’altra logica, dentro ad un altro tessuto sociale, risponderà: “Finalmente qualcuno me l’ha detto! È quello che aspettavo”.

Quanti sono quelli che conoscono questo modo di pensare di chi è dentro le carceri?

C’è un grande maestro che insegna a capire i detenuti e credo che la sua parola sia valida ancora oggi: Fedor Dostoevskij. Io lo leggo ancora moltissimo: mi ha insegnato tanto anche sui detenuti nelle carceri d’oggi.

Ma Dostoevskij il carcere l’ha vissuto, è arrivato alla pena di morte e l’hanno salvato in extremis. Ha fatto quattro anni di lavori forzati in un carcere terribile, quello dello zar.

Leggete “Memorie da una casa di morti” e capirete la psicologia di chi ha sbagliato, di chi è dentro questa spirale di violenza. Ho l’impressione che invece chi scrive sui giornali d’oggi non conosca la psicologia del detenuto e soprattutto non si senta coinvolto nella sua sofferenza.

Vorrei dire qualche cosa sull’efficacia del carcere e sul rapporto che dovrebbe stabilirsi tra noi e coloro che sono dentro.

Parlerò in modo particolare del carcere di San Vittore, dove mi trovo da quattro anni, ma farò qualche riferimento anche ad altri carceri che ho visitato: in America Latina, in Perù, in Bolivia, in Brasile e qui in Europa, per esempio in Germania. San Vittore è un carcere giudiziario, dove si dovrebbero trovare i detenuti in attesa di giudizio; ci sono poi i carceri penali e i carceri mandamentali. Questi ultimi dipendono direttamente da un pretore; sono piccoli carceri nei quali di solito ci sono detenuti in stato di semilibertà: vanno a lavorare il mattino e rientrano la sera.

A San Vittore dovrebbero esserci persone detenute in attesa di giudizio. Quindi non si sa ancora se queste siano colpevoli o meno, perché fino a quando non è espresso un giudizio da parte del giudice, per la legge italiana una persona non deve essere considerata colpevole.

In realtà un uomo in quella posizione è immediatamente considerato colpevole.

Quando uno arriva a San Vittore nessuno si chiede se egli sia colpevole o innocente: “Se l’hanno portato, vuol dire che è colpevole” dicono.

Pensate che in istruttoria, o al termine del processo di primo grado, esce il 52% dei detenuti che non hanno commesso il reato e che sono stati rilasciati per mancanza di prove.

Ci sono circa 40000 detenuti in questo momento nelle carceri italiane: è difficile saperlo con esattezza, il numero cambia da un momento all’altro. Pensate che a San Vittore oggi magari escono 30 detenuti e domani, di colpo, ne entrano 100 che erano già lì, e trasferiti in un altro carcere ora ritornano per il processo. A San Vittore passano circa 10000 persone in un anno; insieme a queste ci sono migliaia di famiglie che vivono questo problema angosciante.

A San Vittore ci dovrebbero essere detenuti in attesa di giudizio: in realtà ci sono quelli che hanno già affrontato il processo di primo grado, quelli che hanno già avuto il processo d’appello (e sono ancora lì poiché dipendono dalla cassazione) e anche detenuti definitivi.

Non conosco il motivo di questo caos, ma ritengo vi sia disorganizzazione dell’istituzione giudiziaria italiana. Un giudice, presidente della sezione decima o nona di Milano, mi diceva: “La cosa più illegale è che nelle carceri ci sono detenuti che noi giudici non sappiamo essere dentro; a qualcuno facciamo addirittura il processo e lo condanniamo magari con aggravanti perché è assente, mentre costui è in carcere. Noi chiudiamo il processo e tutto è fatto. Ma non sapendo che egli è in carcere, nessuno gli segnala che il processo si è svolto e le cose risultano poi così ingarbugliate che più nessuno riesce a trovare il capo della matassa”.

In Germania, nel carcere di Colonia, se un detenuto vuol sapere la sua posizione giuridica, basta che ne faccia domanda; si compone allora nome e cognome di questo detenuto e appare una scheda con la sua posizione giuridica: per cosa è stato condannato, quanto ha già scontato, quanto gli rimane da scontare e in quali carceri è stato; e d’ufficio, ogni due mesi, viene presentata ad ogni detenuto la sua posizione giuridica. Questo è un segno di civiltà.

A San Vittore qualcuno è dentro da otto, nove, dieci mesi e non sa niente di se stesso. Qualcuno aspetta di essere interrogato dal giudice, mentre è già stato interrogato dal P.M. appena arrivato. Lui, pieno di paura ha detto una cosa, ne ha dimenticata un’altra e vuol ora chiarire le sue posizioni. Così scrive al giudice una, due volte ed il giudice pensa: “La legge mi dà molto tempo, posso aspettare anche dieci mesi, senza essere contro la legge”. Ed ha anche ragione se considera la legge più importante dell’uomo.

Ma io vorrei che tanti giudici alla fine della vita dicessero come Mosè (non so se nella Bibbia egli l’abbia detto, ma nel racconto televisivo il regista gli fa usare questa espressione): “Mi dispiace, o Signore, di avere amato più la legge e meno gli uomini a cui essa era indirizzata”.

La vera legge resta sempre e soltanto l’uomo, non le cose che noi scriviamo; pensate poi che in Italia le leggi sono oltre centomila! Quale giudice conosce centomila leggi?

Dichiara il Presidente della Cassazione: “Dobbiamo rendere semplicissima la legge, tanto che i bambini di seconda elementare la possano studiare a memoria e praticare”.

Non è possibile tenere in piedi un’istituzione con tutte queste leggi: pensate che se tenessimo conto di tutte le leggi parecchi di noi dovrebbero essere in galera; io stesso sono stato condannato da un pretore, poi sono ricorso in appello e mi hanno assolto. Una volta ho avuto un processo anche qui a Brescia. Ma chi non sbaglia a questo mondo?

Molte volte sbagliamo senza saperlo; e un cittadino non può assolutamente ignorare. Ma ci sono centomila leggi! Capite in che razza di cabala ci troviamo?

A San Vittore ci sono sei raggi più una sezione femminile e una sezione infermeria. Fino a qualche tempo fa trovavate una corsia con cento ammalati, molto gravi e con malattie infettive, un cesso e due lavandini. Quando è venuto l’assessore Peruzzotti e ha visto tutto questo gli ho detto: “Lei dovrebbe stare un po’ qui come detenuto, così si renderebbe conto della situazione”. Non è possibile che a Milano esista una cosa del genere; nemmeno in America Latina ho visto situazioni simili: a La Paz, a Lima non c’è un carcere in questo stato di degrado.

Adesso il carcere milanese sta cambiando, probabilmente tra un mese entreremo in un centro completamente trasformato. Ma dobbiamo aspettare mesi per cambiare? E’ proprio vero che bisogna usare la violenza per modificare situazioni ingiuste? Ricordo una volta che ho incontrato il ministro Reale, quando ero nella casa di rieducazione ad Arese, perché egli non ci dava niente rispetto ai contributi concessi agli istituti di rieducazione dello stato: trentamila lire al giorno là dove non si faceva nulla e a noi 1200 lire ognuno. “Ci paghi almeno per il lavoro che facciamo; io non le chiedo trentamila lire, ma quattromila mi pare ragionevole”. Lui disse che non era possibile; allora io: “O lei arriva a quattromila lire o vengo con i ragazzi da Arese a Roma, regalo a tutti uno zaino di cubetti di porfido e vi spacchiamo tutti i vetri del Ministero. Poi metteteci in carcere!”. Il ministro Reale si mise le mani nei capelli: “Don Luigi, se anche i preti scendono in piazza a tirare le pietre!”. “Eccellenza, voi capite solo la violenza, chi usa la ragione è un fesso”.

Allora ha chiamato la persona incaricata, s’è informato su quanto gli dicevo: ricevutane conferma ha ordinato di darmi quanto chiedevo.

Ad ogni modo il carcere di San Vittore è inadatto e sprovvisto di cortili: pensate che i detenuti per motivi politici quando entrano sono messi dentro delle gabbie, come nello zoo. L’Arcivescovo, quando è venuto, mi è piaciuto moltissimo; è stato veramente un uomo, se n’è fregato di tutta la burocrazia e ha detto: “Io voglio stare con i detenuti”. Andava di cella in cella, stava insieme al detenuto, si faceva raccontare della famiglia; ha voluto andare nei cortili, in queste gabbie; passeggiava dentro col detenuto e si è accorto che lì ci sono uomini. Non bestie, ma uomini come noi, qualche volta migliori di noi, perché chi è dentro ingiustamente e accetta questa ingiustizia, oltre alla diffamazione che ne nasce, deve ingoiare un boccone ben duro.

Ci sono cortili che sono buchi, tutti in cemento, non c’è un filo di verde. Qualcuno parla del carcere di San Vittore come di un albergo. Sento queste frasi sul bus: “San Vittore, ecco qui l’albergo più bello di tutta la città”. Io rispondo: “Prova ad andarci per un po’ di tempo, se è così bello! Vai a rubare una cassetta di mele e visitalo: vedrai che bell’albergo!”.

Del problema più grosso del carcere di San Vittore parlavo al direttore, ora a Modena; gli chiedevo: “Lei che è stato qui in missione a sostituire il direttore ufficiale, cosa dice di questo carcere?”; e lui risponde: “Credo che la cosa peggiore sia la mancanza di comando, a livello di agenti di custodia come a livello di direzione”. Il direttore precedente, quando ha saputo che doveva andarsene ha cominciato a non interessarsi più del carcere; è stato lì ancora alcuni mesi, poi sono venuti altri che stavano 15 giorni, un mese o due al massimo, poi andavano via. Evidentemente se uno rimane 15 giorni non prende decisioni, al massimo firma documenti. Così siamo stati mesi senza direttore, e allo stesso modo le guardie hanno passato mesi senza un comandante: 350 militari senza il comandante!

Alla base c’è un altro grave problema che ha radici nell’istituzione: i direttori generali del Ministero di Grazia e giustizia sono tutti dei magistrati; i direttori delle carceri non sono dei magistrati, appartengono ad un’altra classe; un direttore delle carceri non arriverà mai a dirigere una divisione del Ministero. E c’è una tenace lotta tra di loro. Spesso domando ai giudici: “Lei che vi manda tanta gente, è stato qualche volta in un carcere?”. “No, io non ci sono mai stato”. “Ma come fa, allora? Se fosse una fogna lei manderebbe un uomo nella fogna?”. “No, io non lo manderei, ma lo mando in carcere”.

Qualcuno di voi adesso potrebbe accusarmi di fare polemica. Bisogna mettersi nella pelle della gente. Impariamo da Dio, che per capire l’uomo e per farsi capire s’è fatto uomo: è la legge dell’incarnazione. Se noi vogliamo capire l’altro dobbiamo quasi immedesimarci nella sua vita, lasciarci coinvolgere, al punto di sentire sulla nostra pelle le piaghe che sono sulla sua. Il coinvolgimento assoluto di Gesù Cristo insegna; per il cristiano dovrebbe essere altrettanto.

C’è anche un accordo non efficiente tra agenti di custodia e chi dirige a livello civile. Anche questi attriti vanno a scapito dei detenuti.

In Lombardia ci sono 17 carceri, più 5 carceri mandamentali. Non so quanti siano i detenuti che vi stanno dentro.

Perché la società ha inventato il carcere? Pensate che fino al 313, anno dell’editto di Costantino, per i cristiani era proibito fare il militare, l’agente di custodia e il giudice! Erano professioni incompatibili con il cristianesimo: il Vangelo dice che non si deve giudicare il fratello, che si deve “salvarlo”, che non si deve usare violenza.

Credo che le carceri ci siano per punire chi sbaglia, ma anche per vendicarsi. C’è nell’animo di tutti una punta di sadismo; dentro di noi, anche dentro di me, c’è un’aggressività negativa, la volontà di far del male a qualcuno e provare piacere nel poterlo sottomettere. Mentre invece l’articolo primo della legge dice che il carcere dovrebbe essere finalizzato al recupero! L’articolo di questa legge del ’75, un articolo meraviglioso, dice così: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad una umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina, non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o nei confronti degli imputati non indispensabili ai fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva (addirittura definitiva!). Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”.

E’ un articolo impeccabile, ma non è applicato perché non c’è ancora una politica secondo cui il carcere esiste per recuperare una persona. Chi agisce secondo questo criterio in carcere? Oltre al prete c’è ora una nuova figura che fa molta fatica ad inserirsi: l’educatore. Sono soprattutto giovani, molto sensibili al problema del detenuto: vogliono stargli accanto per capirlo e aiutarlo, per non spegnere quella piccola speranza che egli ha nell’animo, per non vederlo impazzire! Chiuso in cella oggi, domani, dopodomani, senza la possibilità di fare nulla, tenuto nell’ozio assoluto mentre l’unica passione è per lui il lavoro: questa è una forma di violenza, non un intervento per migliorare la persona.

Chiedo spesso ai detenuti come vorrebbero che fosse il carcere, ed è difficile trovare qualcuno che dica: “Io ho sbagliato, ma ora voglio andare a casa”. Spesso dicono: “Ho sbagliato, ed è giusto che io paghi; ma voglio pagare da uomo: fate in modo che la pena che sto scontando serva a me e alle persone che ho offeso, non che mi peggiori e mi renda ancora più rabbioso nei confronti delle persone che incontrerò fuori”. Ci sono certamente delle alternative, indicate anche in questa legge; ma probabilmente gli operatori che sono adesso nelle carceri non l’hanno ancora assimilata. Occorre trattare da uomini le persone se si vuole che cambino. La pena limitativa della libertà deve avere come scopo essenziale l’emendamento, la riabilitazione sociale di chi è lì dentro; si tratta, evidentemente, di operare profonde trasformazioni attraverso un intervento individualizzato. E’ l’articolo 13 di questa legge che dice, molto chiaramente: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità, per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa. Per ciascun condannato o internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare, ed è compilato il relativo programma che è integrato e modificato a seconda delle esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione. Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite unitamente ai dati giudiziari, biografici…”.

Un articolo impeccabile; ma quale carcere rispetta queste leggi? A San Vittore ci sono molti ragazzi appena diciottenni: arrivano terrorizzati in questa bolgia, chiedono una cella singola perché hanno paura. E’ angosciante la stessa struttura di questo carcere: una rotonda con tante braccia, piena di inferriate e urla; qualche volta si vede passare una barella per chi ha cercato di togliersi la vita. Non è giusto mantenere persone in questo stato. Non è possibile che si arrivi a rifiutare la vita, significa che tutto è sbagliato. Perché un uomo pur di vivere, come dice Dostoevskij, “accetterebbe di vivere su uno scoglio, o su un pezzo di tavola, sufficiente per metterci i piedi, in mezzo all’oceano, circondato dagli abissi, dalle tenebre”. Se un uomo arriva a togliersi la vita significa che la sua disperazione è massima, e un’istituzione civile non può portare una persona a questo stato.

Pensate all’ammalato di mente che arriva in un carcere: dovrebbe essere portato in ospedale, non in carcere. Invece lo buttano in cella senza che lui capisca nulla.

I detenuti sono meravigliosi nei confronti degli ammalati di mente, sono di grande dolcezza. Il detenuto, definito “delinquente”, è molto affettuoso nei confronti di chi è in condizione peggiore. E’ disposto a dare tutto, ha sentimenti di pietà, e chi ha sentimenti di pietà è cristiano, è pio; e io credo che siano tutti così, anche quelli che hanno commesso delitti gravi. Ma bisogna far esprimere questo sentimento umano che tutti hanno dentro; per questo è necessaria una logica radicalmente diversa da quella della repressione e della violenza: ci vuole la religione in carcere; la religione può trasformare il carcere.

Sentite cosa dice Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”: “Tutti questi invii ai lavori forzati preceduti da battiture non correggono nessuno, ma soprattutto non fanno paura quasi a nessun delinquente, e il numero dei delitti non solo non diminuisce, ma quanto più si va innanzi tanto più cresce. Voi ne dovete pur convenire. Ne viene che in tal modo la società non è salvaguardata perché se anche il membro dannoso è meccanicamente amputato e portato lontano da ogni sguardo subito compare al suo posto un altro delinquente, e forse anche due”. E’ davvero così. Potrei portare l’esempio della casa di rieducazione di Arese. A volte c’era lì qualche ragazzo che diventava insopportabile con il passare del tempo, così tanto che si proponeva di mandarlo via. Ma appena trasferito questo ne arrivavano due addirittura peggiori. E’ un meccanismo strano: in una società come la nostra la presenza del male è necessaria quanto quella del bene. Il male è necessario, diversamente non esisterebbe il bene.

E poi più avanti: “Se c’è qualcosa anche nel nostro tempo che preservi la società e corregga il delinquente stesso facendone un altro uomo, è ancora, sempre e unicamente la legge di Cristo, che si esprime nel riconoscimento della propria coscienza. Solo dopo aver riconosciuto la sua colpa come figlio della società di Cristo, cioè della Chiesa, egli riconoscerà la sua colpa anche al cospetto della società stessa. Pertanto è solo dinanzi alla Chiesa che il delinquente di oggi è capace di confessare la propria colpa, e non già dinanzi allo stato”.

Potrei dirvi nome e cognome di persone che si sono trasformate solo attraverso questo fattore religioso. Il carcere deve fare esplodere questa forza della personalità umana che è la coscienza.

E ce l’abbiamo dentro tutti: non esistono gli amorali costituzionali come qualcuno ha detto, perché ho incontrato persone che sembravano terribili e si sono rivelate poi eccezionali. Me ne viene in mente una conosciuta andando al penitenziario della Pianosa. Ero insieme a don Traversi e c’erano 5 detenuti dentro alla cella della nave. Chiesi al maresciallo che guidava il plotone di carabinieri che accompagnava questi 5 detenuti ammanettati: “Fammi entrare”, e lui: “No, tu non sai chi c’è lì dentro: c’è uno che ha ammazzato”. Allora gli dissi: “Ci sono dentro uomini come me. Probabilmente se tu avessi avuto la loro storia saresti dentro al loro posto e se loro avessero avuto la tua, probabilmente sarebbero qui con la divisa. I condizionamenti sociali e familiari sono molto pesanti nella vita di una persona. Non sono gli unici, certamente, però incidono molto”.

E questo mi disse: “Hai ragione, ma non posso farti entrare, lo impedisce la legge”.

Allora presi il documento e gli mostrai che potevo entrare. Aprii i catenacci della porta e mi presentai: “Sono don Luigi, se…”. Appena ho detto questa frase il più vecchio ha iniziato ad invocare il Padreterno e tutti i santi del cielo alla sua maniera. Il più giovane (un triestino, lo ricordo ancora bene), disse: “Lascialo entrare. Prima di tutto non è vestito da prete, poi se preferisce viaggiare con cinque merde come noi e non star fuori con quelle belle ragazze in bikini, sul ponte a godersi il mare, il sole, il cielo, i gabbiani, vuol dire che ci vuole ancora bene. Vieni dentro, prete. Come ti chiami?”. Io ripeto: “Luigi”, mi siedo sulla paglia e li lascio parlare. Ad un certo momento dicono: “Dicci qualcosa anche tu, perché non parli?”. “Volevo ascoltarvi”, rispondo, “questi vostri racconti mi fanno stare male, non mi sembra giusto che voi dobbiate vivere così; adesso andate su un’isola, chissà quando rivedrete i vostri bambini, vostra moglie, non riceverete nemmeno la posta. E’ una vita da cani questa, non è più una vita umana”. Quando ci salutiamo quello che aveva bestemmiato ed imprecato mi chiese: “Fammi un regalo”. Gli domando: “Cosa vuoi?”. “Fammi pregare. Credo di avere pregato l’ultima volta il giorno che sono saltato definitivamente giù dalle ginocchia di mia madre. Fammi pregare”, e si mise in ginocchio insieme a tutti gli altri. Abbiamo detto il Padre Nostro, ma non siamo riusciti a terminarlo perché ci siamo messi a piangere tutti come vitelli e ci siamo abbracciati. Abbiamo vissuto un momento di verità: eravamo dei poveri diavoli sulla paglia, in ginocchio davanti a un Signore che è misericordioso per tutti, anche per loro. Ce l’hanno dentro tutti l’umanità, bisogna farla uscire.

Ora uno stato, a mio parere, è incapace di essere educatore dell’uomo perché ha un obiettivo completamente diverso: evitare il fallimento economico, è questa la sua grossa preoccupazione.

Non si preoccupa, lo Stato Italiano, di far crescere i bambini affinché diventino uomini, di dare la possibilità ai giovani di essere quello che sono e di esprimere quello che hanno dentro, perché è una legge economica quella che ci porta avanti.

E’ questa logica sociale che ci porta ad essere quasi costretti a ragionare in questi termini. Poi non aspettiamoci da un carcere che ne escano degli uomini; ne usciranno persone arrabbiate, perché quell’istituzione è repressiva, lega la persona, non le dà spazio né per parlare, né per difendersi, né per condividere le proprie emozioni; nega al detenuto anche il tempo necessario per incontrare i propri bambini. Quando penso ai figli dei detenuti, mi chiedo chi di loro loderà lo stato e sarà innamorato della società civile. Io credo nessuno, perché è più forte l’amore che quel bambino ha per suo padre di quello che potrebbe avere per l’istituzione e la società. Egli diventa così un nemico dell’istituzione.

Ci sono tante persone che arrivano in carcere per la prima volta e che magari prima di vederlo l’hanno sempre pensato come ad un luogo in cui si punisce, in cui le leggi devono essere severe e inflessibili.

Quando arrivano dentro cambiano subito parere: “Ero stupido -dicono- credevo che il carcere servisse per difendere la società, per rendere le persone migliori, per recuperare chi aveva infranto la legge. Invece adesso credo di essere un uomo peggiore, io che sono arrivato a 60 anni in carcere ora sto diventando cattivo”.

Un uomo che mi piace ricordare, anche con compassione, è Dell’Amore. Ignoro se abbia sbagliato o meno, non voglio esprimere giudizi. Ma, prendere un uomo di ottant’anni, con un cancro, arteriosclerotico e sbatterlo dentro… non chiamate questa giustizia.

“Don Luigi, sei troppo arrabbiato, parla con più tranquillità, con più calma”. Mi lascio sempre coinvolgere, perché mi sento molto detenuto. Mi piace moltissimo stare con i detenuti; trovo che sono uomini veri, a cui è caduta la maschera. Dico loro: “In questo momento vi è caduta la maschera, prima eravate mascherati e adesso invece siete uomini”. Questo è incontrare l’uomo per quello che è. Il carcere spoglia di tutte quelle sovrastrutture dell’educazione, sbagliata o corretta che sia, che non permette di essere se stessi.

Negli incontri che facciamo con don Giorgio, il cappellano capo di San Vittore che lavora lì da 25 anni, ci troviamo con i detenuti a leggere la Bibbia. Ed ho fatto la scoperta che la Bibbia è stata scritta per i detenuti, non per gli uomini liberi. Moltissimi libri della Bibbia sono stati scritti mentre gli Ebrei, il popolo di Dio, erano schiavi e prigionieri. Capisco tutti i parallelismi, i confronti e le metafore nei confronti della detenzione, della repressione, della deportazione. A tal punto che –penso- per capire veramente la Bibbia bisogna avere la psicologia del detenuto. Diversamente la capirà poco. Questa è una considerazione nata parlando con loro.

Il Vangelo dice di non giudicare per non essere giudicati, di non condannare per non essere condannati, di perdonare per essere perdonati. Il perdono è la legge fondamentale del Cristianesimo, è la legge che lo distingue da qualsiasi altra religione. Non la vendetta, non la punizione, ma il perdono, un gesto di misericordia e d’amore. Questa è la logica del cristianesimo. A mio parere, chi rifiuta questa legge fondamentale del perdono brucia almeno metà della dottrina cristiana.

I ladri che ci sono in questa società, lo dico spesso, sono la mano sinistra di Dio: quando si è troppo attaccati ai soldi si è disposti a tutto… Don Bosco diceva a Parigi, nel 1800: “Ricordatevi che se voi non aiutate i ragazzi adesso prevenendo il male, prevenendo la vita delinquenziale che forse faranno, se voi ammucchiate i soldi nelle banche e non li date a questi poveri miserabili, loro verranno gentilmente a chiedervi i soldi con una pistola”.

E davvero le condizioni di vita di molti fra quelli che sono nelle carceri sono state negative fin dalla loro nascita. Anche se è vero che non tutti quelli che sono nati nella miseria e nella povertà sono finiti nelle carceri; anzi, ce ne sono molti fra questi che sono cresciuti nell’onestà e troviamo d’altra parte persone che, vissute sempre in un ambiente di elevato benessere, che sono poi finite nelle carceri. Non è la miseria economica che produce la delinquenza, ma un altro tipo di miseria. Il Vangelo parla con chiarezza del perdono, ma dice anche di più: Gesù Cristo ha scelto di essere arrestato, di essere un detenuto. E’ andato in tribunale, ha subito due processi ed è stato condannato a morte come delinquente. Cristiani, non ci dice niente questa identificazione del Figlio di Dio nell’uomo più miserabile, il delinquente? Quando dico questo ai detenuti loro dicono: “Allora Dio è proprio dalla nostra parte, non è il Dio che ho sempre pensato!”. Se leggessimo il Vangelo in questa luce dovremmo cambiare modo di sentire e di vivere.

Che cosa si potrebbe fare? A mio parere si dovrebbero ridurre moltissimo i tempi del periodo preventivo, dell’istruttoria: non si può tenere un uomo per due anni in carcere prima che vada al processo e questo soprattutto in certi casi (ad esempio quando è reo confesso). Quando una persona sa quale futuro la attende si tranquillizza, si organizza la vita psicologicamente: “So di dover affrontare dieci anni di carcere; li affronto”. E’ il non sapere niente, il buio che rende pazza una persona.

”Honeste vivere, alterum non laedere”. Tra l’altro un detenuto il carcere lo paga. E se qualcuno non ha soldi lo perseguitano fino a quando non li trova: gli ipotecano la televisione, i mobili, la casa.

Una seconda cosa che ritengo fondamentale per le carceri è il lavoro, quello educativo. I paesi dell’Est hanno tutti il lavoro obbligatorio, forzato o non forzato; per me è molto più educativo e umano dare lavoro ad una persona che non tenerla nell’ozio assoluto per anni e quando esce dirle di andare a lavorare.

Bisogna farli lavorare, e magari congelare loro quello che guadagnano. In Germania usano questo sistema: danno uno stipendio pari a quello delle tabelle sindacali nazionali (se lavora 8 ore sia pagato 8 ore, se lavora come meccanico sia pagato come meccanico). I soldi però non se li prende il detenuto: vengono congelati; in un mese egli può spendere per le cose voluttuarie dodicimila lire. In Italia credo che possano spendere centomila lire.

I detenuti nelle carceri guadagnano circa trecentomila lire al mese. Se hanno una famiglia e figli da mantenere, spesso li mandano ai loro bambini.

Ci sono in carcere padri di famiglia che hanno due, tre, o addirittura, come quello che ho incontrato oggi, otto figli tutti minorenni.

Attraverso il frutto del lavoro i detenuti potrebbero risarcire chi è stato da loro danneggiato; questa sarebbe perfino una soddisfazione per loro. Credo che dare questa possibilità significherebbe dire: “Puoi ancora fare qualcosa di positivo nella vita”.

Sono favorevole all’istruzione, alla scuola, a una biblioteca civile nel carcere. Ho visto la biblioteca di Colonia: mi sembrava la biblioteca di un’università, c’erano una ventina di bibliotecari. In media il detenuto tedesco legge due libri alla settimana. A San Vittore c’è una biblioteca, ma non c’è nemmeno lo schedario. Un detenuto dice: “Portami un libro” e l’altro gli domanda: “Te lo porto da un chilo o da due?”. Un libro può essere un amico, in una cella leggere può essere importante, un uomo può scoprire valori che non aveva mai conosciuto prima. C’è chi legge le Confessioni di S. Agostino, chi altri la Bibbia, altri ancora il Vangelo.

Ricordo che un detenuto, dopo aver letto il discorso della montagna, è tornato e mi ha detto: “Don Luigi, devi farmi un favore: porta questo libretto al mio giudice e fagli leggere questa pagina: ‘Perché guardi la pagliuzza che sta nell’occhio di tuo fratello, quando tu hai dentro una trave?’ ”. Facendo conoscere loro la verità, facendoli ragionare e riflettere forse realmente questi ragazzi scoprirebbero nuovi valori. Magari proprio avendo un libro a portata di mano, con facilità.

Credo che anche l’incontro con le famiglie sia importante. Non saprei come risolvere il problema affettivo; so solo che i figli dei detenuti hanno bisogno del padre e il padre ha bisogno dei figli. E’ una legge di natura; io non so fino a che punto le leggi dell’uomo possano violare questa legge di natura, perché sarà difficile trovare una soluzione concreta. Forse proprio noi cristiani dobbiamo suggerire qualche cosa di nuovo per risolvere il problema delle carceri: il Cristianesimo ha delle proposte nuove, nella parola di Dio ci sono idee diverse rispetto a quelle di una semplice istituzione. Sarebbe sufficiente che nelle carceri ci fossero tante persone di buona volontà: la legge di cui ho letto quegli articoli dice che nelle carceri possono entrare tutti i cittadini italiani, purché entrino a svolgere una mansione, anche di volontariato: bibliotecario, educatore, organizzatore del tempo libero.

Io non so se realizzeranno mai una cosa del genere. Spesso viene tutto travisato: “Chi vuole entrare lo fa per interesse, magari perché vuol far evadere qualcuno”. Ogni iniziativa è occasione di sospetto.

Penso che le comunità cristiane possano scoprire di interessarsi del detenuto della propria parrocchia, o della famiglia che ha un detenuto. Stiamo vicino a queste persone, siamo accoglienti nei confronti di chi esce da un carcere e spesso non trova niente e nessuno.

Vi leggo quello che un detenuto, dopo essere stato rilasciato, ha scritto all’amico rimasto dentro: “Ti assicuro che non è facile; è da dieci mesi che non sono più nell’ambiente e non conosco più nessuno. C’è un mucchio di gente nuova in giro, l’ambiente è squallidissimo, quasi paranoico. Non sto esagerando, Marietto, credimi; sono sbalordito, frastornato, non ho la minima traccia e indicazione per scovare una soluzione reale valida e vantaggiosa per la mia vita. Se me lo avessero detto prima, io non avrei mai pensato che sarebbe stato così duro uscire. Mi immaginavo che non fossero rose e fiori, ma non mi aspettavo questo. Non ho ancora incontrato nessuno che possa meritarsi l’appellativo di amico, anzi ti dico che ho trovato addirittura persone che hanno tentato di approfittarsi di me… Ad ogni modo, doveva essere questa una lettera gioiosa, gaia, impregnata di un dolce profumo di libertà, invece è un grido lancinante di aiuto, un S.O.S.”.

Dopo poco tempo questo ragazzo è ritornato a San Vittore e si è impiccato. Forse proprio perché non ha trovato un fratello, una comunità che gli ha dato un piccolo segno di speranza.

Credo che sia molto importante ritrovare dentro di noi la capacità di aprire il nostro cuore, la nostra casa a chi ha veramente gravi problemi e dare loro una mano per venirne fuori.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 2.3.1982 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.